Un Medio Oriente in «comune»
Dopo l’invasione turca nel nord della Siria non è in pericolo solo l’unità fisica dei cantoni di Rojava, Afrin, Kobane e Jazira. È in pericolo un modello politico democratico, egualitario, multi-etnico, femminista ed ecologista che va oltre i confini kurdi.
«Il confederalismo democratico è un modello di convivenza sociale oltre lo Stato, il potere, la violenza»: poche parole e Ozlem Tanrikulu, presidentessa dell’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia, si addentra in una questione dibattuta nei mesi della liberazione di Kobane ma lasciata lì, in un angolo. Come Kobane, oggi sotto attacco turco nell’indifferenza di chi esaltò i combattenti di Ypg e Ypj.
Cosa prevede la teoria del confederalismo democratico?
Senza tenere conto dei vincoli coloniali e neocoloniali non si può comprendere l’attuale scenario in Medio Oriente, né le politiche genocide della Turchia. Nel Nord del Kurdistan i kurdi – seguendo il paradigma dell’autonomia all’interno del confederalismo democratico, modello di organizzazione sociale basato su ecologia, liberazione delle donne, autogoverno e autodifesa – hanno dato vita ad un’infrastruttura politica e sociale che li ha messi nella condizione di amministrare i territori con forme di autogoverno.
Si tratta di un modello di convivenza sociale inclusivo ma non limitante, perché si basa sull’autorganizzazione dal basso nel rispetto della pluralità etnica, culturale, religiosa. Un sistema morale nel quale sussiste una relazione dialettica sostenibile con la natura e che al suo interno non è basato su dominio e gerarchia: il bene comune è stabilito dalla democrazia diretta.
In cosa la democrazia diretta di Rojava si differenzia da quella parlamentare europea?
La democrazia del popolo che, giorno dopo giorno, si consolida in Rojava si basa sul sistema ideologico annunciato da Abdullah Ocalan nel 2005. Con il termine «democrazia» non ci si riferisce al sistema parlamentare, ma all’auto-organizzazione: la democrazia parlamentare (rappresentativa) ritiene necessaria la partecipazione popolare solo ogni 4-5 anni e lascia la popolazione alienata, alla mercé delle frange lobbistiche dei deputati eletti.
La «democrazia del popolo», o autonomia democratica, richiede invece approcci diversi, molto zelo e tempi lunghi. Uno sforzo in questa direzione è quello che centinaia di migliaia di persone fanno da anni in Rojava. Non è nata dal nulla: già negli anni ’90 in svariate città si formarono comitati di autogoverno, limitati però dalla necessità di agire clandestinamente. Il sistema conobbe grande diffusione tra il 2000 e il 2004 come effetto dell’incremento della repressione del governo, quindi nel 2011 l’istituzione di qualsiasi attività fu resa più agevole. Il secondo terreno di esperienza è stato l’avvio di assemblee popolari in Kurdistan settentrionale nel 2007, la cui organizzazione ombrello era il Dtk («Demokratik Toplum Kongresi», Congresso della Società Democratica).
Come si struttura nella pratica?
Inizialmente venivano convocate riunioni a partire da quartieri o villaggi in cui si dibatteva con il popolo sulla formazione del movimento. In breve tempo furono create assemblee a livello rionale e nei villaggi, che si coalizzavano per formare assemblee uniche di grado più elevato. Il passo successivo consiste nell’istituzione delle assemblee a livello regionale, comprendenti una città e i villaggi del suo hinterland.
L’organismo più piccolo è rappresentato dall’assemblea del villaggio delle aree rurali: poiché, in proporzione, le assemblee rionali delle città erano troppo grandi dal punto di vista della popolazione, nacquero le «assemblee della strada», le «comuni» (komun in kurdo). Se pensate che sia un termine preso in prestito dalle lingue europee, vi sbagliate: in kurdo la parola «kom» significa «società». In una comune vi è un numero di abitazioni variabile da 30 a 500, ma generalmente non si superano le 150 unità.
Ogni comune organizza la vita politica, economica, sociale e culturale della propria strada o del proprio villaggio e discute e risolve eventuali problemi. Inoltre, invia i propri amministratori eletti (tra i 5 e i 7) all’assemblea rionale in qualità di delegati. Tale sistema non vale solo per i kurdi: tutti gli abitanti dei tre cantoni, nel Rojava, sono rappresentati perché si tratta di un sistema che non si basa sull’appartenenza etnica, bensì sulla partecipazione dal basso.
Tale teorizzazione si accompagna alla decisione di Ocalan di tre anni fa di abbandono della lotta armata?
La lotta armata non è stata abbandonata. Ocalan ha chiamato 8 volte al cessate il fuoco in tre anni. Ma le politiche turche in risposta sono state sanguinose, comportando la perdita di innumerevoli vite. Nell’ultimo secolo il popolo kurdo è stato lasciato senza alcuna scelta, se non quella della ribellione per ottenere i propri diritti.
Ocalan ha realizzato un’iniziativa potente nel 2013 durante i festeggiamenti del Newroz (il capodanno kurdo, ndr): ha chiamato al cessate il fuoco. Ma purtroppo la speranza di pace è iniziata a scemare alla fine del 2014 e si è trasformata in una guerra distruttiva e spietata nell’estate 2015. La trasformazione verso il confederalismo si è avuta quando il movimento di liberazione kurdo ha abbandonato il suo obiettivo di creare uno Stato-nazione e il suo approccio stato-centrico a favore di politiche democratiche diversificate.
Quali prospettive ha il progetto, sotto attacco da più di un attore regionale, Turchia in testa?
È sotto attacco perché ha mostrato il suo successo, scomodo agli interessi degli Stati. Nonostante gli attacchi della Turchia si compiano con l’ausilio delle alleanze internazionali, nel silenzio dell’opinione pubblica, non un passo indietro nella resistenza del Rojava è stato fatto. Il progetto del confederalismo è un progetto in difesa dell’umanità e propone l’inseparabilità dei diritti e delle libertà individuali da quelle delle identità culturali collettive, aperte.
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