Il tramonto dell’“età dei diritti” nell’era della globalizzazione

Il tramonto dell’“età dei diritti” nell’era della globalizzazione

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)

Con Danilo Zolo ripercorriamo i passaggi della crisi dei diritti umani, della democrazia e della pace, ormai avviata su un piano inclinato che non sembra avere un termine. L’indivisibilità dei diritti umani, stabilita dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, è stata disarticolata progressivamente, attraverso smottamenti e scomposizioni che hanno inciso sulla qualità della democrazia e della pace, diventate sempre più inadempienti. Al punto che ormai è la guerra che regola il sistema delle relazioni internazionali e la democrazia è ridotta a poco più di un orpello retorico. Si è determinato, sui fronti interni e su quello internazionale, uno scenario terrificante ai limiti del disumano. Guerra ai diritti sul fronte interno e guerra globale sul fronte internazionale sono l’una la continuazione dell’altra.

Del paesaggio di queste offese all’umanità Zolo presenta le istantanee più significative e dolorose. I diritti umani, la democrazia e la pace grondano sangue, sotto i colpi feroci di poteri che hanno esclusivamente a cuore i loro utili finanziari e il consolidamento delle loro sfere di dominio globale. La vita di masse di sfruttati, poveri, esclusi, emarginati è frantumata da questi meccanismi che approfittano del dolore umano. Più l’umanità soffre, più la disumanità dei poteri si accentua, dilatando all’infinito il suo egoismo insaziabile. Come ci ricorda Zolo, la globalizzazione mette in questione lo stesso diritto alla vita.

Eppure, pur nella drammaticità della condizione presente, Zolo fa sua la lezione di Norberto Bobbio: non arrendersi al destino e continuare a lottare, per quanto minime possano essere le probabilità di riuscita.

 

Redazione Diritti Globali: Il rapporto tra diritti umani, democrazia e libertà è andato sempre più in crisi con l’avvento della globalizzazione. Anzi, dalla guerra nei Balcani in avanti la risoluzione dei conflitti internazionali si è sempre più fondata sulla violazione dei diritti umani. A suo avviso, quali cause remote ha questo fenomeno?

Danilo Zolo: Il processo storico che noi occidentali chiamiamo “globalizzazione” non favorisce il successo e la diffusione dei diritti umani fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita. Per “globalizzazione” intendo la crescente espansione delle relazioni sociali fra gli esseri umani, dovuta anzitutto allo sviluppo tecnologico, alla rapidità dei trasporti e alla rivoluzione informatica. In secondo luogo intendo sostenere che sta diventando problematica anche la conservazione e la difesa delle istituzioni democratiche tuttora esistenti in Occidente. E vorrei infine richiamare l’attenzione su un fenomeno ancora più allarmante: la paralisi del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali di fronte al problema della guerra nel mondo. Aggiungo che a mio parere il diritto internazionale è sempre più condizionato a livello globale dagli interessi politici ed economico-finanziari delle grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti d’America.

Nel 1948 gli autori della Dichiarazione universale dei diritti umani avevano attribuito a tutti i soggetti umani il diritto di vivere. Speravano di mettere fine alle pratiche violente del passato e di cancellare per sempre la tragedia della Seconda guerra mondiale. Ma la formalizzazione del “diritto alla vita” non ha ottenuto il successo sperato. In particolare negli ultimi decenni non sono mancati fenomeni come la strage di migliaia di militari e di civili innocenti, il bombardamento a tappeto di intere città e l’uccisione sommaria di centinaia di persone ritenute responsabili di atti terroristici. A mio parere questa è la prova che il processo di globalizzazione tende a contrastare i principi affermati dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e tende a cancellare il principio stesso del “diritto alla vita”.

La Dichiarazione universale ha avuto il merito di rendere i diritti umani indivisibili e non confusamente separabili in diritti civili, politici, sociali. Ma non si possono tacere nello stesso tempo i limiti del documento: inaccettabile è secondo me il suo preteso universalismo e nello stesso tempo l’individualismo tipicamente occidentale.

