Sulla questione carceraria batte il pendolo dell’emozione pubblica

Sulla questione carceraria batte il pendolo dell’emozione pubblica

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)

Secondo Claudio Sarzotti, ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Torino, si va sempre più diffondendo l’idea che «l’istituzione penitenziaria in senso stretto sia irredimibile al fine della rieducazione e del reinserimento sociale». Al più, si ragiona in termini di “riduzione del danno” rispetto agli effetti di prigionizzazione che il carcere produce, legati anche alle clamorose violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti. Perché violenza e sopraffazione sono presenti oggi, come documentato recentemente anche dal caso di Asti, come lo erano in passato, e come racconta anche il “Museo della Memoria Carceraria” a Saluzzo.

 

Redazione Diritti Globali: Il decreto legge del governo Monti per contrastare il sovraffollamento carcerario, consolidando peraltro dei timidi passi intrapresi già dall’allora ministro Angelino Alfano, sembra interrompere una tendenza risalente nel tempo, ovvero quella di provare a costruire il consenso sociale premendo soprattutto sull’acceleratore del controllo penale. Siamo effettivamente davanti a un cambio di tendenza, o si tratta semplicemente del fatto che la situazione nelle carceri è divenuta effettivamente intollerabile?

Claudio Sarzotti: Il governo Monti rappresenta come noto un commissariamento della politica intesa come sistema dei partiti. Questa sospensione della politica paradossalmente può favorire nell’ambito delle politiche penitenziarie il ritorno ad un atteggiamento del governo meno condizionato dal mercato del consenso elettorale nel quale, com’è altrettanto noto, il tema “allarme sicurezza” ha sempre prodotto copiosi profitti a chi lo ha evocato in termini securitari. D’altro canto, è vero che il pendolo dell’emozione pubblica sul carcerario sta transitando verso il polo “lo scandalo del sovraffollamento” dopo aver abbandonato da tempo l’altro apice del pendolo: “lo scandalo dei detenuti liberati che tornano a delinquere”. Quello che occorrerà verificare nei prossimi mesi è se il governo Monti saprà uscire da questo alternarsi di momenti emotivi per introdurre degli elementi di ragionevolezza nel dibattito pubblico sulla criminalità e sulla pena. E poi ancora: qualora ciò dovesse accadere, quali saranno le ricadute politiche e culturali di tale ragionevolezza quando riprenderà (perché prima o poi questo dovrà pur accadere!) la dialettica del sistema dei partiti?

 

RDG: Ma una vera inversione di tendenza sui temi citati sopra cosa dovrebbe significare oggi? La Costituzione repubblicana attribuisce ancora alla pena una funzione rieducativa, ma qual è lo stato di salute oggi del paradigma rieducativo a cui questa idea si ispira? Qual è la sua solidità teorica? E la sua rilevanza nelle prassi e nelle ideologie degli operatori?

CS: Un’inversione di tendenza in questa fase storica non credo sia possibile proprio perché la natura del governo Monti è di tipo tecnocratico, una natura che non consente quindi di “volare alto” e di proporre alternative istituzionali e culturali di ampio respiro. Del resto, anche nel dibattito scientifico e degli operatori mi pare di sentire solo respiri assai corti. Ormai credo si vada sempre più diffondendo l’idea che l’istituzione penitenziaria in senso stretto sia irredimibile al fine della rieducazione e del reinserimento sociale. Al più si ragiona in termini di “riduzione del danno” rispetto a quegli effetti negativi della cattività che Donald Clemmer chiamava prigionizzazione. Nel mondo degli operatori, in particolare, noto sempre più una perdita di senso del lavoro trattamentale; e del resto pensando alle condizioni materiali in cui oggi avviene tale lavoro ci sarebbe da stupirsi del contrario.

