Labour, Corbyn fa il bis

by Leonardo Clausi, il manifesto | 25 Settembre 2016 20:01

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Tra vecchi e nuovi iscritti, i seicentomila che hanno avuto fede in lui sono stati premiati: ieri a Liverpool la parusia – il secondo avvento – di Jeremy Corbyn si è finalmente compiuta. La conferenza di Liverpool ha tributato al leader una vittoria monumentale, col 61% del voto totale contro il flebile 38,2% di Owen Smith, un Giufà immolato all’ultimo momento dai centristi del partito alla forsennata ricerca di un inesistente supereroe moderato che non terrorizzasse gli amichetti della City.

Allo spoglio, con un’impressionante affluenza al voto del 77,6% su 640.500 tra iscritti al partito, al sindacato e sostenitori, Corbyn ha intascato 313.209 preferenze contro le 193.229 del rivale: un esito ampiamente atteso ma che nulla toglie al congresso più atteso della storia del partito laburista, che si apre ufficialmente oggi. Un mandato definitivo, che supera di gran lunga quello che già lo vide improbabile protagonista lo scorso settembre, quando surclassò gli altri tre candidati con un già assai ragguardevole 59,5% delle preferenze.

Nel suo secondo discorso d’insediamento, Corbyn ha fatto voto di rammendare lo strappo profondo confermato da questo suo bis vittorioso. Ha confermato la linea di questi ultimi giorni, aprendo ai dissidenti, sottolineando l’eredità comune che riguarda tutti i laburisti indipendentemente dalle correnti e dichiarandosi disposto a riaccogliere a braccia aperte i cospiratori. «Le elezioni sono una faccenda appassionante e partigiana, in cui a volte nella foga del dibattito da più parti si dicono cose di cui poi ci si pente. Ma ricordiamoci che nel nostro partito sono molte più le cose che abbiamo in comune di quelle che ci dividono. Per quanto mi riguarda, da oggi, voltiamo definitivamente pagina e facciamo assieme quello che dobbiamo fare come partito, tutti assieme».

Secondo Nina Power, senior lecturer in filosofia all’università di Roehampton, la sua travolgente vittoria tra i membri del partito dimostra, nonostante i continui attacchi nei media e le lotte intestine, «che Corbyn si batte per cose che la gente considera importanti: la lotta alla guerra, alle armi nucleari, per l’istruzione gratuita, anche quella superiore, per la sanità pubblica, per l’equa tassazione di coloro che la eludono, contro l’austerità e per il welfare, per la ri-nazionalizzazione delle ferrovie».

Il segretario ha poi affrontato direttamente l’antifona dell’ineleggibilità del partito sotto la sua guida, fino a ieri argomento principale dei suoi tanti detrattori. «Uniti verso il vero cambiamento che il paese necessita, non ho dubbi che questo partito possa vincere le prossime elezioni quando il primo ministro deciderà di convocarle e di formare il prossimo governo». E non si tratta solo di retorica sul filo dell’entusiasmo. I continui tentativi di sabotaggio e soprattutto la frenetica campagna di questi ultimi due mesi, lungi dal fiaccare quest’uomo di 67 anni, l’hanno reso più coriaceo, scaltro e lucido. Non potrebbe trattarsi di esito più crudele e beffardo per le truppe blairiane, ormai malconce e sbandate, che hanno temprato il nemico anziché sconfiggerlo.

L’aforismo nietzschiano «Quel che non mi uccide mi rafforza», gli si addice perfettamente.

Da oggi il sogno della base del partito (e l’incubo dei suoi deputati) si sono irrevocabilmente avverati: il partito laburista cessa di essere quello che era diventato ormai da un buon ventennio, ossia il consiglio di amministrazione di un bieco esistente, capace solo di riverniciarne le sozzerie anziché affrontarne veramente le cause. «È una storica sconfitta per la destra del partito, che lo ha dominato per quasi tutta la sua storia» commenta Jeremy Gilbert, professore diCultural and Political Theory all’università di East London, «Ora un partito a guida Corbyn si trova di fronte sfide enormi: media ostili, un movimento operaio debole, una destra populista in ascesa, e un’enorme divisione alla base sulla questione dell’immigrazione. Ma sono sfide che si possono raccogliere. La questione è se la vasta maggioranza del partito parlamentare, aduso com’era a un’epoca d’inattaccabile consenso neoliberista, saprà scendere a patti con la nuova situazione, o se invece continueranno a comportarsi come bambini isterici, senza comprendere il danno che recano o la futilità della propria rabbia».

Il trionfo di ieri segna comunque un dato inoppugnabile: il ritorno in questa Gran Bretagna post-Brexit della politica intesa come prassi sul reale, non più dettata dagli uffici stampa e dei pr, capace di parlare non in soundbites o slogan pubblicitari. Come sottolinea Power, «L’era dello spin è finita, nessuno vuole più questi politici leccati, che paiono degli avvocati, non è vero che viviamo in un’epoca “post-verità”: le persone conoscono la differenza fra una persona integra e un bugiardo: e di bugiardi non ne vogliono».

 

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