Nel corso del processo di globalizzazione l’insufficienza della Dichiarazione universale si è fatta sempre più evidente. Come da tempo dimostrano i Rapporti di Amnesty International, la violazione dei diritti umani è un fenomeno di proporzioni crescenti. Il fenomeno riguarda un numero elevato di Stati, inclusi tutti gli Stati occidentali. Gli organismi e le agenzie incaricate di assicurare il rispetto dei diritti umani – anzitutto il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite – mancano di qualsiasi potere esecutivo. Le loro decisioni vengono sistematicamente ignorate e disattese. Si pensi ai crimini commessi dagli Stati Uniti ad Abu Ghraib, a Bagram, a Guantánamo, a Falluja, senza dimenticare quelli commessi da Israele nei territori palestinesi, in particolare a Gaza con la strage del dicembre 2008-gennaio 2009. I responsabili di questi crimini contro l’umanità hanno goduto e godono tuttora della più assoluta impunità, anche grazie alla connivenza della Corte Penale Internazionale dell’Aja. Luigi Ferrajoli ha scritto autorevolmente: «L’età dei diritti è anche l’età della loro più massiccia violazione e della più profonda e intollerabile diseguaglianza» (*).

 

RDG. In uno scenario così compromesso ritiene che “l’età dei diritti”, così come elaborata da Norberto Bobbio, abbia ancora un senso etico-politico e una realtà storica? O ritiene che sia diventata una retorica che copre disegni e pratiche di potere?

DZ: Bastano pochi dati per confermare drammaticamente il tramonto dell’“età dei diritti” nell’era della globalizzazione. John Galbraith, nella prefazione allo Human Development Report delle Nazioni Unite del 1998, aveva documentato che il 20% della popolazione mondiale più ricca si accaparrava l’86% di tutti i beni e servizi universalmente prodotti, mentre il 20% più povero ne consumava soltanto l’1,3%.

Da allora la situazione è cambiata. Secondo un Rapporto di Oxfam International di gennaio 2014, la metà della popolazione più povera del mondo, corrispondente a circa 3,5 miliardi di persone, ha un reddito annuale pari a quello degli 85 uomini più ricchi del pianeta. Metà della ricchezza a scala planetaria è tenuta dall’1% della popolazione mondiale. Il reddito dell’1% dei più ricchi del mondo equivale a 110 mila miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo. Nel mondo sette persone su dieci vivono in Paesi dove la disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni. Tra il 1980 e il 2012, l’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito in 24 dei 26 Paesi provvisti di serie storiche analizzabili. Negli Stati Uniti d’America l’1% dei più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90% della popolazione è impoverita.

In un altro Rapporto di Oxfam International del settembre 2013 sono analizzati gli effetti delle politiche di austerità sulla disuguaglianza e la povertà in Europa. In tutti i Paesi europei l’austerità ha fatto aumentare la disoccupazione giovanile, con la conseguenza drammatica che i giovani di oggi saranno più poveri dei loro padri. La dilatazione della classe dei working poor è impressionante: quasi una working family su dieci vive in povertà. Nel 2011 già 120 milioni di persone hanno dovuto affrontare la prospettiva di vivere in povertà. Entro il 2015, con il mantenimento delle politiche di austerità, questa massa enorme potrebbe aumentare di 15-20 milioni. Gli effetti indiretti che si riverseranno su tutto il mondo saranno devastanti.

Secondo l’ultimo Rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulle Tendenze globali dell’occupazione del 2014, nel 2013 quasi 840 milioni di lavoratori nel mondo potevano contare su meno di due dollari al giorno, mentre altri 202 milioni di persone erano disoccupate, con un aumento di cinque milioni rispetto al 2012. Nel 2013 il tasso di disoccupazione mondiale è stato del 6% e, a questi ritmi, le persone in cerca di lavoro aumenteranno di 13 milioni nei prossimi anni.

