by Angelo Mastrandrea, il manifesto | 19 Ottobre 2016 9:37
Ma cresce pure l’industria del falso. Le storie positive di Emmaus, Iris e Valle del Marro. E Alce Nero introduce l’«etichetta narrante» inventata da Slow Food
Il sud Italia è notoriamente terra di grandi contraddizioni economiche e sociali. Talvolta, pure di paradossi. Fianco a fianco con gli africani del ghetto di Rignano, ad esempio, lavorano i soci della cooperativa Emmaus. Sette anni fa, quando Nichi Vendola era alla guida della Regione, si videro assegnare 1.300 ettari di terreno appartenuti a una famiglia facoltosa del luogo. Sono partiti con un centro di accoglienza per minori disagiati e per tossicodipendenti e sono finiti a produrre biologico. Per la cofondatrice Rita De Padova l’agricoltura si è così riappropriata del suo ruolo di collante sociale.
A Rosarno, i soci della cooperativa Valle del Marro coltivano mandarini e producono olio rigorosamente bio nei terreni confiscati al clan Bellocco, mentre tutt’attorno gli immigrati della baraccopoli di San Ferdinando sono impiegati negli agrumeti della zona con paghe da fame e in condizioni di semischiavitù.
Nel casertano, i lavoratori delle cooperative che gestiscono le Terre di Don Diana confiscate ai Casalesi mandano le melanzane e zucchine raccolte nell’impianto di trasformazione da loro stessi messo in piedi, immettendo sul mercato magnifici sottoli biologici. In una masseria un tempo deposito di armi e sigarette del boss Michele Zaza ’o pazzo, si produce la “mozzarella anticamorra”, con la garanzia che il latte ha una provenienza certa. Attorno a loro, alle rotonde di Castelvolturno e sulla Domiziana, come pure nella piazza di Villa Literno, ogni mattina va in scena il mercato dei morderni schiavi: africani, bulgari e rumeni pronti a spaccarsi la schiena nelle campagne della cosiddetta Terra di lavoro.
Nelle pianure del basso Lazio, migliaia di sikh del Punjab respirano caldo e pesticidi nelle serre, mentre fioriscono aziende agricole biologiche.
Ma il paradosso vero sta nei numeri: le regioni del sud Italia sono quelle con il maggior tasso di sfruttamento degli immigrati e di lavoro nero, e nelle stesso tempo al primo posto in Italia per produzioni biologiche. Ma, paradosso dei paradossi, nel nostro meridione i consumi di prodotti biologici sono al lumicino: più facile trovare un miele low cost prodotto nell’est Europa che uno locale di qualità superiore e senza additivi.
«Quando ho chiesto spiegazioni in Sicilia, mi hanno detto che è perché da loro già si mangia bene», dice non senza ironia Maurizio Gritta, titolare del pastificio bio Iris di Casteldidone, in provincia di Cremona, che si serve anche di grani biologici forniti da agricoltori meridionali. Per smentire un luogo comune così diffuso, Gritta fornisce un dato: «La Sicilia consuma il doppio dei pesticidi rispetto alla Lombardia, per rendersene conto basta guardare un qualsiasi terreno coltivato, dove non c’è un filo d’erba». Paradosso ulteriore: nella regione che, dopo la Puglia, esporta più biologico, l’agricoltura convenzionale è pure la più drogata. Tutto ciò senza contare il falso biologico da una parte, denunciato da Report due settimane fa, e dall’altra l’utilizzo di fanghi industriali smaltiti come concime.
Ma come si fa a distinguere un alimento realmente biologico da uno falso? Report ha denunciato il «conflitto d’interesse» tra controllati e controllori, visto che gli enti di controllo sono pagati dai primi.
Per Lucio Cavazzoni, presidente di Alce Nero, uno dei più importanti produttori biologici italiani, i controlli non sono sufficienti. Piuttosto, bisogna «guardare negli occhi l’agricoltore», vale a dire che sia coinvolto e convinto di ciò che produce.
