Ergastolo ostativo, il luogo comune del «fine pena»

Ergastolo ostativo, il luogo comune del «fine pena»

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Uno degli effetti del tumultuoso congresso del Partito radicale, tenutosi lo scorso fine settimana nel carcere romano di Rebibbia, è stato quello di illuminare – per quanto parzialmente e provvisoriamente – una questione cruciale. E sconosciuta ai più: quella del cosiddetto «ergastolo ostativo».

L’importanza di tale problematica non consiste nelle relazioni possibili tra un obiettivo circoscritto (l’abolizione di tale orrore giuridico) e la strategia generale di un partito: non si tratta, dunque, di una questione politologica come il ruolo che hanno le mobilitazioni su single issue nel definire una strategia complessiva nelle società capitalistiche avanzate (cosa di cui pure il congresso ha trattato).

Tutto ciò ha una sua rilevanza, certo, ma quel che più conta è la possibilità di leggere, attraverso il dispositivo giuridico dell’ergastolo ostativo, le acute incongruenze del sistema della giustizia e, ancor più oltre, il significato profondo di un senso comune e una mentalità condivisa a proposito della categoria di pena.

L’ergastolo ostativo è un particolare tipo di esecuzione della pena a vita formatosi attraverso una modifica della legge penitenziaria e l’interpretazione che ne ha dato la Corte costituzionale. Il decreto-legge 152 del 1991, stabilendo «provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata», introduce nell’ordinamento penitenziario l’articolo 4bis che prevede il divieto di concessione dei benefici per alcuni tipi di reato. Le misure alternative alla detenzione possono essere concesse ai detenuti condannati per quei delitti solo nei casi in cui gli interessati abbiano collaborato con la giustizia, oppure dimostrino di non poterlo fare.

Questa previsione ha immediatamente sollevato un problema enorme riguardo all’ergastolo.

La Corte costituzionale, infatti, nel 1974 aveva riconosciuto la legittimità del «fine pena mai» sulla base della sua elusività garantita dalla liberazione condizionale, alla quale può essere ammesso l’ergastolano che abbia scontato ventisei anni di carcere e che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento «tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».

Che succede, dunque, all’ergastolano cui sia vietato l’accesso alla liberazione condizionale? Dovrà passare l’intera vita in galera, inverando la minaccia dei fogli matricolari del ministero, secondo cui il suo fine pena è, appunto, «mai»? E non c’è, in questo caso, una violazione dell’articolo 27, comma 3 della Costituzione, secondo cui «la pena deve tendere alla rieducazione del condannato»? In poche parole, non viene in questo modo contraddetta la sentenza della Corte costituzionale del 1974?

La questione è stata ovviamente riproposta alla Consulta, la quale però nel 2003, con la sentenza 135, stabilisce che non c’è conflitto tra il divieto di concessione della liberazione condizionale e la finalità rieducativa della pena stabilità dalla Costituzione. Il divieto, infatti, secondo la Corte, «non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo». Tutto bene, dunque, per la Corte costituzionale.

Intanto, però, gli ergastolani continuano ad aumentare in termini assoluti e in percentuale tra i detenuti, per effetto del divieto di concessione della liberazione condizionale.

Al 12 ottobre 2015, gli ergastolani erano 1.619 (poco dopo l’approvazione dell’articolo 4bis erano 408). Di questi, 1.174 erano condannati (se non solo, anche) per l’associazione a delinquere di stampo mafioso, il più diffuso dei reati ostativi alla concessione dei benefici e delle alternative al carcere.

Su un campione di 246 ergastolani, più del 20% aveva superato la soglia di accesso alla liberazione condizionale subendo gli effetti del divieto di legge, configurandosi effettivamente come condannati a vita.

La più inequivocabile smentita di quel luogo comune così diffuso e così insidioso che fa dire a tanti (magistrati compresi): ma in Italia, praticamente, l’ergastolo non esiste. Già, praticamente.

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