Usa e Russia in Siria, realpolitik con l’ombra di Ankara
Riuscirà ad imporsi la promessa – perché di promessa di tregua si tratta non di un cessate il fuoco vero e proprio – annunciato nella notte di ieri da John Kerry e da Serghei Lavrov?
Dicono le cronache che alla fine, dopo tredici ore ininterrotte di trattativa, della quale gli americani negavano addirittura l’esistenza fino a poche ore prima, le due delegazioni (ma c’è una versione che dice solo quella russa) abbiano offerto ai giornalisti stanchi ed affamati, tante pizze fatte venire da un vicino McDonald’s e molte bottiglie di vodka. Forse sbagliamo, ma ci pare un’accoppiata russo-americana davvero indigesta.
Speriamo non lo sia l’accordo raggiunto che presenta alcune straordinarie novità insieme però ad evidenti le ambiguità.
Il cessate il fuoco vero dovrebbe cominciare lunedì 12 settembre, se il risultato della mediazione Usa-Russia sarà accettato dalle parti in causa.
La novità è che il piano, dopo mesi di colloqui e quattro vertici andati a vuoto, prevede la costituzione di un centro congiunto di intelligence di Washington e Mosca. Ma, ecco la prima ambiguità, sarà un «centro» che dovrà selezionare sul campo le operazioni militari condotte dai cosiddetti «gruppi moderati» e quelle invece dei terroristi. Come sarà possibile, visto che i gruppi «moderati» tengono militarmente solo grazie al fatto che operano spesso congiuntamente alle milizie qaediste?
Al Nusra ha cambiato nome ma è sempre appoggiata dal fronte dei paesi sunniti che sono all’origine del conflitto e Washington non l’ha mai messa nella «lista nera».
Comunque sia, la Russia s’impegna a fermare le forze di Assad anche nella contesa e decisiva Aleppo – e già Damasco si dichiara pronto al cessate il fuoco – e le milizie collegate di hezbollah e Iran.
Gli Stati uniti dovranno convincere gli «oppositori moderati» a rompere con i terroristi estremisti islamici. Un fronte eterogeneo e micidiale fino a poco tempo fa sostenuto sia dallo schieramento dei paesi sunniti a cominciare dalle petromonarchie del Golfo, Arabia saudita in testa, sia dagli «Amici della Siria» vale a dire gli stessi Stati uniti, tutti i Paesi europei Gran Bretagna in testa e in primis, questo è il punto, dalla Turchia.
Di Turchia non si parla nella promessa di accordo Usa-Russia. Meglio, si tace.
Erdogan, tra le tante malefatte interne del suo Sultanato, nell’ultimo mese e mezzo ha semplicemente aperto due fronti all’interno della Siria, di fatto invadendola coi carri armati, sempre dichiarando di combattere l’Isis, che ha sostenuto fino all’ultimo con addestramento, armi e traffico di petrolio. Ma in realtà massacrando preferibilmente i combattenti kurdi.
Nel silenzio generale, compreso quello russo: in buona sostanza, i kurdi prima sostenuti sia da Putin che da Obama ora sembrano scaricati da tutti, abbandonati sul sipario della realpolitik. Perché impedire un loro rafforzamento strategico sul finire della guerra non va bene certo per Ankara ma neanche per l’Iran, preoccupato per la sua minoranza kurda, e probabilmente lo stesso discorso vale ora per Damasco.
Così allegramente si accetta che la Turchia, grande alleato della Nato, pratichi di fatto coi suoi tank la famosa «zona cuscinetto» promessa anche dalla Germania a Erdogan prima del tentato e fallito golpe militare ad Ankara.
Fatto sta che la Russia di Putin torna ad essere decisiva per risolvere la frittata dell’intervento occidentale nella guerra in Siria, nella convinzione che il regime di Damasco sarebbe caduto com’era stato per Gheddafi in Libia.
Dentro c’è la tragedia del popolo siriano, con quasi 300mila morti, città distrutte peggio del terremoto dove si aggirano centinaia di migliaia di sopravvissuti e che necessitano di corridoi umanitari, c’è la disperazione di milioni e milioni di profughi che dilagano in Libano, Turchia e Giordania, ma sono scacciati in gran parte dalla «civile» Unione europea. Che non ne può più ed erige nuovi, vergognosi muri, perché i disastri della guerra che ha contribuito a provocare gli tornano in casa con effetti politici devastanti.
Così, fino a tre giorni, c’era il pericolo di tornare, come se niente fosse, a tre anni fa quando Obama, che scaldava i motori dei cacciabombardieri dopo la rivelazione di un falso attacco ai gas nervini, fu fermato a fine 2013 da papa Francesco che chiamò il mondo in piazza alla preghiera contro questa nuova inutile, «maledetta» guerra.
Con il nuovo accordo torniamo solo a un anno fa, quando il presidente Usa aveva accettato l’intervento militare di Mosca aprendo a Putin perché, come ormai ammetteva la stessa intelligence americana, l’appoggio americano agli insorti «moderati» (che sono stati sconfitti ma dettano poco credibili condizioni di resa ad Assad perché, nella transizione, resti per altri sei mesi e poi esca di scena) o era fallito o aveva sostenuto le milizie di Al Qaeda e lo stesso Stato islamico.
Ora le due superpotenze combatteranno in Siria insieme contro l’Isis. Dentro un oscuro orizzonte a stelle e strisce. Sullo sfondo di un anniversario dell’11 settembre e alla luce delle presidenziali statunitensi alle porte. Barack Obama senza mezzi termini manda a dire al «filo-russo» Trump che con Putin tratta e parla lui solo da posizioni di governo, cioè «di forza».
Ma c’è il rischio che il patto siglato da Kerry e Lavrov, con la nuova convergenza unitaria – stessa intelligence e forze congiunte di bombardamento aereo nella guerra in Siria – venga perfino rivendicato da The Donald, l’impresentabile magnate e candidato razzista repubblicano che solo pochi giorni fa, in un comizio con 80 ex generali, invitava proprio la Casa bianca ad unirsi alla Russia «contro l’Isis, nemico comune».
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