Nuove tutele universali per un lavoro che cambia
Intervista a Michele Raitano, economista, a cura di Duccio Zola (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)
La riforma del mercato del lavoro promossa dal ministro Elsa Fornero non soltanto non ha prodotto gli effetti sperati in termini di stabilizzazione dei contratti e stimolo all’occupazione, ma sembra aver innescato un vero e proprio circolo vizioso. Da un lato, infatti, si continua ad assumere con contratti a termine: secondo i recenti dati forniti dal Sistema delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, nel quarto trimestre del 2012, su 2 milioni e 269 mila assunzioni, il 66,7% è stato formalizzato con contratti a tempo determinato, il 17,5% con contratti a tempo indeterminato, il 7,3% con contratti di collaborazione, mentre i rapporti di apprendistato sono pari soltanto al 2,6% del totale. Dall’altro lato, in base ai dati ISTAT, aumenta in modo esponenziale la disoccupazione (con un tasso pari all’11,6% nel quarto trimestre 2012, quasi tre milioni i senza lavoro), in particolare per i giovani (tasso di disoccupazione giovanile al 39% nello stesso trimestre, oltre 670 mila tra i 15-24enni). Le contraddizioni evidenziate dagli effetti di questa riforma e una più generale analisi del suo impianto sono al centro del colloquio con Michele Raitano, economista dell’Università Sapienza di Roma che studia le dinamiche del mercato del lavoro e i loro effetti sulla trasmissione delle disuguaglianze dei redditi e sul sistema previdenziale.
Redazione Diritti Globali: L’insorgere della crisi economica, a partire dal 2008, ha messo a nudo i limiti e le debolezze che caratterizzano il mercato del lavoro e le dinamiche occupazionali in Italia, e in particolare ha evidenziato il netto peggioramento della condizione dei giovani, mai così esposti a disoccupazione e precarietà. Quale dovrebbero essere i principali nodi da affrontare per una riforma del mercato del lavoro che possa tutelarli?
Michele Raitano: Il punto essenziale su cui ragionare parte da un’evidenza empirica: l’area di vulnerabilità delle giovani generazioni nel mercato del lavoro è molto ampia e non riguarda soltanto chi lavora con un contratto a progetto o con contratti a termine. Se osserviamo i giovani nel corso di un lungo periodo di tempo, troviamo moltissimi episodi di frammentarietà, di intermittenza e di vulnerabilità dei lavoratori, anche in seguito all’ottenimento di contratti a tempo indeterminato. In altri termini, non possiamo preoccuparci soltanto di politiche che ci dicano se e quando i lavoratori ottengono un contratto a tempo indeterminato, perché in Italia sia nelle piccole sia nelle grandi imprese tale forma contrattuale non è di per sé un sinonimo di garanzia, non è un punto d’arrivo immodificabile. In più, in Italia c’è un problema strutturale ed endemico: una quota enorme di lavoratori autonomi, veri o falsi che siano, non sono tutelati. Dunque bisognerebbe chiedere a una riforma degli ammortizzatori sociali di affrontare questi nodi promuovendo un sistema di tutele effettivamente universali. Che riesca, quindi, a dare adeguate garanzie a tutti i lavoratori, soprattutto a quelli che incorrono in rischi di interruzione dell’attività, in primo luogo collaboratori e dipendenti a termine.
RDG: Qual è l’impatto della riforma Fornero su questi aspetti?
MR: L’attuale riforma, di fatto, non ha realizzato una significativa estensione della platea di beneficiari degli ammortizzatori sociali. L’unica misura adottata, a parte l’aumento delle tutele degli apprendisti e di alcune figure di lavoratori dipendenti, è stata quella di inserire la cosiddetta “mini Aspi” (Assicurazione sociale per l’impiego), che ha eliminato alcune mostruosità del precedente schema delle indennità di disoccupazione a requisiti ridotti. Ma, purtroppo, il sistema degli ammortizzatori sociali continua a offrire garanzie soltanto ai lavoratori dipendenti e, con le tutele maggiori, soltanto ai dipendenti che stanno nel mercato del lavoro da almeno due anni. Nulla è stato fatto, invece, per i lavoratori parasubordinati e le partite IVA – e per queste, d’altronde, bisognerebbe trovare soluzione al problema derivante dalla traslazione in minor reddito da lavoro, da parte di datori e committenti, delle eventuali maggiori garanzie di welfare. Al contrario, sono state ridotte le tutele per i lavoratori anziani: si è cancellata la mobilità e non si sono introdotte politiche attive del lavoro improntate all’active ageing; quando, invece, l’altra parte delle riforme estendeva enormemente l’età pensionabile, lasciando in una condizione di debolezza moltissimi futuri anziani che avranno difficoltà a incontrare una domanda di lavoro a loro rivolta.