Il problema è che il biologico è ormai diventato un business redditizio. In un paese come l’Italia pericolosamente prossimo alla stagnazione, il biologico fa registrare crescite record: nel 2015 l’incremento è stato del 20 per cento, con una punta del 32 per cento in Emilia Romagna. Ai primi posti ci sono le regioni del sud: in Calabria, Puglia e Sicilia si registra la metà delle produzioni bio in Italia, nella quasi totalità destinate a finire sulle tavole dei consumatori consapevoli del centro-nord o esportate all’estero, in particolare nel nord Europa, con margini di guadagno più elevati rispetto a quelle tradizionali, falcidiate dalla deflazione.
Basti pensare che il costo del grano è crollato in appena un anno dai 35 ai 16 euro al quintale, mentre un chilo di arance viene pagato non più di 18 centesimi. Così, fiutato l’affare, ecco aggiungersi ai pionieri del bio (che in Italia risalgono alla fine degli anni Settanta) vecchi imprenditori convenzionali e pure la grande industria, pronta a inaugurare nuove linee per stare pure sul mercato del biologico.
La grande distribuzione si è adeguata: prodotti bio più o meno industriali si trovano un po’ ovunque, mentre solo la Coop ha lanciato una campagna, Buoni e giusti, dedicando ai prodotti biologici ed etici (come quelli provenienti da terre confiscate alle mafie) un apposito spazio nei suoi supermercati.
Jonathan Nossiter, autore del documentario Mondovino e del recente saggioInsurrezione culturale (Derive e Approdi), è convinto che «i numeri non spiegano molto, anzi rischiano di essere fuorvianti», perché danno conto del business senza entrare nei dettagli. Piuttosto che al biologico, specie quello industriale, sostiene Nossiter, bisogna guardare all’agricoltura biodinamica, che segue i principi «antroposofici» del filosofo austriaco Rudolf Steiner, o al concetto di «naturale», che identifica i prodotti legati a un territorio, senza additivi, figli della passione spesso artigianale di piccoli produttori e non omologati ai gusti appiattiti della cultura gastronomica globale.
Da quest’angolatura, le cifre del boom si riducono notevolmente. Ma ciò non vuol dire che il biologico certificato sia da rottamare o stigmatizzare. Insomma, bisogna stare attenti a non buttare il bambino con l’acqua sporca. «Il falso biologico è un problema, ma per fortuna si tratta di una minoranza», dice Cavazzoni. Alce Nero, a garanzia dei consumatori, ha adottato le cosiddette «etichette narranti» inventate da Slow Food: accanto alle indicazioni previste dalla legge, sulle confezioni dei prodotti si trovano informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o le razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale e sui territori di provenienza.
L’Iris non è da meno: i controlli sulle qualità organolettiche dei grani utilizzati, non solo dal punto di vista biologico, sono rigorosi. La cooperativa cremasca è diventata un vero e proprio colosso della pasta bio, segno che si può essere anche grandi senza perdere la purezza: duemila ettari di terreni coltivati a grano duro e tenero, grano saraceno, senatore Cappelli, mais, farro e legumi in 12 regioni da nord a sud d’Italia, 50 mila quintali di cereali prodotti e 210 mila quintali di pasta diffusi ogni anno in una ventina di paesi, quasi diciotto milioni di un fatturato realizzato per metà all’estero e in continua crescita, un investimento di 20 milioni nel nuovo stabilimento, costruito interamente in bioedilizia. Il tutto tenendo fede al progetto politico con il quale avevano cominciato nel 1978: diffondere la cultura del biologico in Italia, coinvolgendo gli agricoltori e convincendoli che produrre bio è conveniente per loro e fa bene a chi mangia e al pianeta. Perché in fondo, come sostiene Nossiter, «l’atto agricolo è un atto rivoluzionario», non un’operazione commerciale.
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