La lunga marcia dell’accoglienza contro Orbán

La lunga marcia dell’accoglienza contro Orbán

Loading

Il popolo ungherese ha detto no alla mobilitazione generale promossa dal presidente Orbán per respingere i profughi dal territorio nazionale e sottrarsi a una delle poche regole sensate, ancorché insufficienti, decise dall’Unione europea: una ripartizione tra gli Stati membri dei profughi “oggetto” di ricollocamento.

Ha detto no, quell’elettorato, nell’unico modo che gli era consentito: disertando in maggioranza le urne per far mancare il quorum al referendum, nonostante gli sforzi del governo e delle forze xenofobe, Chiesa compresa, per chiamare gli elettori alle urne, dato che una secca maggioranza di favorevoli al respingimento era comunque scontata. E’ un sistema odioso, quello di disertare le urne, quando è promosso da una istituzione ufficiale come un Governo: quello che è accaduto recentemente in Italia.

È successo in occasione del recente referendum sulle trivellazioni; è successo con il Vaticano e la Chiesa, in occasione del referendum del 2005 sulla procreazione assistita. Ma è invece il segno di una indubbia volontà di resistere al potere quando, come in Ungheria, nasce da una decisione controcorrente di una parte, per di più non organizzata, dell’elettorato.

Sarebbe pretestuoso attribuire a quel 57 per cento di elettori ungheresi che non sono andati a votare una posizione di netta opposizione alla politica governativa dei respingimenti; ma sicuramente a far mancare il quorum a Orbán è stato un consistente numero di cittadine e cittadini che avevamo già visto all’opera in occasione della marcia da Budapest a Vienna dell’anno scorso, schierati sul fronte dell’accoglienza. Adesso, con uno Stato membro che non ne accetta nemmeno la parzialissima “sovranità” dovrà vedersela la Commissione, che ha già tollerato ben di peggio lungo il cammino irreversibile dell’Unione verso la dissoluzione. Ma è una frattura nell’immagine contrabbandata dai media di un sostegno monolitico alle politiche di respingimento nei paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad. Una frattura che trova riscontro anche nella contrapposizione emersa all’interno della chiesa cattolica polacca, fino a ieri presentata come unanimemente schierata con il governo apertamente razzista del paese, e dove una parte del clero si è invece pronunciata incondizionatamente a favore dell’accoglienza, anche a costo di ritrovarsi in netta minoranza.

Entrambi questi eventi sono una chiara conferma del fatto che oggi nell’Unione europea, compresi i recalcitranti paesi dell’Est, come d’altronde negli Stati uniti, nel Regno Unito o in Australia, la frattura politica e culturale, da cui i conflitti sociali sono di fatto condizionati e con cui devono misurarsi, è quella tra respingimento e accoglienza nei confronti di profughi e migranti. Dove il respingimento ha forse, per ora, la maggioranza; ha sicuramente la voce più forte; ma ha anche, e questo è il suo vero punto di forza, il sostegno ipocrita delle forze al governo: impegnate, nonostante le loro dichiarazioni “umanitarie”, a inseguire le forze xenofobe più oltranziste nel (vano) tentativo di non farsene scippare l’elettorato. Mentre l’accoglienza, animata da migliaia e migliaia di volontari e di persone di buona volontà provenienti dalle più diverse matrici culturali non ha, per ora, voce; non ha organizzazione; e soprattutto non ha un programma di respiro, nonostante che le ragioni, non solo umanitarie, ma anche economiche, demografiche e culturali, siano tutte dalla sua parte.

Ma il processo di fascistizzazione in corso in Ungheria e in Polonia, e in modo meno visibile in altri paesi dell’Est europeo, come l’avanzata delle forze xenofobe e antidemocratiche in molti dei paesi occidentali dell’Unione europea, stanno lì a dimostrare che privare i profughi, cioè la parte più misera della comunità umana, dei loro diritti ha, come immediata conseguenza, quella di privarne sempre più anche i cittadini “autoctoni”. Il contrario esatto della vulgata razzista alla Salvini secondo cui per difendere i diritti dei propri concittadini bisogna privarne tutti gli altri.

Il fatto che le forze xenofobe oggi al governo o sulla strada di conquistarlo – o in buona posizione per condizionarlo – si ritrovino tutte all’opposizione nei confronti dell’Unione europea e delle sue politiche non deve trarre in inganno. L’ispirazione di fondo delle politiche che propugnano o che stanno adottando quelle forze politiche e quei paesi è la quintessenza del cosiddetto neoliberismo: un termine che non rappresenta affatto la realtà che dovrebbe indicare, perché in esso non c’è niente di “nuovo” (neo), né niente di “liberista”, nel senso di affidarsi alle “libere forze del mercato”.

Quel libero mercato non esiste più, se mai è esistito: a comandare in tutto il mondo sono poche multinazionali e i colossi della finanza internazionale: gli stessi che stanno dietro alle politiche inconsistenti e insostenibili della Commissione europea e che non potrebbero mai fare quello che fanno senza un massiccio sostegno da parte degli Stati.

Non è liberismo ma privatizzazione universale di tutto l’esistente, compresi i diritti, ormai assimilati al denaro. Si hanno tanti più diritti – fino al diritto di fare tutto quello che si vuole – quanto più denaro si possiede; e tanti meno diritti, fino a zero, quanto meno è il denaro di cui si dispone. Questa è la realtà sotto gli occhi di tutti. Per questo l’accoglienza e la costruzione di una vera convivenza con profughi e migranti non sono una opzione tra le molte possibili, ma sono la premessa e la condizione irrinunciabile di una concezione radicalmente diversa dei diritti e della cittadinanza.

SEGUI SUL MANIFESTO



Related Articles

Iraq. Dopo l’omicidio di Soleimani, Baghdad caccia i marines USA

Loading

Il parlamento iracheno: violato l’accordo di cooperazione. Già attive le restrizioni al movimento per le truppe Usa. La Nato sospende l’addestramento

Mar Baltico. Esercitazione militare anti russa sotto guida britannica

Loading

Mar Baltico. Prove militari con l’impiego di 44 navi di 9 Stati, un messaggio di sfida al Cremlino

Gaza e Cisgiordania: un calcio alla guerra

Loading

Oltre a subire gli effetti drammatici dell’embargo israeliano, per tre anni i palestinesi di Gaza sono stati privati di uno dei più amati e popolari giochi: il calcio. Nel luglio 2007, all’indomani del conflitto interpalestinese tra Hamas e Fatah, le autorità  della Striscia decisero, infatti, di interrompere il campionato. Il fatto che i quasi cinquanta club locali fossero legati a una o all’altra fazione politica avrebbe potuto rappresentare un’ulteriore causa di tensione.

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment