Il Sulcis è una terra di vuoti. Decine di miniere, ormai deserte, cesellano come cicatrici le colline tra Carbonia e Iglesias. Poca gente, la sera, nelle piazze delle città. Ancora silenzio e desolazione negli stabilimenti del polo industriale di Portovesme: una sola fabbrica continua a vivere, un’altra respira ma non produce, una terza sembra un gigante addormentato. Tutte le altre, intorno alle torri della centrale Enel, sono scheletri di lamiera arrugginita, conquistati da vento e erbacce.
«Ho visto il nulla della fatica quotidiana», scriveva Elio Vittorini dopo un viaggio a Iglesias di novant’anni fa. Oggi c’è chi continua a combattere per riconquistare il diritto a quella fatica quotidiana, in un territorio dove il tasso di disoccupazione è ben oltre il 50% e raggiunge il 78% tra i giovani, dove su 127mila abitanti i senza-lavoro sono 38 mila e molto si regge sul welfare familiare garantito da 30 mila pensionati.
«Nessuno si azzardi a svitare un solo bullone della fabbrica. Dovrà vedersela con noi», dice Roberto, il casco da operaio sottobraccio, mentre esce dalla baracca fatta di legno, tela cerata e bandiere sindacali, simbolo della lotta dei lavoratori Alcoa. Nel presidio, abbarbicato al cancello che segna il confine con il deserto dello stabilimento, passano le loro giornate un centinaio di lavoratori organizzati in gruppi: ruotano in turni coordinati attraverso WhatsApp, nella chat (si chiama “Amici del presidio”) tra una foto e l’altra scorrono sofferenze, speranze, ironia. Ma mai rassegnazione. Arrivi qui, dopo aver attraversato i capannoni abbandonati, e ti aspetti di incrociare sguardi disperati. Invece trovi una resilienza che non ha nulla di velleitario o anacronistico. Nessuno parla più delle miniere e della loro epopea fuori dal tempo, piuttosto si ragiona sulle logiche delle multinazionali e sul ruolo dello Stato. Si ricorda con orgoglio che da questa fabbrica, prima che venisse fermata, usciva l’alluminio per le scocche della Ferrari. «È vero, noi combattiamo perché non abbiamo alternative e perché non possiamo andare avanti ancora per molto soltanto con la solidarietà tra le nostre famiglie – spiega Bruno, appoggiato al biliardino che qualcuno ha regalato al presidio -. Ma siamo davvero convinti che questa fabbrica possa sopravvivere facendo guadagnare i padroni e restituendo a noi il lavoro. Non chiediamoassistenzialismo». Martedì scorso, qui, non avresti incontrato nessuno: erano tutti a Roma, sotto il ministero dello Sviluppo economico, in attesa di notizie dal governo. L’ennesimo viaggio nel continente, dopo quelli degli ultimi anni con le proteste, gli scontri di piazza, le veglie davanti a Montecitorio. E le notizie hanno riacceso la speranza degli operai.
Alcoa è il gigante americano dell’alluminio (22,5 miliardi di dollari di fatturato in tutto il mondo) che nel 2010 ha deciso la dismissione dello stabilimento di Portovesme (un migliaio di lavoratori più quelli dell’indotto, per una produzione annua di 150 mila tonnellate, il 10% del consumo di alluminio in Italia): una rinuncia motivata con lo stop della Ue al regime delle tariffe elettriche scontate che il nostro Paese gli aveva garantito per quindici anni. «Come sempre ha prevalso la logica delle multinazionali: produrre altrove a costi più bassi. E così si sono volatizzati 170 milioni all’anno in buste paga nell’intera filiera dell’alluminio di Portovesme», dice Bruno Usai, delegato Fiom. Insomma, l’ennesimo danno collaterale della globalizzazione. Nel 2012, poi, il fermo vero e proprio dell’impianto con l’inizio della via crucis degli operai tra cassa integrazione e mobilità: a dicembre prossimo per circa 250 terminerà la copertura degli ammortizzatori sociali, poi via via toccherà a tutti gli altri seicento. «Senza contare i lavoratori dell’indotto: le aziende lì hanno chiuso e non hanno pagato quello che dovevano ai dipendenti. Stiamo cercando di recuperare quei soldi. C’è gente che ha bruciato tutti i risparmi per tirare avanti», dice Roberto Forresu, segretario della Fiom nel Sulcis.