Secondo un Rapporto diffuso dall’OCSE a giugno del 2013, tra il 2007 e il 2010 le disuguaglianze di reddito sono cresciute più che nei 12 anni precedenti. Nei Paesi OCSE il 10% della popolazione più ricca ha un reddito 9,5 volte superiore a quello del 10% della popolazione più povera, mentre nel 2007 era di 9 volte. Tra il 2007 e il 2010 la media dei redditi sotto il livello di povertà è salita dal 13% al 14% tra i bambini, dal 12% tra i giovani ed è sceso dal 15 al 12% tra gli adulti. La considerazione più tragica sta nel fatto che questi divari sono destinati a crescere, a causa delle politiche di riduzione della spesa e di austerità applicate negli ultimi anni.

I dati forniti dall’ultimo Rapporto del Fondo Internazionale per lo Sviluppo agricolo delle Nazioni Unite segnalano che nelle aree rurali sono concentrate tre miliardi di persone, ovvero il 55% della popolazione mondiale. In queste regioni vivono ancora 1,45 miliardi di persone con un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno che equivalgono ad almeno il 70% della popolazione mondiale delle persone più povere del pianeta.

Le Nazioni Unite, nel Rapporto del 2013 che ha fatto il punto sul programma di attuazione degli Obiettivi di sviluppo del Millennio, hanno prospettato una situazione che nonostante progressi significativi continua a essere tragica. Nel mondo 1,2 miliardi di persone continuano a vivere in condizione di povertà assoluta. Più del 60% dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo continua a vivere con meno di quattro dollari al giorno. Circa 870 milioni di persone – una persona su otto – non riescono a consumare un pasto sufficiente al giorno. Quasi sette milioni di bambini al di sotto dei cinque anni sono morti principalmente a causa di malattie curabili ed evitabili. Nell’Africa subsahariana un bambino su nove muore prima di raggiungere i cinque anni, una percentuale 15 volte più elevata della media dei Paesi sviluppati. Nonostante notevoli passi in avanti, 768 milioni di persone non hanno ancora accesso all’acqua potabile: l’83% di esse vive in zone rurali. Per l’approvvigionamento, 180 milioni di persone dipendono ancora dall’acqua di fiume. La mancanza di acqua è inoltre la causa di una drastica diminuzione della produzione alimentare e di un aumento delle malattie legate alla denutrizione.

Tutto questo accade perché le grandi potenze praticano complesse strategie nelle quali si sovrappongono la competizione mercantilistica fra gli Stati, il regionalismo economico e il protezionismo settoriale. Un esempio agghiacciante è fornito dalla cancellazione dalla faccia della terra delle aree agricole regionali – dall’India all’America Latina, dall’Africa all’Indonesia e alle Filippine – sostituite da immense monoculture. I contadini e le loro famiglie, espulsi dai loro campi, si rifugiano negli sterminati slums urbani del pianeta. Spesso si uccidono perché non riescono a pagare i debiti che hanno fatto, nel tentativo di acquistare le sementi e i fertilizzanti ai prezzi imposti dalle corporations europee e statunitensi dell’agro-business.

 

RDG: Norberto Bobbio si è spesso interrogato sul futuro della democrazia. Nelle condizioni imposte dalla globalizzazione, la democrazia ha ancora uno spazio e un tempo? O il suo futuro si sta estinguendo nel presente? E qual è il destino del Welfare state in una democrazia senza futuro?

DZ: Se per democrazia intendiamo un regime nel quale la maggioranza dei cittadini è in grado di controllare i meccanismi della decisione politica e di condizionare i processi decisionali, allora è legittimo pensare che oggi la democrazia è in grave crisi. Come già nel secolo scorso Max Weber e Joseph Schumpeter avevano intravisto, le stesse nozioni di “rappresentanza”, di “sovranità popolare” e di “interesse collettivo” sono ormai dogmi illuministici senza alcun rilievo politico e lontanissimi dalla cultura popolare.