Vorrei peraltro sottolineare come le strategie di riduzione del danno non siano comunque da considerarsi di scarso rilievo in una situazione storica che probabilmente ancora per molti anni renderà impossibile emanciparci dalla triste necessità del carcere. I fatti emersi nel processo per le torture avvenute al penitenziario di Asti dimostrano come ancora oggi siano possibili nelle nostre carceri situazioni che sono inaccettabili per un Paese civile; situazioni che non solamente rendono risibili le pretese rieducative del carcere, ma che mostrano come la pena detentiva possa essere lesiva della stessa integrità fisica e psicologica della persona reclusa. Siamo al grado zero del rispetto della dignità umana, tanto per rievocare l’art. 27 della Costituzione, quando una persona può essere rinchiusa per giorni in una cella di isolamento, picchiata quotidianamente, privata del cibo e costretta al freddo senza che né la direzione dell’istituto, né i medici penitenziari siano in grado di impedire quello che lo stesso giudice di Asti ha definito un vero e proprio «sistema di sopraffazioni e di vessazioni». In questi casi, è chiaro che anche il semplice rispetto degli antichi principi dell’habeas corpus avrebbe un impatto assai rilevante sulle condizioni detentive.

 

RDG: Da molte parti si auspica oggi un “ritorno alla Gozzini”, nei fatti assai problematico. Da un canto, l’oggettiva situazione di crisi finanziaria, e una prospettiva di crescente contenimento della spesa pubblica, rendono difficile prevedere che nel prossimo futuro, sul tema delle politiche di inclusione degli autori di reato, si possa fare quello che non si è fatto in passato. Anche la spinta ideologica che sosteneva politiche simili oggi si è affievolita. Allora, il rifiuto della “bulimia penale” in che direzioni ci potrebbe portare nel futuro prossimo? Quali sono le strategie possibili oggi di contenimento della pena e del carcere?

CS: Non mi farei grosse illusioni sulla possibilità che le misure alternative alla detenzione possano trasformarsi in un reale strumento di reinserimento sociale. Le condizioni strutturali dell’odierno mercato del lavoro e l’assai ridotta disponibilità da parte del pubblico di finanziare politiche sociali sono tali per cui non è ragionevole prevedere esiti quantitativamente significativi di eventuali politiche di “ritorno alla Gozzini”. Quello che però potrebbe essere ottenuto abbattendo anche legislativamente alcune barriere di accesso alle misure alternative introdotte dagli ultimi governi, sarebbe ridare speranza a una larga fascia di reclusi che oggi non hanno alcuna possibilità di accedere alle stesse. Tale abbattimento, infatti, non andrebbe solamente valutato nei suoi effetti di reale reinserimento dei condannati che accedono alle misure alternative, ma anche rispetto ai benefici indiretti che produrrebbe negli istituti, dove ormai la totale abulia della popolazione detenuta è provocata anche dal disinteresse a percorsi trattamentali che abbiano come naturale sbocco positivo la possibilità di uscire dal carcere. E penso soprattutto ai recidivi.

 

RDG: A proposito di nuove strade da battere, il decreto governativo ha imposto la chiusura definitiva degli attuali OPG entro il 31 marzo 2013. Per allora andranno individuate nuove strutture e nuove modalità per l’esecuzione delle misure di sicurezza dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e della Casa di Cura e Custodia. Si tratta di una novità importante, che offre grandi opportunità, eppure molti fanno notare come questa scelta lasci del tutto immodificato l’attuale nostro sistema, che prevede, da un lato, la non imputabilità, e dunque la non punibilità, per incapacità di intendere e di volere, e, dall’altro, prevede delle misure di sicurezza detentive che appunto prescindono dall’imputabilità, e dunque dalla responsabilità penale. Quale giudizio si può dare oggi di questo sistema che risale al Codice Rocco? È necessario un suo superamento?

CS: Il superamento degli OPG è uno degli interventi più meritori dell’attuale governo e va proprio in quell’ottica di ragionevolezza di cui parlavo in precedenza. Tuttavia, l’attuale riforma conserva un indubbio pericolo: che si creino tanti piccoli OPG a livello regionale, forse addirittura contenuti all’interno delle cinte murarie degli istituti penitenziari, strutture con condizioni igienico-sanitarie certamente migliori di quelle precedenti, ma che ritornerebbero inevitabilmente a ribadire la centralità del carcere come istituzione deputata a intervenire sul disagio mentale che ha prodotto reati.

