Il razzismo contro i rom e il coraggio del loro esistere

Il razzismo contro i rom e il coraggio del loro esistere

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Intervista a Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi a cura di Antonio Chiocchi (dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)

La persecuzione dei rom ha una storia antica: nasce con la loro venuta in Europa nel Quattrocento. Con Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi, fondatori dell’associazione UPRE ROMA, seguiamo questa storia dagli inizi fino agli approdi della contemporaneità. Viaggiamo con loro tra le costanti e le varianti di questa persecuzione: mai smentita, sempre confermata e sempre modificatasi. Volendo usare una espressione sintetica, ma efficace, possiamo dire che i rom e i sinti sono i condannati dal potere, per il loro essere ed esistere. L’inaccettabilità dei rom e dei sinti da parte dei sistemi di potere che hanno governato il mondo corrisponde all’accettazione incondizionata da parte dei rom e dei sinti dei linguaggi della libertà del mondo e della libertà come mondo. Come ci ricordano Dijana e Paolo, la patria dei rom e dei sinti è più grande di tutte le piccole patrie: è la terra di cui non si può essere nemici e che tutti ci riconosce.

Agli occhi del potere, il problema di fondo sollevato dai rom e dai sinti nasce da qui. Costituiscono l’inaccettabile e l’intollerabile, perché non si appropriano della terra, ma la solcano; non la usano, ma la attraversano; non la occupano, ma la abitano. Più i rom e i sinti ci ricordano queste verità primordiali, più le società oppressive che li perseguitano devono toglier loro la parola. Contro di loro la voce dell’oppressione risuona proprio per renderli muti e invisibili. Il loro abitare il mondo non solo è deriso e offeso, ma è soprattutto interdetto. Anche per questo l’architettura e l’estetica dei campi in cui sono segregati sono così misere, estraneanti e vuote di senso dell’umanità.

Il razzismo sotto traccia, di cui parlano Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi, dà impulso, vita e sostanze alle pratiche di esclusione contro cui da sempre i rom e i sinti hanno dovuto combattere. Ed è vero: proprio questa secolare oppressione che non è stata capace di distruggerli dimostra tutto il loro coraggio e la loro determinazione. Da condannati dal potere, si trasformano in indomabile resistenza all’odio, alla violenza e alla discriminazione.

 

Redazione Diritti Globali: Contro i rom e i sinti si è sedimentato e diffuso nel tempo un’inestinguibile avversione che, non di rado, è sfociata nell’odio, nella persecuzione e nella violazione di tutti i più elementari diritti umani. V’è in ciò qualcosa di antico e continuamente risorgente? Cosa, invece, di specifico è stato partorito nella contemporaneità delle società neoliberali e, più ancora, nella crisi globale che sta impoverendo il mondo?

Dijana Pavlovich e Paolo Cagna Ninchi: Nelle prime cronache del 1400 giunte sino a noi si parla di questi gruppi stravaganti per abbigliamento e usi che si fermavano ai bordi delle città e che, ben presto, divennero oggetto di attenzione delle autorità per la loro estraneità. Quindi il pregiudizio è antico e di conseguenza la discriminazione e poi la persecuzione sono antichi e hanno conservato intatti i loro segni che si sono impressi in modo indelebile su questo popolo, fino alle estreme conseguenze dello sterminio su base razziale del nazifascismo. Gli effetti della crisi globale che sta impoverendo il mondo, più che sul piano delle condizioni materiali di un popolo che ha fatto della capacità di sopravvivere in qualunque condizione un proprio modo di essere, agiscono sul rapporto con la popolazione maggioritaria che, anche senza l’aiuto degli imprenditori della paura e dello sfruttamento politico, ne fa il capro espiatorio preferito, insieme con gli immigrati, del proprio malessere non solo economico, ma diremmo anche di perdita di senso nella società neoliberale.