È inoltre molto incerto che cosa si debba intendere oggi per “partiti politici”. Come Leslie Sklair ha sostenuto e Luciano Gallino ha documentato, le democrazie operano ormai come dei regimi dominati dalla cosiddetta “nuova classe capitalistica transnazionale”. Essa controlla i processi di globalizzazione dall’alto delle torri di cristallo di metropoli come New York, Washington, Londra, Francoforte, Nuova Delhi, Shanghai. In questo contesto il sistema dei partiti politici è in notevole difficoltà. I partiti non sono più dei veicoli della rappresentanza politica, sostenuti dai propri militanti ed elettori. Ormai al centro della vita democratica si erge trionfante lo schermo televisivo, attraverso il quale i leader politici si rivolgono ai cittadini mettendo in mostra, secondo precise strategie di marketing televisivo, i “prodotti” che intendono vendere. Attraverso circuiti occulti i partiti distribuiscono ai propri collaboratori risorse finanziarie, vantaggi e privilegi economici e politici.

Oltre a questo, analisi attendibili mettono in luce sempre più chiaramente la logica bipartisan che induce i partiti politici ad accordarsi fra di loro su tutto ciò che è essenziale per la loro stabilità in quanto facoltosi apparati burocratici. Un esempio clamoroso è l’imponente autofinanziamento dei partiti, del tutto sottratto a qualsiasi controllo o sanzione. E lo stretto rapporto di solidarietà collettiva è tale che consente all’insieme dei partiti di porsi in concorrenza con gli altri soggetti della poliarchia nazionale. Si pensi, per quanto riguarda l’Italia, a strutture di potere che non è esagerato chiamare “quasi-statali”: la mafia, la ’ndrangheta calabrese, la camorra, i trafficanti di droga, le grandi banche d’affari, le compagnie di assicurazione e, non ultimi, i servizi segreti. In sintonia con questi soggetti “pubblico-privati”, la maggioranza dei partiti opera al di fuori del sistema politico e, talora, contro l’ordinamento giuridico. Si pensi – sempre con riferimento all’Italia – alla fitta rete degli appalti pubblici, che opera come la casa madre miliardaria della corruzione e della concussione di leader politici, funzionari pubblici e manager.

Occorre aggiungere che l’opinione pubblica non dispone di fonti di informazione indipendenti dal sistema telecratico mondiale. I poteri informatici locali sono connessi alla struttura internazionale dell’industria multimediale. Le corporations transnazionali che monopolizzano l’emittenza televisiva sono in maggioranza insediate negli Stati Uniti: fra queste Time Warner, Disney, Bertelsmann, Viacom, News Corporation, Sony, Fox. La comunicazione pubblicitaria diffonde in tutto il mondo messaggi simbolici fortemente suggestivi che esaltano la ricchezza, il consumo, lo spettacolo, la competizione, il successo, la seduzione del corpo femminile. Gli impulsi acquisitivi di chi riceve i messaggi vengono così stimolati secondo gli interessi dell’economia capitalistica ormai dominante a livello globale.

La mia opinione è che i processi di globalizzazione rendono sempre più improbabile la conservazione dei delicati meccanismi della democrazia. Essi vengono sostituiti da forme di esercizio del potere che sono concentrate nelle mani di pochi esperti senza scrupoli. Il potere esecutivo – il Parlamento è ormai privo di funzioni autonome – si sostituisce a quella che un tempo era la volontà del “popolo sovrano”. Di conseguenza è assente la partecipazione attiva dei cittadini e decade il loro senso di appartenenza a una comunità civile e democratica.

Oltre a ciò, il processo di globalizzazione ha posto in crisi le strutture del Welfare state e ha favorito la nascita di regimi che, pur sventolando ancora la bandiera della democrazia, sono in realtà oligarchie elitarie, tecnocratiche e repressive. Sono regimi orientati alla pura efficienza economico-finanziaria, al benessere della classe dominante e alla discriminazione dei cittadini non abbienti, in particolare dei migranti, trattati non di rado come “barbari invasori”.