Se questo è un problema, sono scettico sulla possibilità che il nostro sistema politico-culturale sia in grado di accettare la tesi secondo la quale il disagio mentale sia da considerarsi come una qualsiasi patologia e quindi non meriti alcun trattamento particolare da parte del nostro ordinamento penale. Esistono filoni del pensiero psichiatrico che sostengono apertamente che così come non esistono carceri per cardiopatici così non dovrebbero esistere strutture ad hoc per coloro che hanno commesso reati in quello che oggi chiamiamo incapacità di intendere e volere, in quanto questa capacità è comunque sempre presente e semmai può soltanto essere ridotta in certi soggetti. Al di là della plausibilità scientifica di questa tesi, per certi aspetti affascinante (su cui non mi pronuncio perché non ne ho la competenza professionale), credo che i suoi esiti pratici potrebbero essere molto pericolosi e per certi aspetti farci arretrare nel percorso di riconoscimento dei diritti delle persone recluse negli attuali OPG. La mia opinione, invece, è che occorra andare verso la sperimentazione di strutture comunitarie sul territorio gestite al loro interno esclusivamente da personale sanitario e in cui la polizia penitenziaria si occupi unicamente della sicurezza esterna. Tali strutture, inoltre, dovrebbero garantire la compresenza di pazienti estranei al circuito penale, in modo da evitare che esse si trasformino in una sorta di lebbrosari in cui rinchiudere i pazzi pericolosi. È una strada certamente non facile da percorrere, ma che all’estero – penso al Regno Unito – ha già dato frutti non trascurabili.

 

RDG: È soprattutto grazie all’iniziativa politica dei Radicali che trova ancora spazio nel dibattito pubblico il tema dell’amnistia. Caso unico in Europa, nel nostro Paese gli interventi clemenziali sono stati per molto tempo un importante strumento di politica penitenziaria. Oggi però, a causa della modifica del 1992 del quorum necessario per la loro approvazione, del mutato clima di opinione, e del bilancio disastroso in termini di consenso che ebbe l’indulto del 2006, il ricorso a una legge di amnistia appare molto difficile. Si tratta comunque di una strada ancora percorribile?

CS: La modifica del quorum mi sembra un’innovazione legislativa assolutamente ragionevole anche per evitare che il provvedimento clemenziale possa essere utilizzato strumentalmente da maggioranze politiche a fini elettorali. Detto questo, mi pare che l’indulto del 2006 abbia dimostrato come provvedimenti di questo genere siano del tutto inutili se non si modificano in parallelo le dinamiche che producono il sovraffollamento. È chiaro che la situazione è tale che l’uso della parola emergenza è una volta tanto appropriato, nel senso che effettivamente, come ha ormai più volte ribadito la Corte di Giustizia europea, le condizioni di sovraffollamento sono di tale entità e così prolungate da costituire un’obiettiva violazione dei diritti fondamentali delle persone recluse. Si potrebbe quindi sostenere: a mali estremi, estremi rimedi. Ma temo che un discorso di questo genere sia poco accettabile da parte di un sistema dei partiti che è terrorizzato di perdere ulteriore credito dinnanzi all’emozione pubblica (e non uso a caso tale espressione, distinguendola dalla tradizionale opinione pubblica che faceva riferimento alla sfera razionale del pubblico dei cittadini). Né può essere il governo Monti a porre all’ordine del giorno una questione che tipicamente è competenza delle forze parlamentari.

 

RDG: Mentre ci interroghiamo su come dovrebbe essere il diritto penale d il diritto penitenziario di domani, sappiamo che con altri state lavorando a un “Museo della Memoria Carceraria” a Saluzzo. In che consiste questo progetto? E quale potrebbe essere il suo contributo ai temi sul tavolo oggi?

