Nessun trionfalismo per la chiusura degli OPG, non è vera riforma

Nessun trionfalismo per la chiusura degli OPG, non è vera riforma

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)

Per Maria Grazia Giannichedda, docente dell’Università di Sassari ed esperta di respiro nazionale e internazionale sui temi dei diritti umani e della salute mentale, bisogna anzitutto liberarsi del trionfalismo che ha accompagnato l’approvazione del decreto governativo che prevede la chiusa degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). «È vero che il decreto dispone la chiusura, entro marzo del prossimo anno, dei sei OPG attualmente in funzione; ma non è affatto vero che con questo provvedimento l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario viene abolito o soppresso o superato che dir si voglia», dice. Per superare realmente l’OPG, infatti, è necessario intervenire sul codice penale, su quelle norme che prevedono questa misura di sicurezza e ne disciplinano l’esecuzione. E di questo nel decreto non c’è traccia.

 

Redazione Diritti Globali: Il decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, recante “Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”, all’Art. 3-ter dispone il «definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari», e avvia un percorso il cui esito sarà l’apertura di nuove strutture, più piccole e decentrate, per l’esecuzione delle misure di sicurezza. La dimensione custodialistica dovrebbe fare un passo indietro, e quella terapeutica un deciso salto in avanti. Condivide questa valutazione?

Maria Grazia Giannichedda: Credo che nessuna discussione seria sia possibile su questo decreto se non ci liberiamo del trionfalismo con cui diversi quotidiani e notiziari lo hanno annunciato, facendo confusione su un punto cruciale: è vero che il decreto dispone la chiusura, entro marzo del prossimo anno, dei sei OPG attualmente in funzione; ma non è affatto vero che con questo provvedimento l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario viene abolito o soppresso o superato che dir si voglia.

La differenza è tutt’altro che sottile. L’OPG non è solo un luogo, è un dispositivo solidamente ancorato al codice penale, che ne definisce l’oggetto (l’infermo di mente autore di reato o il condannato che diventa infermo di mente), la forma (misura di sicurezza) e le funzioni (cura e custodia). E poiché il codice penale non si modifica per decreto tutto questo resta immutato. La differenza è che tra un anno potremmo non avere più poche grandi strutture dipendenti dal sistema penitenziario e con personale prevalentemente di custodia, ma numerose strutture più piccole, dislocate nelle regioni, dipendenti dal servizio sanitario nazionale e con personale sanitario. Queste nuove strutture avranno però, sia chiaro, il medesimo compito dei vecchi OPG, ovvero assicurare cura e custodia in esecuzione della misura di sicurezza disposta dal magistrato. Questo è il punto, la ragione per cui non è corretto affermare, cosa che anche il decreto fa, che si dispone il «definitivo superamento degli OPG»: si dispone la definitiva chiusura degli istituti esistenti, ma non si abolisce affatto né si modifica il dispositivo, cioè la misura di sicurezza psichiatrica.

Certo, questo decreto affida al servizio sanitario le nuove strutture e dispone che vi sia all’esterno, se serve, una «attività perimetrale di sicurezza e vigilanza». Sembrerebbe qui che si assegni ai medici la cura e alle guardie la custodia, ma a ben guardare non può essere così: finché rimane immutato il dispositivo, cioè la misura di sicurezza psichiatrica che consiste nella cura e custodia, sarà questa indivisibile responsabilità a gravare sulla struttura che è incaricata di eseguirla e sul suo personale. In altre parole: lo psichiatra responsabile della nuova struttura in cui sarà eseguita la misura di sicurezza sarà responsabile sia della cura sia della custodia degli internati. Per ulteriore chiarezza: la misura di sicurezza psichiatrica è ben diversa dagli arresti o dalla libertà vigilata di una persona ricoverata in un reparto ospedaliero o in altra struttura sanitaria. In questo caso sì che spetta ai sanitari la cura e alla polizia la custodia in quanto entrambi agiscono nello stesso luogo e sulla stessa persona ma ciascuno con un proprio autonomo mandato. Nella misura di sicurezza invece vi è un mandato tanto ibrido quanto unitario, sulla base del quale è realistico attendersi che le nuove strutture sanitarie saranno dotate di porte chiuse, finestre di sicurezza, telecamere a circuito chiuso, letti di contenzione, ecc. Insomma, di tutti quei mezzi della cura custodia che ha psichiatria ha ereditato dall’era manicomiale. Questi mezzi, del resto, la psichiatria non ha mai smesso di usarli, neppure in Italia: lo dicono sia le ricerche sia i casi di persone ricoverate nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura e morte nei letti di contenzione – Casu a Cagliari nel 2006 e Mastrogiovanni a Salerno nel 2010, per citare i casi più noti arrivati in tribunale. E se questo avviene in strutture dove la legittimità della custodia è assai dubbia grazie alla “legge 180”, come potrà non succedere in strutture che devono amministrare una misura di sicurezza?

