by Marco Bersani, il manifesto | 15 Ottobre 2016 8:38
Quando si dice che gli enti locali sono uno dei luoghi di precipitazione della crisi, perché è soprattutto su di essi che si sono scaricate nel tempo le misure liberiste di austerità previste dai vincoli finanziari di Maastricht, non si sta facendo una considerazione astratta: secondo l’ultimo rapporto Ifel (Istituto per la Finanza e l’Economia Locale) dell’Anci, sono 84 i Comuni italiani in stato di dissesto e 146 gli enti locali (10 Province) che, in stato di pre-dissesto, hanno aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale. Si sta parlando di un trend in ascesa: se nel 2011 erano 3 i Comuni finiti in default, sono diventati 21 nel 2014.
Ma cosa significa per un Comune entrare in pre-dissesto o in default? «Sono da considerarsi in condizioni strutturalmente deficitarie gli enti locali che presentano gravi ed incontrovertibili condizioni di squilibrio», dice il Testo unico degli Enti locali (Tuel).
Se il deficit è in qualche modo recuperabile con un piano di sacrifici che la Corte dei conti approva si può accedere alla «procedura di riequilibrio finanziario pluriennale», il pre dissesto. Ma se «l’ente non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili» o se i creditori vantano crediti cui non si può far fronte con mutui o entrate proprie, allora scatta il dissesto (art. 244 del Tuel).
Ma cosa significa per i cittadini? In questo caso è molto facile da capire: tagli drastici alla spesa corrente, dismissione dei servizi, tariffe alle stelle e aliquote massime sulle imposte. Di fatto gli abitanti di un territorio dismettono i panni di membri di una comunità con dei diritti garantiti per diventare singoli individui il cui accesso ai servizi è determinato dalle proprie capacità economiche nell’orizzonte della solitudine competitiva.
Ma chi ha provocato questa esplosione di dissesti finanziari? In parte la colpa è dei molti amministratori che, dentro la crisi della democrazia rappresentativa, hanno utilizzato la macchina pubblica per favorire interessi personali, di casta e di clan, con bilanci allegri basati su entrate presunte a cui corrispondevano uscite certe da scaricare sulle amministrazioni successive. Ma pochi affrontano il nodo strutturale delle politiche liberiste e di austerità che sono state scientificamente applicate agli enti locali, all’unico scopo di metterli in difficoltà e costringerli alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, alla vendita del patrimonio pubblico, alla messa a disposizione del territorio per grandi opere, grandi eventi e grandi speculazioni finanziarie. Anche su questo punto sono i dati a confermare: nonostante la quota parte del debito pubblico attribuibile ai Comuni corrisponda solo al 2,4%, il contributo richiesto agli stessi – tra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità – è passato dai 1.650 miliardi del 2009 ai 16.655 miliardi del 2015.
Quanto sopra scritto evidenzia come la delega della gestione del debito e della finanza locale ai tecnocrati e agli amministratori comporti la riproduzione di un ciclo che, dai vincoli dell’Unione Europea, a cascata viene scaricato sulle condizioni di vita delle persone e delle comunità locali.
La pratica dell’audit del debito, ovvero un’indagine indipendente e autonoma da parte degli abitanti di un territorio sul debito dell’ente locale, è il percorso da avviare per smascherare la trappola del debito e del patto di stabilità, per riprendere in mano il destino delle comunità territoriali, per riappropriarsi della democrazia. Che, ogni volta che antepone gli interessi delle lobby finanziarie e immobiliari all’incomprimibilità della spesa necessaria a garantire servizi adeguati e di qualità, smette di essere tale.
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