RDG: Quali dovrebbero essere allora le priorità da affrontare?
MR: Un piano di proposte da attivare nell’immediato dovrebbe comprendere un fortissimo controllo amministrativo, al fine di evitare tutte le forme di sfruttamento delle forme contrattuali atipiche, para-subordinate, partite IVA, eccetera. Sarebbe fondamentale vietarle là dove il lavoratore deve seguire un orario di lavoro prestabilito. Riguardo a queste forme contrattuali, non basta agire con incentivi come invece pensa di fare la riforma. Ad esempio, nella ricerca possono sicuramente rimanere forme di contratto a progetto, mentre non possono essere accettabili contratti a progetto per infermieri o insegnanti negli asili nido, mansioni per cui la stragrande maggioranza degli addetti ormai lavora con forme contrattuali atipiche. Lo stesso discorso vale per le partite IVA monocommittenti, che presentano evidenti caratteri di subordinazione. Inoltre, sarebbe fondamentale ridurre il rischio che, all’interno del sistema pensionistico contributivo oggi vigente, il lavoro precario si trasformi in futuro in redditi da pensione insufficienti. In assenza di questi interventi di tutela, quei giovani che ricevono per quindici, venti anni bassi salari, subiscono periodi di intermittenza lavorativa e sono soggetti ad aliquote ridotte, saranno anche, proporzionalmente, poveri da anziani. Bisogna dare ai giovani delle tutele da un punto di vista previdenziale, ad esempio mediante forme di pensione di garanzia.
RDG: L’istituzione di un reddito minimo garantito potrebbe rappresentare una soluzione possibile e praticabile per contrastare efficacemente i dilaganti fenomeni di povertà e precarietà?
MR: Quando si parla di reddito minimo bisogna per prima cosa chiarire che cosa si intende con questa formula. Si potrebbe pensare, ad esempio, a una misura erogata con uguale importo a tutti i cittadini in quanto tali, oppure a una misura pensata per gli anziani, per tutti i nuclei familiari che sono in condizione di bisogno, oppure a misure di accesso per i giovani. Fondamentalmente, non sarei d’accordo su un reddito minimo che sostituisse le altre forme di welfare, ma reputerei legittimo introdurre un reddito minimo che sia complementare ad ammortizzatori sociali, pensioni, politiche per la casa (misure, queste ultime, totalmente mancanti in Italia). Secondo me, quindi, il reddito minimo dovrebbe prevedere due diverse tipologie di strumenti ed essere pensato per perseguire due obiettivi. Da un lato, un sostegno contro la povertà sulla base del livello di reddito familiare, al fine di garantire una misura di ultima istanza che aiuti effettivamente tutti i nuclei in stato di povertà (una simile misura esiste in tutti i Paesi dell’Unione Europea tranne Italia, Grecia e Ungheria). Dall’altro lato, una misura di accesso per i giovani che aiuti ad allentare l’immobilità sociale e la trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze, che è fortissima in Italia. Nel nostro Paese, anche a parità di titolo di studio, le prospettive dei figli dipendono da quelle dei genitori. A mio avviso, lo snodo cruciale per le opportunità individuali è proprio l’entrata nel mondo del lavoro, quindi bisognerebbe pensare a forme di reddito che aiutino i giovani ad aspettare le migliori opportunità, senza essere costretti ad accettare il primo lavoro disponibile, visto che una “sbagliata” storia lavorativa potrebbe comportare cicatrici che andrebbero a inficiare la crescita futura nel mondo del lavoro. Una misura simile è, naturalmente, difficile da identificare perché non può essere ancorata al reddito. Piuttosto, andrebbe calibrata su politiche attive e su altri tipi di percorsi formativi per i giovani.
In altri termini, un modello ideale di welfare dovrebbe basarsi su un sistema di ammortizzatori sociali universali, su pensioni eque e adeguate e sulle due forme di reddito minimo appena richiamate.
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