Inoltre, non c’è ragione per pensare che verranno a cessare, col passaggio al servizio sanitario, le proroghe infinite della misura di sicurezza che possono diventare “ergastoli bianchi” e gli anni di internamento per reati che magari neppure avrebbero meritato la detenzione. Questi fenomeni sono, infatti, legati non all’organizzazione degli OPG e al loro degrado ma alla normativa sulla misura di sicurezza psichiatrica che questo decreto non scalfisce.

In conclusione: non mi pare fondato attendersi che con questo decreto la dimensione custodialistica possa fare un passo indietro e quella terapeutica un deciso salto in avanti. Potranno cambiare (risorse permettendo, e questo aspetto non è affatto chiaro) le condizioni strutturali vergognose in cui si svolge attualmente la custodia del tutto a scapito della cura, potranno migliorare i bagni, i muri, gli arredi, potranno esserci più medici e infermieri i quali lavoreranno, sia chiaro, gravati dalla responsabilità della custodia, esattamente come accadeva nei reparti degli ospedali psichiatrici civili in cui erano ricoverati gli internati «pericolosi a sé e agli altri», per usare la formula del ricovero coatto secondo la legge del 1904 che è stata abolita nel 1978 dalla “180”.

In queste condizioni, come potrà farsi strada la cura, come potrà prevalere in un regime che impone anche la custodia? Dalla storia e dal presente degli ospedali psichiatrici civili non emergono indizi confortanti.

 

RDG: L’esperienza delle riforme in questo Paese, in particolar modo in ambito penitenziario, ci insegna che tra ciò che prevedono le norme e le effettive prassi il divario può divenire enorme. Dove pensa che porterà in effetti questo percorso di riforma?

MGG: Non credo sia corretto applicare il concetto di riforma al provvedimento che chiude i sei OPG e che a torto è stato avvicinato, da una parte dell’informazione, alla “legge 180” del 1978 sugli ospedali psichiatrici civili: quella fu in senso proprio una riforma, in quanto non si limitò alla chiusura degli ospedali ma ridefinì alla radice lo statuto del malato di mente e i limiti del trattamento psichiatrico.

La riforma dei codici penale e di procedura penale, che sola potrebbe davvero superare l’OPG, bisognerà invece aspettarla ancora, sperando che il nuovo provvedimento, e soprattutto il trionfalismo che lo ha accompagnato, non offrano l’ennesima scusa per rinviarla. Questo è, infatti, uno dei due pericoli su cui occorre vigilare, mentre l’altro è che questo decreto possa essere usato, dalle politiche psichiatriche e penitenziarie, per “imbiancare” la misura di sicurezza psichiatrica, per darle nuova legittimazione e per promuovere e allargare il suo uso, magari ai tanti detenuti destabilizzati dal sovraffollamento delle carceri oppure ai migranti senza riparo che spesso finiscono in servizi psichiatrici che non sanno o non possono, o non vogliono, prendersi cura di loro: sono soprattutto gli ingressi di detenuti e migranti che hanno fatto crescere negli ultimi due anni le presenze in OPG. Negli ultimi trent’anni, invece, l’uso di questa misura era stato contenuto, per cattive e buone ragioni, e nei sei OPG non vi erano mai stati più di un migliaio di internati, contro i circa 1.500 attuali. Le cattive ragioni erano legate all’annoso degrado delle strutture, che fungeva da deterrente all’applicazione di questa misura; le buone ragioni erano, da un lato, il progressivo miglioramento nell’offerta di servizi di salute mentale e, dall’altro, l’egregio lavoro della Corte costituzionale, che con una ventina di sentenze ha aperto importantissime brecce nel muro della misura di sicurezza, intervenendo sia sui percorsi di ingresso in OPG che su quelli di uscita.

