Il mondo interconnesso esige risposte globali, anche da parte del sindacato
(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)
Il sindacato ha assunto in questi ultimi anni un ruolo sempre più da protagonista anche per la ridefinizione delle questioni mondiali. Non si tratta di sopperire alle lacune della politica quanto piuttosto di giocare un ruolo di primo piano, tra le altre cose, nella costituzione del nuovo sindacato mondiale che dovrà aprire la strada a un’agenda globale di iniziative dei diversi sindacati. Un sindacato protagonista che sta nel cuore delle proteste, da quelle della Primavera araba a quelle della Grecia contro la crisi economica, ma anche nelle capacità di proposta e progetto.
Redazione Diritti Globali: La CGIL ha rinominato la propria area di intervento internazionale chiamandola “Politiche globali”. Ciò sta a indicare che le questioni sono sempre più intrecciate a livello mondiale e quindi richiedono soluzioni e visioni globali? E, così pure, evidenzia un salto di qualità nella lettura dei processi e di capacità aggregativa a livello mondiale da parte dei sindacati?
Danilo Barbi: Abbiamo scelto di dare un nuovo nome alla storica attività dei rapporti “Internazionali” proprio per sottolineare il salto di qualità delle questioni mondiali. Il paradigma dei rapporti fra le nazioni (inter-nazionali) è definitivamente superato. L’economia è sempre più interconnessa ed è in crisi l’egemonia americana aprendosi il mondo a una prospettiva multipolare. In questo scenario, un altro punto di riferimento è la costituzione del nuovo sindacato mondiale (CSI). Quest’insieme di valutazioni sono alla base della nostra scelta che vuole essere una scelta di reimpostazione delle analisi e del lavoro sindacale. Si tratta di aprire la strada a un’agenda globale di iniziative dei diversi sindacati come la campagna per la Transation Tax o quella per il lavoro dignitoso.
Rdg: Negli ultimi anni il ruolo dei Social Forum si è indiscutibilmente indebolito ed è comunque cambiato. La CGIL continua a partecipare ai vari momenti di incontro a livello internazionale di quel movimento. Che bilancio date del lavoro fatto nel 2011 e che ruolo prevede per i Social Forum nel prossimo futuro? Come sono riusciti, se sono riusciti, a integrare la questione della crisi nei loro lavori? Come considerate l’idea del Social Forum Mondiale 2013 a più tappe?
DB: Le difficoltà dei Social Forum sono in qualche modo dovute al loro successo. Il ruolo storico di denuncia relativamente al modello di sviluppo è stato in qualche modo assorbito dall’incedere della grande crisi. La crisi oggi propone la necessità di una svolta politica e culturale: si tratta di definire nuove politiche a proposito del dibattito circa la “crisi del capitalismo” o “il capitalismo in crisi”. Queste sono le difficoltà nuove dell’esperienza feconda dei Social Forum: occorre passare dalla denuncia e dalla critica alle proposte di cambiamento. Qui emerge la complessità dell’attuale fase dei Social Forum che oggi registrano anche una maggior complessità, proprio nella crisi, delle diverse situazioni nel mondo. Dalle rivolte nel Maghreb e la loro difficile prospettiva, a nuove forme di sviluppo nell’America Latina, al permanere della crisi nei Paesi storicamente industrializzati alla complessità del nuovo protagonista cinese. In questo senso, l’idea del Forum 2013 a tappe può essere un’intuizione utile a mandare avanti questa esperienza.
Rdg: L’America Latina è forse il continente più dinamico in questi ultimi anni. Non solo perché l’economia cresce, nonostante la crisi, ma anche perché a livello sociale ci sono movimenti molto attenti alla definizione di un modello di sviluppo che sia davvero alternativo al capitalismo e non semplicemente qualcosa di “diverso”. In questo senso, per esempio, i movimenti latino americani sembrano essersi posizionati, al Social Forum Mondiale tematico “Verso Rio+20” sul rifiuto totale dell’“Economia Verde” come strategia per ridisegnare una politica di sviluppo sostenibile a livello globale, leggendola principalmente come una variante delle politiche neoliberiste, imposte dai settori dominanti delle economie occidentali. La riflessione e il confronto si spostano sul terreno culturale-ideologico, di ridefinizione dell’idea di benessere, di beni comuni che siano ridotti a merce, del buen vivir. Cosa pensa la CGIL a riguardo?
