Obama e i due bronzi di Riyadh
Nell’arco di venti giorni, la foto di Ground Zero dell’America unita con i suoi leader che, mano destra sul cuore, cantano l’inno nazionale, è andata in mille pezzi. È scoppiato da due giorni un grande incendio. Contro il veto opposto dal presidente Obama, il Congresso Usa ha approvato la legge Justice against sponsor of terrorism act, che consente alle famiglie delle vittime di fare causa agli Stati stranieri considerati complici dell’attacco terroristico più grave subito dagli Stati uniti, quello dell’11 settembre 2001.
Ora l’incendio divampa in più direzioni ed è destinato, per sua natura, a non spegnersi. Perché, al di là delle teorie complottiste, mette in discussione la credibilità delle versioni ufficiali sull’11 settembre fin qui rivelate dall’Amministrazione Usa, che sono alla base dell’attuale leadership statunitense all’interno e nel mondo.
Aprendo armadi pieni di scheletri finora ben serrati e nascosti. Perché la legge chiama in causa direttamente l’establishment dell’Arabia Saudita – il primo alleato americano in Medio Oriente e nel mondo. E trova consistenza più che veridica per almeno due dati di fatto: il primo è che 15 dei 19 dirottatori che pilotarono gli aerei delle stragi provenivano dall’Arabia saudita, il secondo è un rapporto di 28 pagine per molto tempo segreto e ora nelle mani delle commissioni di Senato e Camera statunitensi.
Il rapporto dice che ben sei funzionari dell’ambasciata saudita negli Stati uniti avrebbero offerto sostegno logistico ad alcuni attentatori delle Twin Towers. Mentre si annunciano nuove rivelazioni.
È più di uno smacco presidenziale. Obama ha cercato fino all’ultimo di evitare l’approvazione della legge con il potere di veto. È stato sconfitto, non era mai successo. Nonostante avesse avvertito che il voto favorevole avrebbe esposto anche gli Usa a processi nei tribunali di mezzo mondo. Viste le tante guerre avviate dagli Stati uniti, con relative stragi chiamate «effetti collaterali», per non parlare delle vicende sul comportamento dei militari Usa nelle basi e nei conflitti internazionali (il Cermis, il rapimento della nostra Giuliana Sgrena liberata da Nicola Calipari ucciso sulla strada dell’aeroporto di Baghdad dal soldato Lozano ecc. ecc.). Com’è risaputo gli Stati uniti non firmano Trattati di diritto internazionale per non essere incriminati. Tutt’al più dopo un massacro chiedono scusa. Con l’approvazione si apre un varco per l’impunità Usa. Obama era poi avvertito di un pericolo geo-strategico: già i rapporti tra Washington e Riyadh sono tesi per l’accordo sul nucleare con Tehran e per questo hanno venduto armi ai Saud per 110 miliardi di dollari. Una petromonarchia che, decisiva per le guerre e nel sostegno allo jihadismo sunnita fino alla nascita dello Stato islamico, con il veto presidenziale sarebbe stata graziata con l’immunità.
Ma, fatto sconcertante, a dichiararsi a favore della legge – e per il ripristino se il veto fosse passato – all’unisono i due contrapposti candidati presidenziali, Donald Trump e Hillary Clinton. È patriottismo e giustizialismo bipartisan a sfondo elettorale. Perché le rispettive opinioni pubbliche non credono più alle versioni elargite sull’11 settembre 2001 e la vittoria del veto sarebbe apparsa come la tomba della verità. Che scotta, perché bisognerà pur dire quali legami sono intercorsi tra presidenti Usa e Saud prima, durante e dopo l’11 settembre, l’avvenimento che ha di fatto avviato la destabilizzazione del Medio Oriente con la distruzione di almeno tre Stati.
Obama alla fine è rimasto con il cerino in mano, solo a difendere il silenzio di Stato necessario a coprire le responsabilità e le connivenze per l’attacco più grave che l’America abbia mai subito dalla Seconda guerra mondiale. Mentre i candidati presidenti cavalcano elettoralmente la verità sull’11 settembre fin qui negata. Facce di bronzo? Meglio, due bronzi di Riyadh. Perché non disdegnano – e come potrebbero altrimenti? – i legami con l’Arabia saudita, alleata d’acciaio, pur consapevoli dell’alto costo strategico, diplomatico e perfino finanziario dei ricorsi che si preparano.
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