Politiche sociali, la vera emergenza
(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)
La disabilità ha vissuto un “anno nero”, nel 2011, quando tra minacciata riforma assistenziale, modifiche all’ISEE, tagli lineari, alcuni diritti sono stato seriamente minacciati, a cominciare da quell’assegno di accompagnamento che è uno dei pochi strumenti utili a evitare o limitare il rischio di isolamento sociale delle persone disabili. E tuttavia la discontinuità politica e governativa non mette l’ambito della disabilità al riparo da forti rischi: l’ISEE ancora porta con sé maggiore selettività nell’accesso a risorse, servizi e benefici fiscali, i tagli ai Fondi sociali sono un elemento di continuità, nell’ambito del diritto allo studio restano aperte molte criticità. Il movimento delle persone, dei familiari e delle associazioni dei disabili ha trovato un interlocutore più attento, ma non può abbassare la guardia. Ne parla Pietro Barbieri, presidente della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (FISH).
Redazione Diritti Globali: L’era Tremonti-Berlusconi è stata dura, per le persone disabili. Prima le verifiche INPS sui “falsi invalidi”, che hanno lasciato molte persone oneste senza un euro in attesa di vincere un ricorso; poi le manovre economiche, che, come avete calcolato, avrebbero penalizzato non meno di dieci milioni di persone. Per non parlare della “finanzia creativa” alla Calderoli, che aveva trovato la soluzione nel tagliare indennità di accompagnamento ai disabili e pensioni di reversibilità alle vedove… Infine, la proposta riforma fiscale e assistenziale, con il dichiarato intento di recuperare dal sociale 40 miliardi di euro, che avrebbe calato la mannaia su servizi, indennità di accompagnamento e detrazioni fiscali. Qual è l’eredità che lascia l’azione del precedente governo? E quale discontinuità, invece, vi pare possibile da parte del governo Monti, soprattutto in tema di riforma assistenziale?
Pietro Barbieri: La discontinuità è stata annunciata da Cecilia Guerra, sottosegretario al Ministero del Lavoro, ma lei stessa ha anche precisato che le decisioni si assumono collegialmente. Tradotto: è necessario che ci sia ampia condivisione sulle politiche per la disabilità. Qualcuno ha acutamente definito l’ottica della Guerra come «gradualismo ambizioso», cioè passi successivi e graduali volti a raggiungere un assieme di risultati. Si tratta di mirare a “politiche” consolidate, non di misure provvisorie o di emergenza costruite su “leggine” altisonanti ma senza una copertura economica adeguata. Tutto questo è condivisibile e rappresenterebbe un cambiamento di passo rispetto a tetre logiche di mera compressione della spesa o, peggio, di raschiamento di un barile che è oramai vuoto.
È un buon segno quello espresso con chiarezza da Cecilia Guerra. Ci auguriamo che incontri l’appoggio di tutto il Governo e si trasformi in atti concreti.
Il secondo segnale è il deciso accantonamento del disegno di legge per la delega fiscale e assistenziale, asse portante delle manovre di Tremonti. Quel testo è stato preso a schiaffi non solo da noi, ma anche dalla stessa Corte dei conti, da esperti, dalle parti sociali. Era insostenibile tecnicamente e politicamente, ma segnava anche un’epoca che ci auguriamo terminata, l’epoca trista così ben riassumibile dal retorico dilemma di Tremonti: «Può un Paese come l’Italia essere davvero competitivo con due milioni e seicentomila invalidi?».
RDG: Un tema che rimane all’ordine del giorno, e che è stato un fronte di scontro aperto con il precedente governo, è quello dei criteri che regolano la compartecipazione delle persone disabili alla spesa sociale e l’accesso a prestazioni, indennità e agevolazioni tariffarie. La posizione del “governo dei tecnici” non sembra del tutto tranquillizzante: soprattutto per quanto riguarda l’ISEE, la manovra “Salva Italia” prevede una riforma selettiva e restrittiva, che potrebbe mettere a rischio per molti proprio il diritto di accesso all’indennità di accompagnamento, una volta che fosse ancorato al reddito. Può tratteggiare a che punto è e come si prospetta la riforma dell’ISEE? E quali sono le vostre proposte?