Fino a qualche mese fa si pensava di evitare il baratro con l’intervento del gruppo svizzero Glencore, già a Portovesme con una fabbrica di zinco e piombo (l’unica ad oggi in funzione nell’intero polo industriale). Ma Glencore si è chiusa in un silenzio enigmatico. «Quando siamo arrivati sotto al ministero e abbiamo visto le strade piene di polizia ci siamo detti: “Ecco, oggi ci comunicano che Glencore ha detto no, che tutto è finito, e quindi si sono preparati per la nostra reazione” – racconta un altro operaio mostrando sul display del telefonino il video che ha girato martedì scorso a Roma –. Poi, invece, è spuntata la proposta del ministro Calenda e abbiamo rifiatato ».
Il piano del governo, appunto: Alcoa rinvii lo smantellamento dell’impianto per dare tempo alla società pubblica Invitalia di trovare un compratore, nel frattempo per gli operai ci saranno gli ammortizzatori previsti nelle aree di crisi complessa (500 euro al mese, con la speranza di un’integrazione da parte della Regione) e, per gli acquirenti, le tariffe agevolate allargate a tutte le aziende energivore presenti in Italia, così da disinnescare eventuali obiezioni europee sugli aiuti di Stato. In attesa del sì di Alcoa alla proposta, nel governo le bocche sono cucite, ma il dispiegamento delle misure fa pensare che qualcosa di concreto si stia muovendo. C’è la manifestazione di interesse dell’altro gruppo svizzero Sider Alloys; c’è il colosso russo Rusal, che a Portovesme produceva ossido di alluminio con la Eurallumina, fabbrica in attesa di una ripartenza degli impianti; soprattutto non si esclude che torni in pista Glencore al momento frenata, si dice, da tensioni tra gli azionisti. Voci, ipotesi, ragionamenti. Calenda ha promesso che tra quindici giorni verrà nel Sulcis e qualcuno, a scanso di equivoci, gli ha ricordato come qualche anno fa l’allora ministro Passera, anche lui in visita da queste parti, dovette fuggire in elicottero per evitare la rabbia dei lavoratori.
Intanto al presidio continua la vita sospesa degli operai. «Se i governi in questi anni fossero stati più affidabili, forse l’Alcoa sarebbe ancora qui – dice Angelo che oggi è in pensione, ma non fa mancare il suo appoggio agli altri -. Io gli americani e gli svizzeri li capisco pure: chi te lo fa fare a fidarti di un Paese dove le regole cambiano continuamente? Adesso c’è questa proposta di Calenda, e va bene, ma le aziende pubbliche dove sono? Dov’è Finmeccanica? ».
Di sera, nella piazza di Carbonia, i bambini corrono in bicicletta mentre i nonni si godono il tepore di fine estate. Intorno pochi negozi aperti e molti cartelli “affittasi”. È la fotografia di una comunità ferita dalla recessione e dal declino del polo industriale: «Fino a qualche tempo fa – racconta Roberto Puddu, segretario della Cgil locale – le persone in crisi preferivano rimanere a casa per non mostrare agli altri la propria angoscia. Ora la città sta reagendo, c’è voglia di riscatto».
Forse questo ottimismo della volontà non basterà a far ripartire le fabbriche, perché il futuro seguirà i percorsi tracciati dalla crisi economica, dalle strategie delle multinazionali, dalla debolezza della politica. Forse. «Ma noi non molliamo, da qui non ce ne andiamo », ripetono gli “Amici del presidio”, orgogliosi della loro vita sospesa.
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