In questo quadro il processo di globalizzazione aggrava ulteriormente gli squilibri sociali non risolti dal Welfare state. La competizione globale impone la concorrenza soprattutto nei settori produttivi più deboli, a cominciare dalla forza-lavoro. Il lavoro dipendente è ormai scarso, precario, segmentato, poco retribuito, anche a causa della concorrenza di Paesi caratterizzati da un eccesso di forza-lavoro e da una scarsa protezione dei lavoratori.

 

RDG: Il complesso di queste trasformazioni quali incidenze ha avuto sulle politiche di controllo sociale e sui sistemi di codificazione della sanzione penale e delle pene detentive? Quale è, insomma, il rapporto fra Stato, globalizzazione, controllo e diritto penale?

DZ: Ai processi di globalizzazione corrisponde, nella maggioranza dei Paesi occidentali, una profonda trasformazione delle politiche penali e repressive: una trasformazione per la quale Loïc Wacquant ha coniato l’espressione: «dallo Stato sociale allo Stato penale». Gli Stati occidentali accordano un’importanza crescente alla difesa poliziesca delle persone e dei loro beni. E l’amministrazione penitenziaria tende a occupare spazi sempre più ampi. Si ritiene infatti che il carcere sia lo strumento più efficace per far fronte agli sconvolgimenti causati dallo smantellamento dello Stato sociale e dall’insicurezza sociale che investe sempre più i soggetti deboli ed emarginati.

Un caso esemplare è rappresentato dalle politiche penali e penitenziarie praticate negli Stati Uniti nell’ultimo trentennio e, con un leggero ritardo, anche dalla Gran Bretagna e da altri Paesi europei, l’Italia compresa. Gli Stati Uniti occupano di gran lunga il primo posto nell’incarcerazione di un numero crescente di detenuti. Dal 1980 a oggi la popolazione penitenziaria si è più che triplicata, raggiungendo nel 2008 la cifra di 1.522.834 detenuti nelle prigioni statali o federali, 777.852 in quelle locali, oltre a 4.244.046 persone sottoposte al regime di probation e 824.834 in parole.

 

RDG: Se sono abbastanza chiare le relazioni tra Stato, diritti umani, democrazia e disuguaglianza, come la globalizzazione ha ridefinito il legame tra pace e guerra?

DZ: Per quanto riguarda la pace, la mia opinione è che essa non è mai stata così apertamente violata dalle istituzioni internazionali e senza alcun rispetto del diritto internazionale, scritto e consuetudinario. Nel contesto del processo di globalizzazione la guerra di aggressione è stata sempre più legalizzata e “normalizzata” come una “guerra giusta”. Le grandi potenze occidentali hanno dichiarato di usare la guerra come uno strumento essenziale per diffondere i diritti umani e la democrazia in tutto il mondo. E per garantire un futuro di pace esse ricorrono alla war on terrorism, estesa quasi in ogni angolo del pianeta. Negli ultimi vent’anni le istituzioni internazionali, anzitutto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Corte Penale Internazionale, hanno assecondato senza scrupoli la politica bellica degli Stati Uniti e dei loro alleati.

La produzione e il traffico delle armi da guerra, incluse quelle nucleari e spaziali, è ormai fuori dal controllo della cosiddetta “comunità internazionale” e delle sue istituzioni. E l’uso delle armi dipende dalla “decisione di uccidere” che viene presa da autorità statali e non statali secondo le loro convenienze strategiche, di carattere non solo politico ma anche e soprattutto di carattere economico. Sentenze di morte collettiva sono state emesse al di fuori di qualsiasi procedura giudiziaria contro migliaia di persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale. La morte, la tortura, il terrore sono ingredienti di una cerimonia che non suscita più alcuna emozione. Il patibolo globale offre uno spettacolo quotidiano così scontato e ripetitivo da essere ormai stucchevole per le grandi masse televisive.