PB: Quella disposizione, quella che prevede la revisione dei criteri di calcolo e delle modalità di applicazione dell’ISEE, non è di facile analisi. Vi si notano dei rischi inquietanti, ma anche la possibilità di aprire un dibattito profondo sulle politiche e sui servizi sociali in Italia. Alcune considerazioni le possiamo comunque già esprimere, ben sapendo che la situazione è estremamente fluida.
Crediamo che debba prevalere il principio che l’ISEE non vada applicato quando finisce per compromettere o comprimere l’autonomia personale, il progetto di vita, la ricerca dell’indipendenza, o la stessa salute nella sua accezione più ampia.
Non è, questa, una posizione solo etica e nemmeno solo politica, ma anche di opportunità: la “dipendenza”, l’esclusione, la marginalizzazione, l’impoverimento non convengono a nessuno, tantomeno a una comunità che vuole essere equa, sussidiaria, competitiva.
Per questo è impensabile e irragionevole, oltre che dis-equo, che l’ISEE venga applicato – solo a titolo di esempio – per ridurre l’erogazione dell’indennità di accompagnamento, unico strumento che, per ora, garantisce un briciolo di diritto di cittadinanza a persone con disabilità o non autosufficienti.
In un Paese in cui non sono ancora stati definiti i livelli essenziali dell’assistenza sociale, qualsiasi intervento “selettivo” sarebbe devastante poiché i diritti sarebbero ancorati alla disponibilità di bilancio.
RDG: Avete portato di nuovo, e per la prima volta sul tavolo del governo Monti, la questione mai risolta dei LIVEAS. Il governo Berlusconi era sempre stato sordo alla lettera e allo spirito della legge 328/2000, che ha puntualmente disatteso e svuotato, e mentre in sanità i LEA – pur necessitando di innovazione e riforma – hanno avuto una maggior “forza” ed esigibilità, nel sociale i LIVEAS non sono mai stati davvero all’ordine del giorno. I livelli essenziali sono, poi, fortemente connessi ai limiti di spesa, e dunque in questo momento anche per il governo Monti potrebbe essere questione non all’ordine del giorno. Pensate che su questo vi sarà una continuità negativa tra i due governi?
PB: Amaramente annotiamo che anche in “sanità” i LEA sono ancora limitati rispetto alle reali esigenze dei cittadini e, oltretutto, con evidenti disparità di applicazione territoriale. Quanto invece ai livelli essenziali dell’assistenza sociale, li riteniamo un passaggio essenziale, un telaio sul quale costruire politiche di inclusione che oggi non sono ancora garantite. Francamente non sembra che questa sia una priorità per questo Governo, ma almeno non c’è la preventiva esclusione cui abbiamo assistito fino a qualche mese fa, quando l’impronta era quella del welfare caritatevole, non certo quella dei diritti essenziali.
RDG: Veniamo alla nota dolente e ricorrente del Fondo per le non autosufficienze: 100 milioni per il 2007, 300 milioni per il 2008, 400 milioni per il 2009, 400 milioni (sudati, dopo mobilitazioni e contrattazioni) per il 2010. Nulla per il 2011 e per gli anni che verranno incertezza totale. L’imperativo di bilancio che ha portato a tagliare tutti i Fondi sociali in maniera drammatica non fa ben sperare. Come entra nella vostra agenda, questo specifico punto? E cosa pensate delle ipotesi di regionalizzazione?
