by Chiara Cruciati, il manifesto | 4 Settembre 2016 8:25
Tutto si può dire del presidente turco Erdogan tranne che non sia un uomo meticoloso. Tanto pignolo che la campagna di purghe di massa colpisce anche i morti. Non solo i militari deceduti nel tentato golpe del 15 luglio, seppelliti nel “cimitero dei traditori” e destinati alla gogna eterna, ma anche gente spirata qualche secolo prima del putsch.
Nelle liste di proscrizione delle autorità turche è finita la drammaturgia mondiale: Shakespeare, Chekhov e Brecht. Accanto a loro, un intellettuale vivo e vegeto, premio Nobel per la Letteratura, Dario Fo. La Dt, Direzione delle imprese nazionali di teatro, ha cancellato dai cartelloni della stagione teatrale che si aprirà tra un mese esatto tutte le opere dei quattro autori.
«Apriremo le nostre sale solo ad opere locali al fine di contribuire all’integrità e all’unità della patria e rafforzare i sentimenti nazionali», ha detto il vice presidente della Dt, Nejat Birecik. L’apoteosi dell’autarchia teatrale e di uno spicciolo nazionalismo culturale che sono parte integrante di un panorama fatto di censura e pensiero unico.
L’olio di ricino dispensato a piene mani dalle autorità non risparmia – ovviamente – il mondo accademico, intellettuale e mediatico, i settori che definiscono la narrativa nazionale, plasmano la società interna e la raccontano all’esterno.
Ogni regime, la storia insegna, che voglia imporre la propria narrativa punta sulla propaganda di Stato e l’appiattimento delle voci critiche, l’alienazione dei discorsi indipendenti. La mannaia dell’Akp, il partito di governo, ha tagliato la testa ai vertici universitari, ai quotidiani non allineati, ai teatri.
Attori e direttori sono stati direttamente licenziati o costretti a dimettersi da pressioni esterne, taglio di stipendi o cancellazione di spettacoli. Le operazioni di pulizia sono state inaugurate dal comune di Istanbul: all’inizio di agosto quattro attori (Sevinç Erbulak, Mahberi Mertoglu, Irem Arslan e Arda Aydin) e i due direttori Ragip Yavuz e Kemal Kocatürk sono stati sospesi dal City Theaters perché indagati nell’ambito dell’inchiesta sul tentato putsch.
Altri 20 attori sono stati licenziati dietro la scusa di performance scadenti. Pochi giorni dopo le autorità hanno cancellato lo spettacolo del noto attore Genco Erkal per «ragioni di sicurezza». E l’11 agosto alla pop star Sila Gençoglu sono stati sospesi quattro concerti dopo essersi rifiutata di cantare al raduno di massa a Istanbul indetto dall’Akp.
«L’arte richiede libertà di pensiero», commenta Levent Uzumcu, presidente dell’Associazione Attori dei teatridi Istanbul. Difficile quando chi la ricerca perde il posto. Ragip Yaruz lo dice chiaramente: con attori cacciati e direttori sospesi, molti spettacoli previsti per l’autunno non andranno in scena.
Una censura indiretta che si va a braccetto con il dirottamento palese dei contenuti: l’Istanbul Municipal Theatre è da tempo vittima di interferenze politiche, che operano affidandone la gestione a istituzioni finanziate dallo Stato. E il sipario si chiude.
Prof in fuga, giornalisti in manette
Dal palco alle aule universitarie il passo è breve. I vertici degli atenei sono stati decapitati pochi giorni dopo il golpe, 1.577 rettori sostituiti da personalità vicine al presidente. E mentre gli istituti scolastici vicini all’imam Gülen, considerato l’ideatore del golpe, sono stati chiusi, oltre 4.200 professori universitari sono stati cacciati: tra questi i mille che avevano firmato a gennaio una petizione che chiedeva la fine della campagna contro il Kurdistan turco e la ripresa del negoziato con il Pkk.
Molti stanno già andando via, nel timore che il licenziamento sia il primo passo verso l’arresto: l’élite laica e progressista turca sceglie l’estero, una lenta ma costante processione che le ultime purghe hanno solo accelerato. Austria, Germania, Norvegia, Svezia: qui arrivano i curriculum degli accademici turchi.
Da spazio aperto a dibattito e ricerca, le università turche vengono trasformate nel serbatoio della «nuova Turchia» immaginata dal sultano, un mix di islamismo e nazionalismo che ha come modello l’impero ottomano. Il rischio è che atenei simbolo come il Bogazici di Istanbul o la Middle East Technical di Ankara (Metu) mutino la loro natura secolare, diventando burattini dell’educazione di Stato.
Quella su cui si fondano i nuovi istituti voluti dal presidente. Come la Recep Tayyip Erdogan Univerity, nella sua città natale Rize, che grazie ai generosi fondi statali ha triplicato in dieci anni il numero di iscritti (oggi 18mila) e decuplicato quello dei professori: «Quando assumi non sulla base delle qualifiche professionali ma delle visioni politiche, puoi dire addio al futuro dell’università», l’amaro commento dell’ex rettore della Metu.
E infine la stampa, violentata da anni di censure e autocensure. Dal 15 luglio il bilancio terrorizza, spiegando perché la Turchia sia solo al 151° posto su 180 paesi nella classifica della libertà di stampa: Ankara ha il più alto numero di giornalisti dietro le sbarre, tre volte l’Iran e la Cina, 124 i reporter in prigione dai 30 che erano pre-golpe.
È arduo dimenticare le immagini di fine luglio, quando i giornalisti più noti del paese, Nazli Ilicak, Ali Bucac, Busra Erdal, circondati da poliziotti scendevano la scalinata del tribunale di Istanbul. E ancora 16 canali tv, 23 stazioni radio, 15 quotidiani, 29 case editrici, 3 agenzie stampa chiusi, con il loro seguito di dipendenti, migliaia, rimasti senza un lavoro.
Erdogan avanza a nord di Aleppo
Fuori dai confini, Ankara fa orecchie da mercante alle richieste Usa di interrompere l’avanzata in Siria: ieri, mentre idranti e gas disperdevano un’altra protesta a Kobane e 18 soldati venivano uccisi nel sud-est turco in attacchi del Pkk, si apriva un nuovo fronte dell’operazione Scudo dell’Eufrate.
Carri armati e artiglieria pesante sono entrati nella cittadini di al-Rai, sulla direttrice della strategica al-Bab, via di transito verso Aleppo. Ad ovest, dunque, di Jarabulus e dell’Eufrate, dichiarato target turco.
Anche stavolta, al fianco di Ankara, stanno le opposizioni siriane (sia l’Esercito Libero che i salafiti di Ahrar al-Sham) che indicano nell’Isis l’obiettivo. Ma Aleppo è a due passi: è lì, a poco più di 50 km.
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