La dialettica è pop
Tutti conosco la battuta di Winston Churchill sulla democrazia, di solito riportata in questo modo: «La democrazia è il peggiore dei sistemi possibili; il problema è che non esiste un sistema migliore». In realtà, l’11 novembre 1947, durante un discorso alla Camera dei Comuni, Churchill disse qualcosa di meno paradossale e brillante: «Molte forme di governo sono state sperimentate e saranno sperimentate in questo mondo di peccato e di dolore. Nessuno ha la pretesa che la democrazia sia perfetta o onnisciente. Infatti, è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo a eccezione di tutte le altre forme che sono state sperimentate di volta in volta».
La logica di fondo la si può comprendere meglio applicando le «formule della sessuazione» di Jacques Lacan all’aforisma di Churchill e riformulandolo come segue: «La democrazia è il peggiore di tutti i sistemi; tuttavia, se equiparato alla democrazia, ogni altro sistema è peggiore». Se mettiamo insieme tutti i sistemi possibili e li valutiamo in base al loro valore, la democrazia è il peggiore e si classifica all’ultimo posto; se, però, compariamo la democrazia agli altri sistemi, uno per uno, essa si rivela il sistema migliore. Non vale (o non sembra valere) qualcosa di simile per il capitalismo? Se lo si analizza in modo astratto, cercando di situarlo nella gerarchia di tutti i sistemi possibili, sembra il peggiore: caotico, ingiusto, distruttivo, ecc.; se, però, lo si compara in modo concreto e pragmatico a ogni alternativa possibile, risulta ancora migliore di qualsiasi di queste.
Questo squilibrio «illogico» tra l’universale e il particolare è una dimostrazione diretta dell’efficacia dell’ideologia. Negli Stati Uniti, un sondaggio compiuto alla fine del giugno 2012, poco prima del pronunciamento della Corte Suprema sulla riforma della sanità di Obama, ha mostrato che «la stragrande maggioranza a favore dei provvedimenti della legge». Un sondaggio Reuters/Ipsos dello stesso periodo ha però segnalato che la maggior parte degli americani si opponeva alla riforma del sistema sanitario del presidente Barack Obama pur approvandone convintamente la maggior parte dei provvedimenti. I risultati del sondaggio suggeriscono che i repubblicani stavano convincendo gli elettori a rifiutare la riforma di Obama anche se approvano gran parte dei suoi contenuti, ad esempio la proposta di permettere ai figli di dipendere dall’assicurazione dei genitori fino al ventiseiesimo anno di età.
Il potere dell’ideologia
Questa è l’ideologia nella sua forma più pura: la maggioranza vuole la capra (ideologica) e i cavoli (quelli reali), ossia vuole i benefici reali derivanti dalla riforma della sanità rifiutandone però la forma ideologica (percepita come una minaccia alla «libertà di scelta»); rifiutano l’acqua ma accettano l’H2O o, al contrario, rifiutano l’idea di frutta, ma vogliono mele, prugne, fragole. All’inizio del thriller di Jo Nesbø Il cacciatore di teste, c’è una battuta che implica un’analoga serie paradossale: «Il salmastro pungente dei gas di scarico nell’aria autunnale mi faceva venire in mente il mare, le estrazioni petrolifere e il prodotto interno lordo». Il momento eccentrico aggiunto alla serie di elementi naturali e fisici è il Pil, che indica in breve lo sfruttamento brutale della natura.
Ecco un’altra versione di questa serie, tratta da una recente intervista di Bob Dylan sulla rivista Rolling Stone (settembre 2012): «Questo paese si è fottuto il cervello con il colore. È una distrazione. Le persone litigano solo perché sono di un colore diverso. È il culmine della follia e sarà da ostacolo a ogni nazione, per non dire a ogni quartiere. A qualsiasi cosa. I neri sanno che alcuni bianchi non volevano rinunciare alla schiavitù, che se fosse stato per loro sarebbero ancora in catene, e non posso fare finta di non saperlo. Se nel tuo sangue hai uno schiavista o un membro del Klan, i neri lo percepiscono. Questa roba persiste ancora oggi. Così come gli ebrei fiutano sangue nazista e i serbi sangue croato. Dubito che l’America si libererà mai da questa stigmatizzazione. È un paese che si è formato sulla schiena degli schiavi. (…) Se si fosse rinunciato alla schiavitù in modo più pacifico, l’America oggi sarebbe molto meno arretrata».
