Gas, libero scambio e nucleare: la ragnatela russa attira Erdogan
Mentre in una lussuosa villa di epoca ottomana ad Istanbul il presidente turco Erdogan e il russo Putin suggellavano la rinnovata amicizia con il definitivo accordo su Turkish Stream, alle porte della città kurdo-siriana di Manbij un kamikaze dell’Isis si faceva esplodere uccidendo 10 persone e ferendone 20.
Due notizie apparentemente scollegate ma che danno la misura degli attuali equilibri, ridisegnati dai repentini cambi di alleanze e tradimenti in corsa: l’attentatore suicida ricorda a tutti che lo Stato Islamico c’è ancora, sebbene venga snobbato, e che i combattenti kurdi sfruttati a dovere sia da Mosca che da Washington saranno la vittima sacrificale di entrambi.
Putin, che in passato si era battuto a spada tratta per avere al tavolo di Ginevra il Partito dell’Unione Democratica di Rojava, ora lo offre in sacrificio a Erdogan. Sembrano passati anni dal novembre dello scorso anno, quando il Sukhoi russo abbattuto da Ankara aprì ad una crisi senza precedenti, pagata dai turchi a caro prezzo.
Lunedì sera la normalizzazione dei rapporti, già realtà dalla scorsa estate, è stata ufficializzata con l’atteso accordo su Turkish Stream, il gasdotto che collegherà le coste russe sul Mar Nero all’Europa via Turchia. Una conduttura con una capacità di 63 miliardi di metri cubi di gas l’anno che dal 2019 – quando i lavori dovrebbero essere completati – bypasserà l’Ucraina, oggi principale (ma per Mosca non certo ottimale) via di transito del gas russo verso i paesi europei.
A corredo i due partner hanno siglato accordi anche su commercio e turismo: la Russia ha cancellato il divieto di vendita di alcuni prodotti alimentari turchi, annunciato la ripresa del progetto di costruzione di un impianto nucleare da 20 miliardi di dollari e stabilito una data per l’accordo di libero scambio, fine 2017. Da subito, invece, nascerà il Fondo di investimento comune: sarà inaugurato da 500 milioni di dollari a testa con cui finanziare futuri progetti congiunti.
I due hanno anche discusso della crisi siriana, ufficialmente come esponenti di fronti opposti. Ad avvicinarli sono i rispettivi freddi rapporti con Europa e Stati Uniti, che ieri la Russia ha confermato cancellando a sorpresa il viaggio a Parigi, ospite del presidente Hollande e della cancelliera tedesca Merkel, dopo le pressioni francesi per aprire un’inchiesta della Corte Penale internazionale sui raid sopra Aleppo del fronte anti-Assad e non su quelli delle opposizioni.
Putin tesse la ragnatela per attirare a sé Erdogan, allontanandolo dalla tradizionale alleanza Nato. Per ora la Turchia dice di voler restare sulle proprie posizioni – supporto alle opposizioni – e parla solo di coordinamento umanitario, ma il presidente russo si spinge oltre e annuncia la condivisione delle informazioni di intelligence.
Un’alleanza che si sovrappone a quelle nate intorno alla crisi siriana, strategie schizofreniche che annichiliscono la soluzione politica: la Russia, sponsor del presidente Assad, dialoga con la Turchia che fa da ponte alle armi destinate alle opposizioni a Damasco inviate dal Golfo sotto l’ombrello statunitense.
Intanto Ankara continua a combattere apertamente le Ypg kurde a Rojava, a cui ufficialmente gli Usa forniscono un sostegno militare ribadito dalla candidata democratica alla presidenza Clinton, per questo aspramente criticata ieri dal premier turco Yildirim: «La Clinton ha detto che sosterrà i kurdi nella regione con armi se sarà eletta. Si tratta di organizzazioni terroristiche, non è etico». E in Siria si muore quotidianamente: ieri 8 vittime ad Aleppo colpiti dal governo, mentre missili delle opposizioni cadevano nel cuore di Damasco, a pochissima distanza dalla moschea degli Omayyadi.
In tale contesto il via libera di Washington alle petromonarchie del Golfo ad inviare missili anti-aereo alle opposizioni (quali non è dato sapere, vista che i cosiddetti gruppi moderati sono stati fagocitati da quelli islamisti, l’ex al-Nusra in primis) accenderà ulteriormente la battaglia in corso ad Aleppo, dove Mosca quelle milizie le combatte.
Eppure le armi (di cui l’Alto Comitato per i negoziati, la federazione delle opposizioni, nega l’invio) passeranno come accaduto negli ultimi cinque anni dal confine turco, dal paese con cui i russi stringono accordi commerciali ed energetici multimiliardari.
La Turchia gioca da pivot, perno intorno al quale si muovono i due fronti. Lo fa in Siria come nel vicino Iraq dove insiste nel mirare a Mosul. Ieri Erdogan ha umiliato la leadership irachena invitando con poco stile il premier al-Abadi «a stare al suo posto»: Ankara non ritirerà le truppe dalla base di Bashiqa perché «[al-Abadi] non è il mio interlocutore, non è al mio livello». E quindi «non può impedirci di partecipare alla liberazione di Mosul». La via per la frammentazione dell’Iraq, ambizione occidentale, è segnata da Ankara.
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