 

RDG: Volendo fare il punto, secondo quanto suggeritovi dalla vostra esperienza, quali sono le problematiche più preoccupanti della situazione dei rom e dei sinti in Italia e in Europa? L’Unione Europea, con i suoi continui appelli al rispetto dei loro diritti, quanto è conseguente nella salvaguardia dell’integrità culturale dei rom e dei sinti? I suoi programmi di integrazione e inclusione accolgono e rispettano effettivamente la loro diversità costitutiva?

DP e PCN: Osservando la situazione dal punto di vista di quello che fanno le istituzioni nazionali ed europee si possono cogliere segnali di consapevolezza che le politiche sinora attuate per rom e sinti non hanno prodotto i risultati sperati, nonostante i rilevanti investimenti disponibili. Sono importanti le direttive anche recenti per favorire processi di inclusione sociale e di contrasto alla discriminazione, ma vale la pena di sottolineare un punto di criticità che pare finalmente affrontato anche se non risolto. Per dirla con uno slogan: passare dall’assistenza all’autonomia. Da questo punto di vista anche i recenti programmi del Consiglio d’Europa e della Commissione Europea partono dall’investire sulle comunità e sulla loro capacità di organizzare progetti per sé. La possibilità che questo si realizzi, poi, è tutta legata alle condizioni dei singoli Paesi e rimanda quindi al rapporto tra istituzioni le comunità locali.

 

RDG: Passiamo a un esempio concreto. In attuazione della Comunicazione della Commissione Europea n. 173/2011, in Italia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha elaborato la strategia nazionale 2012-2020 di inclusione dei rom, dei sinti e dei camminanti. Che giudizio date di quella strategia in sé? Qual è il suo stato attuale di realizzazione? Quali i suoi nodi irrisolti?

DP e PCN: La strategia nazionale coglie questo mutamento di prospettiva: la sua stessa elaborazione è stata frutto di confronto con le comunità rom e sinte, sino al punto che nodi cruciali come l’abitare sono stati declinati non più in base ai paradigmi della società maggioritaria, ma in base alle diverse culture ed esigenze delle comunità. Ma il punto fondamentale della strategia è l’impegno per le amministrazioni a far partecipare rom e sinti alle decisioni che li riguardano. E questo ovviamente è il punto critico di una strategia che deve essere realizzata a livello locale e quindi si scontra con la “politica”, tant’è che i tavoli regionali di applicazione previsti sono stati a oggi realizzati solo in quattro regioni e questo definisce la difficoltà della sua applicazione.

 

RDG: Esiste un localismo anti-rom che è una coerente filiazione del globalismo anti-rom. Ma tra localismo e globalismo vi sono pure delle contraddizioni, a volte positive. Come agevolare una trasformazione delle politiche locali a favore dei rom? Come fare in modo che le politiche globali sostengano attivamente la libertà e i diritti dei i rom?

DP e PCN: La dimensione locale è molto importante, basti vedere la diversa condizione di rom e sinti in Sud Italia rispetto al Nord Italia. Su queste differenze non agiscono solo la politica e il generale atteggiamento discriminatorio, ma anche tradizioni e culture che, per esempio nel caso del nostro Meridione, hanno punti di contatto che rendono più facile l’incontro e la tolleranza. Viceversa, per generalizzare, l’egoismo leghista coglie un’evoluzione culturale di una società malata che ha trovato la sua espressione più drammatica nella tragedia familiare di Pietro Maso che uccide i genitori per soldi. Per questo è decisiva la capacità anche da parte delle comunità rom e sinte di trovare punti di relazione a livello locale, sia usando gli strumenti istituzionali disponibili, sia sviluppando una propria capacità di relazione.

 

RDG: Sicuramente, contro i rom si è scatenato da sempre un atteggiamento di razzismo puro. Ma la loro marginalità sociale e la loro povertà, in questi anni di crisi globale, si sono molto accentuate. Prendiamo due dimensioni geopolitiche dello stesso problema: l’Ungheria neoliberale del dopo-URSS e tre importanti metropoli italiane come Roma, Milano e Napoli. Ci sembra che, dal pregiudizio razziale e culturale, si sia passati a pratiche di espulsione e confinamento a raggio sempre più ampio. Il vocabolario dei diritti è stato definitivamente espulso dal vissuto dei rom e dei sinti? Le istituzioni democratiche si sono trasformate in istituzioni attivamente segregative?