 

RDG: Il provvedimento del governo avvia una trasformazione della quale si denunciava l’urgenza da moltissimi anni, senza però alcun esito. Cosa ha reso possibile questo improvviso cambio di passo? O, se preferisce, come è stato possibile che tutto restasse immutato per anni, nonostante non siano mancate in passato denuncie, anche molto autorevoli, sulle le drammatiche condizioni negli OPG?

MGG: Non credo affatto che tutto sia stato immutato per anni. Questo è vero se si guarda solo a una parte del problema, la sola che in quest’ultimo anno è stata rilanciata dai media, cioè le condizioni dei sei OPG. Ma questa è appunto solo una parte del problema, l’altra è costituita dai “canali di alimentazione” degli OPG, e dall’ostruzione, mi si passi la metafora idraulica, delle vie di uscita, del deflusso dagli OPG. Se non si interviene lì, la moltiplicazione delle strutture porterà inevitabilmente a un aumento dell’uso della misura di sicurezza, e all’avviarsi della spirale dell’affollamento e del degrado. Infatti, se si guarda ai dati sugli internati, emerge chiaramente che la gran maggioranza sono autori di reati cosiddetti “bagatellari”, reati di poco conto commessi da persone sofferenti e spesso socialmente assai deboli, la cui pericolosità sociale è aggravata, quando non determinata, dall’abbandono e dalla miseria. Per queste persone la misura di sicurezza psichiatrica, che ha una ratio di pietà, si risolve in realtà in un’afflizione peggiore di un breve passaggio in carcere con un supporto adeguato da parte dei servizi di salute mentale, se e quando questo passaggio in carcere sia veramente necessario. Bisogna sapere, infatti, che negli ultimi trent’anni vi è stata una vera e propria “ riforma strisciante” realizzata dalla Corte costituzionale che, con svariate sentenze, ha aperto come dicevo una serie di brecce nella misura di sicurezza psichiatrica. Qualche esempio, giusto per rendere l’idea. Due sentenze, la n. 253 del 2003 e la n. 367 del 2004, consentono al giudice di adottare, in luogo del ricovero in OPG, una misura di sicurezza diversa, come gli arresti domiciliari in una struttura sanitaria normale, cioè non dedicata alle persone in misura di sicurezza, mentre una vecchia sentenza, la n. 110 del 1975, aveva già stabilito la possibilità di revocare la misura di sicurezza prima del tempo minimo stabilito dalla legge. Se questa e molte altre possibilità offerte dalle sentenze della Corte fossero utilizzate dai Dipartimenti di salute mentale, dai magistrati inquirenti e da quelli di sorveglianza, dagli istituti penitenziari – e questo accade, ma troppo poco – le presenze in OPG si ridurrebbero a un terzo. Qualche anno fa, durante uno dei ciclici momenti di attenzione politica verso gli OPG, proprio su questo si era concentrata la discussione, sulla possibilità di svuotare gli OPG controllandone i canali di alimentazione, su questo che è un problema squisitamente di “policy”, di governo cioè, di guida delle istituzioni pubbliche, per indicare loro dove andare, e come. Alcuni gesti di governo poi c’erano stati, il più importante è stato il decreto che organizzava il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle funzioni e risorse della sanità penitenziaria (DPCM 1° aprile 2008), con il quale è cresciuta ancora la potenza di mezzi della macchina che potrebbe prosciugare gli OPG e aiutarci a capire se serve una misura di sicurezza psichiatrica, e a chi serve, e a quanti, e perché. Ma nessuno si è messo alla guida di questa macchina, che, come al solito, è entrata in funzione solo in alcune realtà locali, che hanno dimostrato che funziona, cioè che è possibile non inviare persone in OPG e far rientrare dentro una vita accettabile chi vi è finito.