Le macchie sulla conoscenza
Una strana serie di persone che fiutano il sangue: un nero contro uno schiavista, un ebreo contro un nazista, un serbo contro un croato. Le prime due coppie contrappongono una categoria etnica generale (nero, ebreo) a una sottocategoria economica/sociale/politica (schiavista, nazista), non a un intero gruppo (bianchi, tedeschi), mentre nel caso dei serbi non si tratta del sottoinsieme croato degli ùstascia, ma dei croati in quanto tali. Questo è un passo in direzione del razzismo: una coppia, più un terzo termine che mostra la vera posizione razzista di fondo. Più precisamente, ciò che rende queste dichiarazioni razziste non è lo statuto speciale dei croati, ma il fatto che siano solo i croati ad avere questo statuto. La formulazione corretta, infatti, non consisterebbe nel sostituire i croati con gli ùstascia (i collaborazionisti croati del nazismo), ma nel sostituire, nei primi due casi, gli schiavisti con i bianchi e i nazisti coi tedeschi.
Gli atti terribili degli schiavisti e dei nazisti sono una macchia sulla coscienza degli americani bianchi in quanto tali e sui tedeschi in quanto tali; è fin troppo facile dire che i nazisti erano colpevoli mentre tutti gli altri tedeschi erano innocenti (e lo stesso vale per quanto fecero gli ùstascia durante la Seconda guerra mondiale). Così, quando un nero guarda un bianco, egli può (e ha il diritto di) «fiutare il sangue schiavista» che è in lui, anche se questo individuo bianco non ha niente a che fare con lo schiavismo.
C’è una categorizzazione analoga in cui un insieme è diviso in sottoinsiemi sbilanciati in modo ridicolo, come nella battuta di Eugene Wigner: «Ci sono due tipi di persone al mondo: Johnny von Neumann e noi». Pensiamo anche alla formula base di molte massime ciniche «Ci sono due tipi di persone, quelle che… e quelle che…», il cui senso è la natura arbitraria della distinzione: gli impiccati e quelli che tengono la corda; quelli che amano l’Armagnac e quelli che lo detestano… E la categorizzazione definitiva non sarebbe forse la divisione fra qualcosa e il nulla («Ci sono due tipi di persone al mondo: quelle che muoiono e nessun’altro»; oppure «Ci sono due tipi di persone al mondo: quelle che muoiono e quelle che sono immortali», dove il senso è che il secondo insieme è vuoto)?
Nei termini della nozione marxiana di merce in generale, la sua versione sarebbe: «Ci sono due tipi di merci sul mercato: merci particolari con valori d’uso specifici e la merce in generale». Analogamente, pensiamo di nuovo al saggio di Walter Benjamin Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, dove il senso non è che la lingua umana è la specie di una qualche lingua universale «in quanto tale» che comprende anche altre specie: non esiste nessun altra lingua oltre a quella umana, ma per comprendere questa lingua «particolare» bisogna introdurre una differenza minima, concepirla in riferimento allo scarto che la separa dalla lingua «in quanto tale». La lingua particolare è quindi la «lingua reale», la lingua intesa come serie di frasi effettivamente pronunciate, in contrapposizione alla struttura linguistica formale.
Il peccato dell’universale
Questa lezione benjaminiana viene ignorata da Jürgen Habermas, che fa proprio quello che non bisognerebbe fare: egli pone come norma del linguaggio reale direttamente un ideale «linguaggio in generale» (gli universali pragmatici). Riprendendo il titolo di Benjamin, bisognerebbe descrivere la costellazione fondamentale della legge sociale come quella della «Legge in generale e del suo osceno rovescio superegoico in particolare». La «Parte» in quanto tale è dunque l’aspetto «peccaminoso» irredento e irredimibile dell’Universale; in termini politici concreti, ogni politica che si fondi su un riferimento a una qualche particolarità sostanziale (etnica, religiosa, sociale, tradizionale…) è per definizione reazionaria.
Di conseguenza, la divisione introdotta e sostenuta dalla lotta emancipatrice («di classe») non è quella tra due classi particolari del Tutto, ma quella tra il Tutto-nelle-sue-parti e il suo Resto che, all’interno dei Particolari, rappresenta l’Universale, il Tutto «in quanto tale», contrapposto alle sue parti. Qui bisogna tenere a mente i due aspetti della nozione di resto: il resto inteso come ciò che rimane dopo la sottrazione di tutto il contenuto particolare e il resto intesto come risultato finale della suddivisione del Tutto nelle sue parti, quando, nell’atto finale di suddivisione, non abbiamo più due parti o elementi particolari, due Qualcosa, ma un Qualcosa (il Resto) e il Nulla.
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