Nella strategia Usa in Siria regna la confusione

Nella strategia Usa in Siria regna la confusione

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Colpa di tutti, colpa di nessuno: in Siria la tregua non serve a cercare un accordo politico (o almeno a tentare di gettarne le basi) ma ad accusarsi a vicenda di scarsa buona fede. Nonostante il cessate il fuoco stia per lo più reggendo e Mosca e Washington abbiano per la terza volta deciso di prolungarlo di altre 48 ore, gli ultimi giorni sono trascorsi tra vicendevoli accuse di violazioni.

Mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu di venerdì sulla questione siriana saltava per mancato coordinamento su cosa riferire da parte delle due super potenze, partiva la danza: l’esercito russo ha denunciato 199 violazioni della tregua tra Aleppo, Idlib e la periferia di Damasco da parte delle opposizioni, per lo più islamiste ma non solo, e chiesto alla controparte statunitense di vigilare: «Se gli Stati Uniti non prendono le misure necessarie a rispettare gli obblighi previsti dall’accordo del 9 settembre – ha detto il generale Poznikhir – allora la responsabilità di un collasso del cessate il fuoco sarà deli Stati Uniti».

Secondo Mosca nelle ultime 24 ore gli attacchi si sono moltiplicati, provocando la morte di 12 civili, tra cui due bambini. Tre secondo l’Osservatorio Siriano, dal 2011 in opposizione al presidente Assad.

Oltreoceano il segretario di Stato Usa Kerry imputa alla Russia l’incapacità di costringere l’alleato Assad a permettere l’ingresso degli aiuti. I 40 convogli dell’Onu (cibo per 80mila persone per un mese) restano, infatti, bloccati al confine nord con la Turchia, in attesa di un coordinamento reale tra le forze belligeranti che ne garantisca la consegna nelle zone assediate, a partire da Aleppo est.

Damasco risponde a tono: le truppe governative si sono unilaterlamente ritirate dalla Castello Road, principale arteria per raggiungere il centro della città, ma altrettanto non hanno fatto le opposizioni.

Insomma, un carosello infinito che è lo specchio di quanto denunciato da tempo: la tregua è fine a se stessa se non si fonda sulla volontà condivisa di un dialogo serio. Perché le distanze sugli obiettivi finali resta così come resta quella tra la definizione di soggetti legittimi per l’aleatorio tavolo di Ginevra. Mosca e Damasco non vogliono sentir parlare di gruppi islamisti e di ispirazione salafita – molti dei quali galassia dell’ex al-Nusra, che terrorista lo è per tutti – mentre la Casa Bianca è consapevole che senza queste milizie scomparirebbe l’opposizione armata ad Assad.

La confusione è palese nel nord della Siria, da tempo teatro principe della guerra. Nel corridoio di terre da Aleppo a Jarabulus e oltre il fiume Eufrate si gioca buona parte del conflitto perché è lì che sono fisicamente presenti gli attori della crisi. È qui che si è registrato il primo vero screzio tra truppe di terra Usa e opposizioni cosiddette moderate.

Ed è qui che si palesa la contraddizione insita nella strategia statunitense: da una parte i raid aerei a sostegno delle Ypg kurde, dall’altra forze speciali a supporto dell’invasione turca di Jarabulus e al-Rai. Un’operazione che ha l’evidente obiettivo di interrompere l’avanzata kurda dentro Rojava, entità che gli Usa stanno sostenendo. Per ovvie ragioni di convenienza, sì, ma che svela tutti i buchi dell’attuale visione statunitense dei tanti conflitti in corso.

Oltre allo scontro Ankara-Rojava, le forze speciali si sono trovate di fronte anche al risentimento dell’Esercito Libero Siriano, braccio armato dell’evanescente Coalizione Nazionale, in teoria prima donna delle opposizioni, a cui hanno per anni girato milioni di dollari in armi e addestramento, diretto dalla Cia in Giordania e Turchia.

Ad al-Rai, dove la Turchia sta programmando l’offensiva su al-Bab (strategica comunità tra Aleppo e il confine e per lungo tempo punto di passaggio di armi e miliziani alle opposizioni islamiste), miliziani dell’Els hanno apostrofato i marines dandogli dei «maiali, crociati, infedeli».

Nei video pubblicati online si vedono poi i “ribelli” passare all’azione: minacciando di «massacrarli», li hanno costretti a ritirarsi. Una fila di convogli avrebbe al-Rai tra le proteste, per riposizionarsi al confine turco. Dal dipartimento di Stato non giungono commenti, se non ufficiose conferme dell’accaduto.

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