Presidenziali USA. La grande fuga dei repubblicani

Presidenziali USA. La grande fuga dei repubblicani

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Molti elettori conservatori di tendenze moderate, gli indipendenti e tante donne di destra che, contrariati o addirittura nauseate, dalla misoginia di Donald Trump, l’8 novembre decidono di astenersi dal voto per la Casa Bianca. E, così facendo, non vanno a votare nemmeno per deputati, senatori e governatori repubblicani, condannando molti di loro alla sconfitta. È questo lo scenario che terrorizza il Grand Old Party dopo l’ultimo scandalo piovuto sulla campagna di «The Donald»: lui che racconta il gusto che prova nell’assalire donne sposate, fare sesso a tre, prendere una ragazza con prepotenza e senza preamboli, forte della sua ricchezza e celebrità. È per questo che, dopo la diffusione delle registrazioni, decine di deputati e senatori repubblicani hanno tolto il sostegno al candidato del loro partito e molti di loro gli hanno chiesto addirittura di abbandonare la corsa alla Casa Bianca, lasciando che a sfidare Hillary Clinton sia il suo attuale vice, Mike Pence. Lui tiene duro, contrattacca, si gioca tutto nel dibattito della notte a St. Louis. Dopo il quale, stamattina, i leader del partito che, pur detestandolo, ancora lo appoggiano ufficialmente, si consulteranno per decidere.

Ma in queste ore della vigilia l’esodo è stato imponente. Fino a due giorni fa erano cinque i senatori di destra che si erano rifiutati di appoggiare Trump. Ma fino al primo dibattito, quello di fine settembre, i sondaggisti sostenevano che la scorrettezza e la scarsa popolarità dell’immobiliarista tra le donne e nell’elettorato indipendente non avrebbe danneggiato gli altri candidati in misura significativa. Dopo il confronto alla Hofstra University, però, i sismografi elettorali repubblicani hanno cominciato a segnalare scosse pericolose. E con le registrazioni la paura è diventata panico. In poche ore i senatori in rivolta sono diventati 16 (quasi un terzo della rappresentanza dei conservatori in quest’aula) e tra questi sono spuntati nomi di primo piano come l’ex candidato alla Casa Bianca John McCain e il presidente della conferenza dei senatori John Thune, il numero tre del partito, che ha chiesto al miliardario di lasciare.

Complessivamente sono una quarantina i parlamentari in rivolta contro il loro candidato che, però, replica colpo su colpo e invita i suoi sostenitori più leali a contrattaccare, forte dei primi sondaggi (quelli condotti da «Politico») secondo i quali la maggioranza degli elettori di destra, pur condannando le parole di Trump, non vuole che il partito lo abbandoni.

Ecco perché i due leader del Grand Old Party, lo speaker della Camera Paul Ryan e il presidente dei senatori, Mitch McConnell, pur condannando con parole durissime le cose dette da Trump («ripugnanti» secondo McConnell), per ora non hanno tolto il loro appoggio alla candidatura di «The Donald». «È comprensibile» spiega un anonimo dirigente del partito conservatore: «Se gli chiediamo di ritirarsi lui non solo resta, ma si mette ad attaccare noi anziché i democratici».

Insomma, non essendo riusciti a frenare la corsa del miliardario populista durante le primarie, ora i repubblicani si ritrovano col loro fronte spaccato da una guerra civile: se scaricano Trump perdono il sostegno dei suoi moltissimi fan e dei radicali, se continuano a sostenerlo perdono fette essenziali dell’elettorato centrista e di quello femminile.

I leader vorrebbero uscire dal guado ma non è facile e non solo per via della spaccatura del loro elettorato: i margini per un eventuale cambio di cavallo sono ridottissimi, forse addirittura inesistenti. Se Trump fosse costretto al ritiro si aprirebbe una crisi politico-istituzionale gravissima, senza precedenti. Anche ammesso che il Rnc, la direzione del partito repubblicano, fosse in grado di riconvocare rapidamente i delegati della convention e di arrivare al voto su Pence (scelta per nulla scontata), sarebbe poi impossibile cancellare il nome di Trump dalle liste: siamo a un mese dalle elezioni e i termini per le candidature sono scaduti da tempo, le schede sono state già stampate, in molti casi (400 mila, secondo gli esperti) i voti per posta sono già stati espressi. Dovrebbero essere, Stato per Stato, i tribunali a ingiungere al Segretario di Stato di riaprire i termini ignorando i vincoli di legge invocando un interesse istituzionale superiore. Ma probabilmente ogni giudice si regolerebbe a suo modo e i democratici farebbero ricorso. Toccherebbe, allora, alla Corte Suprema, oggi semiparalizzata.

Massimo Gaggi

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