CS: Il progetto parte dall’obiettivo di recuperare alla fruizione pubblica e alla riflessione scientifica una struttura architettonica come la Castiglia, che rappresenta uno dei luoghi simbolo della città di Saluzzo, in provincia di Cuneo, sin dal Medioevo. Tale luogo è stato riadattato a carcere negli anni venti del XIX secolo ed è rimasto tale sino al 1992. La sua posizione al centro della città dimostra come nell’Ottocento il carcere fosse un progetto di trasformazione disciplinare dell’individuo fondamentale per la nascente società borghese. Il carcere di Saluzzo fu il primo carcere in senso moderno del termine del Regno Sabaudo e sarà quindi attraverso la sua storia che cercheremo di narrare la parabola di un’istituzione che nel corso dei decenni ha seguito le trasformazioni della società, ma ha mantenuto inalterati degli elementi strutturali che sono presenti ancora oggi. Se si legge la memoria del primo direttore del carcere di Saluzzo, Giacomo Caorsi (un Brubaker ante litteram), inviata al Parlamento sabaudo nel 1850, sembra di leggere le rimostranze verso l’amministrazione di un direttore del XXI secolo! O le lettere dei reclusi del 1848 che abbiamo trovato all’Archivio di Stato di Torino, con le loro istanze di riduzione della pena e le rimostranze contro le angherie inflitte dalle guardie. Il percorso museale sarà in gran parte virtuale e si incentrerà su ricostruzioni in forma di ologramma di personaggi più e meno famosi che racconteranno le loro vicende legate alla storia del carcere di Saluzzo. L’obiettivo è quello di suscitare l’interesse dello studioso del tema (a tale scopo, annesso al museo, è in via di costituzione una biblioteca e un centro studi di livello internazionale che dovranno raccogliere e produrre documenti e pubblicazioni scientifiche sulla storia dell’istituzione penitenziaria), ma anche e soprattutto quello del visitatore non esperto che deve potersi avvicinare piacevolmente a una questione che rappresenta una sorta di specchio deformato attraverso la quale guardare all’intera cultura di un Paese.

Il carcere è ormai diventato un topos dell’immaginario collettivo: nel museo si darà spazio ad esempio alle rappresentazioni letterarie, cinematografiche, architettoniche dell’istituzione penitenziaria, sino ad arrivare a come esso è stato raffigurato nelle vignette satiriche e nella fumettistica.

Quando si fa storia del carcere, quindi, si fa storia sociale e delle istituzioni, senza mai dimenticare che il punto di vista della popolazione reclusa è stato da sempre sottorappresentato nel racconto di tali vicende, come sempre accade ai gruppi sociali che hanno meno strumenti culturali per proporre la loro narrazione. Non è un caso che possediamo le principali letture della vita carceraria dagli esponenti delle classi colte che sono incappati nelle maglie della giustizia penale. È il caso delle Mie prigioni del saluzzese Silvio Pellico a cui è dedicata un’apposita sezione del museo legata alla detenzione politica, in cui i detenuti del nostro Risorgimento sono accomunati ai detenuti antifascisti e alla deportazione dei perseguitati valdesi della fine del Seicento, umanità dolente che ha conosciuto le fredde mura della Castiglia. Ma il nostro tentativo sarà di far rivivere anche la dura esperienza della vita detentiva di coloro che non hanno voce, attraverso le lettere che da sempre i detenuti spediscono ai familiari e a chiunque voglia ascoltarli, nonché attraverso la valorizzazione dei cosiddetti graffiti carcerari (ne abbiamo trovati moltissimi anche nelle celle della Castiglia, alcuni risalenti sino all’Ottocento); quei graffiti che Cesare Lombroso chiamava, in un libro così intitolato, “palimsesti del carcere”, opera in cui alla fine dell’Ottocento, da onesto positivista, il fondatore dell’antropologia criminale certificava empiricamente il fallimento della finalità rieducativa del carcere cellulare. Come si vede, quando oggi parliamo della disillusione degli operatori sugli effetti rieducativi del trattamento penitenziario non diciamo niente di nuovo…



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