PB: La situazione è più drammatica di quello che può sembrare. In meno di 4 anni (2008-2012) si è ridotto a un decimo l’ammontare dei Fondi per il sociale: il Fondo per le politiche della famiglia, il Fondo per le politiche sociali, il Fondo per la non autosufficienza, il Fondo per l’infanzia, il Fondo per le politiche giovanili…
Se nel 2008 la somma di questi Fondi era di circa 2 miliardi e mezzo, nel 2013 ammonterà a circa 270 milioni di euro. Quei Fondi andavano, in larga misura, alle Regioni e ai Comuni per offrire sostegno alle famiglie più in difficoltà, alle persone con disabilità, agli anziani non autosufficienti e molti altri cittadini.
Dopo la Manovra Monti, ultima di una serie, i tagli agli enti locali, fra i quali in particolare i Comuni gestiscono i servizi alle famiglie e alle persone, divengono ancora più decisi e incisivi attraverso due meccanismi. Uno semplice: vengono ridotti i trasferimenti finanziari dallo Stato alle Regioni, Comuni Province. Avranno meno soldi a disposizione. Uno più complesso, che si chiama Patto di stabilità e crescita e che fissa forme di compensazione e aggravi per gli enti locali virtuosi o non virtuosi. I Comuni dovranno mantenere le spese entro certi limiti. Anche questo si traduce in tagli. Tradotto in cifre: nel 2012 i Comuni avranno 4,2 miliardi in meno (2,5 miliardi da tagli ai trasferimenti, 1,7 milioni patto stabilità). Nel 2013 i miliardi diventano 4,5 (2,5 miliardi di tagli; 2 miliardi dal patto di stabilità). E le Regioni subiranno un colpo ancora più deciso: nel 2012, meno 15 miliardi e 300 milioni (5,5 miliardi patto di stabilità; 600 milioni farmaceutica; 1,132 miliardi taglio alle spese di personale; 4,5 miliardi taglio ai trasferimenti). E nel 2013, meno 16 miliardi. Tutto questo rappresenta un’emergenza. È una priorità nella nostra agenda.
RDG: Durante il governo Berlusconi, le garanzie per le persone disabili anche in ambito scolastico hanno avuto bisogno del vostro attento monitoraggio: i tagli alla spesa per l’istruzione hanno minacciato un adeguato rapporto alunni-insegnanti di sostegno e più volte avete lamentato la mancanza di dati ufficiali da parte del ministero, che per due anni non ha fornito statistiche aggiornate. Nel 2012, a poche settimane dal suo insediamento, il ministro Francesco Profumo ha varato quell’Osservatorio permanente per l’integrazione degli alunni con disabilità che le associazioni, FISH e FAND soprattutto, avevano più volte rivendicato. Nella scuola i problemi non sono finiti: permane il nodo degli insegnanti di sostegno, la diseguaglianza tra Regioni nella qualità dei percorsi, il nodo delle barriere, quello della scarsa partecipazione alle attività extrascolastiche. Qual è l’agenda che avete presentato al nuovo governo e quali le aspettative?
PB: Il nocciolo delle questioni è riassumibile in un dato: attualmente le politiche sociali rappresentano lo 0,4% del PIL mentre la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito è il 47,3%. C’è bisogno di riallocare risorse, di distribuirle in maniera equa scegliendo le priorità. La spesa militare è un esempio, e non solo per l’acquisto degli F35. Allo stesso modo in sanità: se l’investimento in riabilitazione o ausili fosse meno legato agli interessi dei soggetti privati che erogano le prestazioni, potremmo guadagnarne in capacità dell’individuo di autodeterminarsi, di compiere scelte per sé stesso e di proporsi nel mercato del lavoro non più come malato. E probabilmente un percorso riabilitativo virtuoso, fondato sull’empowerment e non sul recupero funzionale, potrebbe essere anche più economico.
Quest’agenda però deve essere del Paese, non del solo governo. Un radicale cambiamento della spesa deve poter essere vissuto non come provvedimento verticistico, ma come liberazione di nuove energie funzionali alla coesione sociale e allo sviluppo economico.
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