Nel frattempo, sono arrivate le ispezioni del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, la campagna per l’abolizione dell’OPG promossa dal cartello nazionale STOP OPG, la denuncia autorevole della Commissione di inchiesta sul servizio sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino. Tutto questo poteva essere diretto verso l’applicazione della “riforma strisciante” realizzata dalla Corte costituzionale e verso la moltiplicazione delle esperienze che hanno mostrato di funzionare. In concreto: si potevano chiudere gli OPG che hanno le peggiori condizioni strutturali lasciandone aperti solo due e istituendo contemporaneamente un organismo di governance (un esperto o commissario per ciascun OPG) con incarico di aiutare le asl a riprendere i “propri” internati e a controllare gli invii attraverso una pluralità di mezzi già operanti in alcune realtà – dai protocolli tra Dipartimenti di salute mentale e penitenziari ai progetti terapeutici individualizzati (proposte di questo genere e vere e proprie liste di provvedimenti da prendere sono state più volte proposte da Stop OPG). E invece è arrivato l’emendamento che chiude i sei OPG consegnando alle regioni 120 milioni di euro per il 2012 e i 60 per il 2013 (ma saranno poi veri?) per la realizzazione e la riconversione delle strutture, e 36 milioni per gli oneri di gestione del primo anno. Come si potrà evitare la moltiplicazione degli OPG?

 

RDG: Il decreto cambia il luogo dove internare e curare le persone sottoposte alle varie misure che portano in OPG, e auspicabilmente cambierà anche il modo in cui ciò avviene. Ma il quadro normativo che porta all’internamento, dovuto sostanzialmente alle misure di sicurezza detentive previste per chi è stato prosciolto, del tutto o in parte, da un reato, come diceva, resta per ora invariato. Cosa pensa della relazione che il nostro codice penale disegna tra imputabilità e pericolosità sociale?

MGG: La discussione su questa parte del codice penale è iniziata nei primi anni Settanta, è riemersa ciclicamente dopo la riforma del 1978 ed è stata contrassegnata da molti disegni di legge, alcuni dei quali mettevano radicalmente in discussione la misura di sicurezza psichiatrica e l’impianto stesso della non imputabilità per vizio di mente. Si potrebbe dire quindi che non si partirebbe da zero se si riaprisse oggi il dibattito sulla riforma del codice penale. Il clima attuale tuttavia è assai diverso da quello degli anni in cui quei disegni di legge furono formulati. Cito ad esempio la sentenza del 2005 con cui la Corte di cassazione ha accettato il riconoscimento di totale infermità di mente di una persona diagnosticata come affetta da “disturbo della personalità borderline” (sentenza n. 9163 del 2005).

Questa sentenza accoglie gli orientamenti di una cultura psichiatrica che, negli ultimi decenni e non solo in Italia, tende a psichiatrizzare aree sempre più vaste della vita degli individui, contrastata, ma non arginata, da voci critiche che provengono pure dal campo psichiatrico e che mostrano preoccupazione per l’influenza, su questa cultura, del denaro e del potere delle case farmaceutiche. Ma la sentenza della Cassazione segnala anche un altro dato su cui riflettere: sembra diminuire, scemare la percezione della pericolosità – per la democrazia e per la coesione sociale – di un uso non eccezionale della nozione di non imputabilità e della misura di sicurezza psichiatrica. Su questi due fenomeni – la dilagante psichiatrizzazione della vita e la ricezione acritica di questa tendenza da parte della magistratura – occorre fermare uno sguardo critico. Senza questo passaggio, ragionare di riforma del codice penale rischia di risolversi in esercizio astratto e socialmente pericoloso.


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