DB: Questa è una discussione veramente interessante e strategica. Ha a che fare con l’idea storica di natura. Sommariamente, si potrebbe sostenere che l’Europa viene da un’idea che definisce la natura come “matrigna” coniata dall’Illuminismo. Nella cultura del “buen vivir” la natura è invece madre benigna. Guardando anche ai grandi antropologi, va sempre ricordato che la natura non è la stessa in tutto il mondo e che concretamente può essere, ed essere stata, entrambe le cose. Io ritengo che la cultura europea con la sua rivoluzione scientifica e industriale, la storia del movimento operaio sia il più grande tentativo umano di liberazione reale. Ciò nondimeno, le antiche culture degli indios sudamericani hanno molto da dire e possono insegnare molto. Si tratta quindi di lavorare per una sintesi non impossibile di culture storiche molto diverse.
Anche la discussione sulla green economy sta qui. In alcune sue declinazioni può essere effettivamente la costruzione di un nuovo mercato ma in altre accezioni può essere invece la prospettiva di unire tecnologia e natura e di spostare la crescita della domanda dai consumi individuali ai consumi collettivi. Ovviamente, solo una nuova politica pubblica può costruire tale possibilità. Ma la possibilità di questa sintesi è l’unica strategia globale guardando la realtà di sette miliardi di persone umane che già vivono nel nostro pianeta.
Rdg: È evidente a tutti il ruolo dei sindacati nella Primavera araba. La CGIL come ha sostenuto e sostiene questi sindacati, attraverso quali canali passa lo scambio? Quali sono le possibili azioni comuni?
DB: La CGIL ha seguito con grande vicinanza le vicende della Primavera araba, sia rafforzando storici rapporti (come quello con il sindacato tunisino) che inaugurandone dei nuovi (come con l’appena nato sindacato egiziano). Tutto questo l’abbiamo fatto seguendo le indicazioni della CSI dell’area. Siamo quindi concentrati su programmi di formazione e di sostegno dei sindacati di quei Paesi che hanno oggi l’obiettivo primario di fare entrare i diritti sociali e della contrattazione all’interno delle nuove costituzioni.
Rdg: Anche in Grecia i sindacati sono stati protagonisti nella reazione al precipitare della crisi. Che rapporti avete e come leggete le posizioni dei sindacati greci? Quali le difficoltà, ma anche quali i limiti e gli errori?
DB: L’esperienza dei sindacati greci dimostra tutta la complessità dell’attuale crisi europea. I sindacati greci, infatti, hanno condotto una mobilitazione straordinaria e persino commovente di fronte alle misure imposte dalla politica europea al loro Paese. La loro mobilitazione si è dimostrata necessaria ma purtroppo non sufficiente. Quando un Paese ha una moneta decisa nel concerto europeo, vive una crisi finanziaria di quelle dimensioni (responsabilità delle classi dirigenti di quel Paese) e subisce delle politiche sbagliate, imposte dalle scelte europee, appare evidente che la lotta sociale non è sufficiente, anche se necessaria, ad affrontare un livello così imponente di questioni. Questo è un problema che attraversa tutti i sindacati d’Europa. L’azione sociale diretta rischia, di per sé, di non riuscire mai a praticare l’obiettivo. Tutti i lavoratori e le lavoratrici d’Europa hanno bisogno di una svolta politica e questa svolta politica può essere solo di stampo europeo. Questo chiama in causa le responsabilità della CES che sicuramente non è ancora adeguata al salto di qualità della crisi europea. Le mobilitazioni sindacali in Europa hanno però la funzione indispensabile di sollecitare una risposta politica da parte dei partiti progressisti e della sinistra europea. L’attuale politica europea difatti non ha salvato la Grecia né tantomeno il popolo greco. Se non interverrà una svolta politica radicale la costruzione europea attuale comunque non reggerà.
Rdg: La presidenza messicana del G20 ha anche il compito di coordinare i lavori della Task Force sull’occupazione, a partire da quella giovanile, instaurata dallo scorso vertice di Cannes. Un primo incontro tra gli “sherpa” dei ministri del Lavoro si è tenuto a metà dicembre 2011. Il sindacato internazionale ha presentato un suo documento per indicare le sue priorità in tema di occupazione. Quali sono ?
DB: Il sindacato mondiale pensa che per affrontare le questioni dell’occupazione occorra un cambiamento della politica economica. In sintesi, le proposte del sindacato mondiale si muovono su due questioni. La prima è la definanziarizzazione dell’economia. Transation Tax, abolizione dei paradisi fiscali, separazione nelle istituzioni bancarie tra raccolta dei risparmi e attività speculative, controllo e limitazione dei derivati e dei bilanci ombra. La seconda direzione è quella di politiche dirette per il sostegno dell’economia, sostenendo investimenti pubblici verso i consumi collettivi e l’innovazione tecnologica, finanziati attraverso l’aumento del prelievo fiscale sui redditi alti e sui patrimoni, in un’idea di politica economica alternativa alla cosiddetta “austerità espansiva” che oggi prevale in Europa e che la sta portando alla recessione.
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