L’Isis risponde: attacco a Kirkuk

L’Isis risponde: attacco a Kirkuk

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Se in Iraq c’è una città altrettanto contesa di Mosul, quella è Kirkuk. Mentre la Casa Bianca annunciava il raggiungimento di un accordo di principio tra Turchia e Iraq sul ruolo di Ankara a Mosul (sconosciuti i dettagli), la città natale di Saddam, de-kurdizzata negli anni ’80 e oggi parzialmente de-arabizzata dalla kurda Erbil, è stata scelta dall’Isis per rispondere al composito fronte che lo combatte.

Gli scontri sono cominciati alle 3 della notte tra giovedì e venerdì: kamikaze, camion imbottiti di esplosivo e assalti armati hanno ucciso almeno 18 persone e blindato la città. il governatore ha ordinato il coprifuoco. Ma dalle finestre in tanti hanno visto decine di islamisti girare per le strade, mentre da fuori Erbil si affrettava ad inviare rinforzi ai peshmerga.

L’attacco coordinato è partito da una centrale elettrica e alcuni edifici governativi, tra cui il quartier generale della polizia. Nel pomeriggio si registravano ancora scontri in alcune aree della città e al Jazeera riportava di quartieri in mano agli islamisti.

Quanto accaduto ieri è la dimostrazione della quasi inattaccabile forza militare del “califfato”: Kirkuk, 290 km a nord di Baghdad e 170 a sud-est di Mosul, è stata presa d’assalto senza che le intelligence ne avessero sentore. Secondo fonti kurde, è probabile che alcuni miliziani coinvolti vivessero in città, a riprova della capacità di infiltrazione che l’Isis ha già mostrato nei continui attentati nelle zone sciite del paese, in particolare a Baghdad.

Rientra tutto nella strategia di destabilizzazione dello Stato Islamico: perse ampie porzioni di territori sia in Iraq che in Siria, con l’ambizione di creare un’entità statuale ridotta al lumicino, l’Isis punta a frammentare comunità già divise. Lo fa attaccando zone non occupate, dove a prevalere è la componente kurda o sciita: così è in grado sia di far perdere ulteriore fiducia nel governo centrale che di generare sospetto verso le comunità sunnite.

Non è un caso che Baghdad e Erbil abbiano chiuso i propri confini amministrativi agli sfollati provenienti da ovest, con le periferie di Kirkuk e della capitale affollate di rifugiati senza assistenza e impossibilitati ad entrare in città.

Tra i pochi che pare rendersene conto c’è il Gran Ayatollah al-Sistani, massima figura religiosa sciita in Iraq che nel sermone del venerdì ha ribadito l’importanza di tutelare i civili sunniti nelle zone liberate. Drammatica intanto resta la situazione dei civili nell’altro paese in guerra, la Siria: al terzo giorno di tregua parziale indetta da Russia e governo siriano, l’Onu non ha ancora evacuato i feriti e consegnato gli aiuti. Secondo Mosca la responsabilità è in capo alle opposizioni che impediscono ai residenti dei quartieri est di raggiungere i corridoi umanitari a nord e ovest della città.

La ragione sta, ancora una volta, nella totale mancanza di accordo tra le parti: i gruppi anti-Assad hanno da subito rigettato il cessate il fuoco di 11 ore al giorno definendolo il tentativo di Mosca e Damasco di riprendersi la zona est. L’ex al-Nusra si è spinta oltre annunciando una vasta operazione contro le forze governative.

Fin quando i qaedisti resteranno punto di riferimento di buona parte delle opposizioni ad Aleppo (molte delle quali condividono visioni politiche e religiose del gruppo) sarà difficile parlare di dialogo. Dall’altra parte sta il fronte anti-Assad con il leader russo che non intende cedere di un passo e avanza a colpi di tregua unilaterale, mentre l’Onu definisce i raid aerei sulla città «un crimine di guerra di proporzioni storiche».

E se nulla cambia ad Aleppo né nelle strategie dei due fronti, un po’ di sorpresa l’ha generata ieri la scomparsa dalla bozza di risoluzione redatta dai leader della Ue in merito alla questione siriana e al ruolo russo: su pressione del premier italiano Renzi dal testo sono sparite le sanzioni, applicate solo a siriani.

Si parla solo di generiche «misure», che – spiega Renzi – non danneggiano il dialogo potenziale sulla Siria come farebbero delle sanzioni. In gioco i tanti interessi italiani in Russia, già gravemente danneggiati due anni fa con la crisi ucraina, e l’attuale stallo nel processo negoziale.

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