DP e PCN: Come sempre, anche per rom e sinti non si può generalizzare ed è giusto osservare la situazione da più punti di vista. La crescita a livello globale delle diseguaglianze, del distacco tra ricchi e poveri, dello sfruttamento politico della crisi con la crescita dei movimenti ultranazionalisti e fascisti in Paesi come l’Ungheria, ha portato a veri e propri pogrom in molti villaggi rom. Eppure, in Ungheria le comunità sono numericamente forti, organizzate e persino riconosciute dalla Stato. Nelle grandi città italiane rimane la concezione dell’emarginazione anche fisica delle comunità rom e sinte e la cosa da segnalare è che tutte e tre le città, Roma, Napoli e Milano, sono governate da giunte di centro sinistra, segno che al di là della convenienza politica – a sinistra meno si parla di rom meglio è – esiste un razzismo sotto traccia che è parte di una cultura che pervade tutta la società. Le scelte, comunque presentate, sono sempre scelte culturalmente segregative sia quelle istituzionali, sia quelle dell’assistenza caritatevole. Questo ha portato le comunità rom e sinte a introiettare il senso di un’ineluttabile esclusione e a una profonda sfiducia nei confronti delle une e delle altre.

 

RDG: Sovente, rom e sinti sono stati definiti “cittadini senza patria”. Non ritenete che questa definizione sia una negazione politica, culturale e sociale della loro esistenza? Un’espressione di etnocentrismo differenziale e razzista? E ancora: avere la lingua per patria non significa, forse, avere il mondo come patria? Nasce da qui il pacifismo assoluto dei rom, unico popolo a non aver mai condotto una guerra?

DP e PCN: «Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà», questo verso di una canzone anarchica è da sempre l’essenza del popolo rom e insieme la sua condanna all’emarginazione nel mondo delle troppe patrie e delle troppe bandiere, ma è, nello stesso tempo, l’affermazione della sua esistenza politica, culturale, sociale. Il popolo delle cento tribù e dei cento dialetti e delle cento religioni è unito da questa profonda, istintiva certezza di essere ovunque a casa sua e questo gli impedisce di riconoscere i confini, di avere pretese territoriali e di fare la guerra per una patria perché la sua patria è più grande di tutte le patrie.

 

RDG: I diritti dei rom e dei sinti all’abitazione, al lavoro, all’istruzione e alla salute sono quelli più violati, in Europa come in Italia. Non credete che queste violazioni siano forme avanzate e radicali di negazione del diritto all’esistenza? La crisi globale nega questi diritti perfino a fasce crescenti di cittadini autoctoni. Ai rom e ai sinti è applicata una strategia ancora più dura: l’elusione completa del riconoscimento giuridico. Sta nascendo contro i rom e i sinti un diritto-contro, esteso a livello globale e capillarizzato nei territori locali? Un diritto-contro che trasforma le cittadinanze imperfette in cittadinanze da cancellare?

DP e PCN: È difficile rispondere a questa domanda con un sì o con un no. Si potrebbe dire che per rom e sinti non c’è niente di nuovo sotto il sole, a differenza delle altre minoranze che pur vittime di emarginazione sociale e culturale non subiscono le stesse forme di esclusione. Basti pensare che i rom italiani, che risiedono in Italia dal 1400, nelle statistiche scolastiche si trovano assimilati agli stranieri e che per loro solo in questi ultimi anni si pensa che possano abitare in case e non unicamente nei cosiddetti “campi nomadi”. Come sempre, la situazione è articolata e vista dall’Europa la contraddizione di fondo è tra le politiche generali proposte per l’inclusione e la realtà locale in peggioramento, di fronte all’asprezza della crisi che induce anche culture politiche come quella francese a espellere i rom dal Paese. L’unica cosa positiva è la capacità del popolo rom di sopravvivere, una capacità costruita nei secoli. Il problema da affrontare oggi è invece quello di vivere, di essere cioè una cittadinanza da riconoscere.



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