Il fallimento del pacifismo autocratico delle Nazioni Unite e dei Tribunali penali internazionali ad hoc, istituiti per volontà degli Stati Uniti, è sotto gli occhi di tutti. Per provarlo sarebbe sufficiente una rapida rassegna delle guerre di aggressione scatenate dalle potenze occidentali a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso. Si tratta di guerre che possono essere definite “terroristiche” per la violenza sanguinaria con cui sono state condotte o che vengono tuttora condotte. Ma si tratta di “guerre terroristiche” anche perché sono state la causa della replica terroristica da parte di Paesi islamici che sono stati aggrediti, martoriati, militarmente occupati.

Si può pertanto sostenere che oggi il terrorismo è un nuovo tipo di guerra, è il cuore della “guerra globale” che è stata scatenata dal mondo occidentale. E il terrorismo è una delle ragioni del diffondersi nel mondo occidentale dell’insicurezza e della paura. Nel solco della globalizzazione il tramonto dei diritti umani e della democrazia coincide con il tramonto della solidarietà e dell’apertura al dialogo con i “diversi”. È un tramonto globale che oscura il nobile sogno di Norberto Bobbio: il sogno di un mondo unificato, pacificato e governato da una sola autorità sovranazionale.

Se questa chiave di lettura può essere accolta, allora è lecito sostenere che la guerra del Golfo del 1991 e le guerre successive scatenate contro la Repubblica Federale Jugoslava, l’Afghanistan, l’Iraq, il Libano, la Palestina e la Libia, hanno segnato il trionfo della simulazione “umanitaria” nell’uso terroristico del potere militare. In particolare le guerre condotte dalla NATO prima contro la Repubblica Federale Jugoslava e poi contro la Libia possono essere assunte come l’archetipo della guerra di aggressione terroristica, abilmente coperta sotto le vesti della guerra umanitaria. Si è trattato in realtà di guerre di aggressione dirette a realizzare un progetto neo-imperialistico di egemonia globale sul terreno politico, militare e soprattutto economico.

L’erosione dei diritti umani, della democrazia e della pace è dunque l’esito di un processo globale voluto dalle potenze occidentali oltre che garantito dalle istituzioni economico-finanziarie che stanno compromettendo le basi stesse della sussistenza dell’uomo.

 

RDG: Quali sono le conclusioni che possiamo trarre da una realtà così sconfortante e che esige profondi impegni per il suo cambiamento?

DZ: Concludo chiedendo a me stesso se è possibile intravedere qualche soluzione per le tragedie che insanguinano il mondo. Non posso non pensare alle migliaia di bambini che ogni giorno muoiono perché denutriti, alle centinaia di migliaia di piccoli coltivatori suicidi, alla discriminazione spietata fra ricchi e poveri, fra potenti e deboli, fra noi e gli “altri”. Penso alla rovina delle istituzioni democratiche e alla depressione della nuove generazioni prive di solidarietà comunitaria e di futuro.

Devo confessare che non sono in attesa di un mondo migliore. I diritti umani, la democrazia e la pace stanno tramontando tra le fitte nubi della globalizzazione e delle guerre terroristiche che trascina con sé. Io non sono un ottimista, come non lo era Norberto Bobbio. Il mio pessimismo non mi consente di intravedere un filo di luce all’orizzonte. E tuttavia non dimentico la massima alla quale Bobbio si era comunque ispirato: «Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato il motore di una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliardesimo di probabilità che il granello sollevato dal vento vada a finire negli ingranaggi del motore e ne arresti il movimento, la macchina che stiamo costruendo è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino» (**).

Anch’io non nego che valga la pena di lottare in extremis e di sfidare il destino.

 

 

(*) La citazione di Luigi Ferrajoli è tratta dal suo saggio Diritti fondamentali e democrazia costituzionale, in Paolo Comanducci, Riccardo Guastini (a cura di), Analisi e diritto 2002-2003, Giappichelli, Torino, 2004, p. 347.

(**) La citazione di Norberto Bobbio è tratta dal suo testo Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 94-95.



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