by Mauro Palma, il manifesto | 29 Ottobre 2016 8:52
Antigone si specchia in un fumetto che ripercorre la sua storia: la ripercorre però, come è ovvio, senza i confronti appassionati e forse verbosi che caratterizzarono le discussioni da cui nacque; senza il fumo delle sigarette non ancora bandite nelle riunioni, senza la lucidità e i dubbi che si alternavano nel misurarsi in quel mutamento del paradigma della giustizia che dava corpo al suo nascere.
Un paradigma diverso, caratterizzato da norme d’eccezione che rispondevano a una situazione anch’essa d’eccezione: il passaggio di parte di movimenti antagonisti cresciuti negli anni precedenti, a forme di lotta armata nell’ipotesi di innescare un conflitto in grado di estendersi e interpretare bisogni diffusi.
La risposta d’eccezione – si conierà allora l’espressione «legislazione d’emergenza» – era quella di rendere l’esercizio della giustizia penale strumento di lotta per arginare tale fenomeno, piegando il sistema da informativo a offensivo e il processo da luogo dell’accertamento a luogo dell’espressione della vittoria dello stato. Frammenti di ciò che, in altri e più duri contesti, sarà chiamato «diritto penale del nemico» già si intravedevano allora: Antigone riusciva a identificarne i germi.
Era nata come rivista, nell’alveo del manifesto, cementata proprio dalla capacità del giornale di proporsi come luogo ove interrogarsi su sviluppi e derive della sinistra e costruire cultura politica. Era inizialmente un suo supplemento, ben presto si rese autonoma e rimase in edicola bimestralmente per circa tre anni, finché la tensione che ne aveva determinato la ragione d’essere non scemò, per la sconfitta definitiva delle ipotesi che avevano armato la mano di una parte del movimento del decennio precedente.
L’obiettivo era duplice: da un lato comprendere se e cosa stesse mutando, dall’altro offrire una via di uscita possibile a quanti – ed erano molti – erano finiti per scelta, suggestione o semplicemente per l’estensione abnorme dell’indagine, nella rete dei fatti, delle inchieste e delle conseguenti detenzioni e che desideravano uscirne ritenendo ormai determinata la sconfitta di un conflitto in parte agito e in parte immaginato.
Per questo Antigone lavorò culturalmente e politicamente attorno all’ipotesi di una «dissociazione dalla lotta armata», che non implicasse necessariamente la cooperazione attiva con l’inquirente: una terza via tra «irriducibilismo» e «collaborazione» che offrisse un possibile ritorno a quanti volevano chiudere con quel periodo, pur non essendo disposti ad assumere un ruolo di sostegno attivo alle indagini verso i propri ex compagni. Il suo sottotitolo fu appunto Bimestrale di critica dell’emergenza.
La sua premessa era stato un Centro di documentazione della legislazione dell’emergenza, costituito da alcuni esponenti della sinistra con diverse esperienze e professioni: protagonisti della criminologia critica, giornalisti attenti, operatori del diritto, parlamentari, giovani desiderosi di comprendere. Oggi ripercorrere quei nomi sembra quasi mettere in ordine una galleria di figurine di persone che negli anni successivi avranno ruoli anche importanti nel dibattito all’interno della sinistra italiana; allora erano acuti osservatori tenuti insieme dalla volontà di comprendere e di non essere spettatori muti di un conflitto che da un lato distruggeva le ipotesi di movimento e partecipazione che avevano caratterizzato gli anni precedenti, dall’altro introduceva forme e prassi destinate a mutare la fisionomia successiva dello spazio di agibilità politica.
Il Centro documentò così processi, quale quello piuttosto fantapolitico del «7 aprile», in cui era risuonata l’accusa inedita di insurrezione ai danni dello stato, e che negli anni si sarebbe svelato sempre più come manifesto assertivo di un’ipotesi piuttosto che come indagine sostenuta da elementi concreti: molte incriminazioni poi cadute, molte assoluzioni, non senza però aver fatto scontare anni di custodia cautelare alle persone coinvolte. Se questa era stata la premessa di Antigone, l’esito è stato quello di ampliare l’analisi al sistema dell’esecuzione penale e della detenzione nel suo complesso. In parte perché molto di ciò che era allora eccezione ben presto diventò normalità e alcuni mutamenti vennero introiettati dal sistema stesso. In parte perché l’area dell’intervento penale andava espandendosi, sulla spinta di norme che regolavano comportamenti soggettivi, quali quelle sulle droghe dei primi anni Novanta, e di crescenti debolezze sociali che aprivano a nuove forme di microcriminalità con parallela crescita della percezione d’insicurezza.
Cresceva così il ricorso al carcere, mutava la sua funzione, piegandosi a strumento di controllo territoriale diffuso, quasi adempiendo così alle previsioni foucoultiane. Antigone si strutturò allora come associazione per comprendere la privazione della libertà quale nuovo paradigma diffuso e intervenire in esso. Perché quell’estendersi non aggredisse il fulcro residuale dei diritti di cui ogni individuo è titolare, qualunque sia il suo stato di libero o recluso.
Questa è l’associazione di oggi, nota e stimata, ma pur sempre accorta e mai ferma a guardarsi con compiacimento perché sempre desiderosa di capire e intervenire: di esercitare un ruolo politico a partire da una profonda competenza tematica.
Questa è l’associazione che per un attimo si guarda allo specchio, nei disegni di un fumetto.
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