by Dina Galano, Rapporto sui Diritti Globali 2013 | 10 Agosto 2016 15:52
Intervista a Mauro Palma, già Vicepresidente del Consiglio per la cooperazione nell’esecuzione penale del Consiglio d’Europa a cura di Dina Galano (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)
«Per l’Italia l’anno della manifesta impotenza». Così definisce il 2012 Mauro Palma, per due mandati Presidente del Comitato europeo contro la tortura e i trattamenti e le pena inumane e degradanti, che è stato Vicepresidente del Consiglio per la cooperazione nell’esecuzione penale del Consiglio d’Europa [attualmente è il Garante nazionale per la difesa dei diritti delle persone private della libertà, ndr]. «A fronte di una larga diffusione di dati che descrivevano il carcere come sistema che andava progressivamente al di fuori della legalità costituzionale, il sistema politico non è riuscito a intervenire in un modo significativo. A fronte di altissime dichiarazioni – quali quelle del Capo dello Stato che ha definito il sistema come indegno di un Paese civile – poco, molto poco è di fatto cambiato». Nella sostanza, quelle criticità sono viste ancora dominanti, ad avviso di chi, dalla prospettiva sovranazionale, non può che condannare l’inerzia italiana, denunciando «il senso di inutilità, abbandono, impotenza che questo atteggiamento determina negli istituti e che, forse, è anche concausa dell’alto numero di gesti disperati». Tuttavia, in questo 2012, si sono avuti altrove alcuni segnali positivi. «È scesa in campo la società organizzata, l’associazionismo, le stesse organizzazioni di operatori di giustizia, per divenire attori in proprio: raccogliere firme per leggi d’iniziativa popolare che introducano quelle modifiche il mondo della rappresentanza politica non ha saputo introdurre. Un buon segno di speranza».
REDAZIONE DIRITTI GLOBALI: È stato inaugurato di recente l’Osservatorio europeo sulle prigioni, che coinvolge otto Paesi. Come valuta questa iniziativa? Quali sono, a suo avviso, i suoi punti di forza? Cosa possiamo aspettarci dall’azione di monitoraggio di questo organismo?
MAURO PALMA: Certamente non mancano dati quantitativi sulla situazione carceraria in Europa. Da anni sono disponibili i dati SPACE elaborati sotto il patrocinio del Consiglio d’Europa che, pur nei limiti con cui le amministrazioni penitenziarie dei vari Paesi rispondono ai questionari loro rivolti, danno una fotografia attendibile dell’attuale situazione, dei punti di crisi, delle carenze sistemiche e delle crisi congiunturali. I dati sono inoltre sempre più organizzati in sottocategorie sia per quanto attiene la caratteristica individuale e sociale dei soggetti detenuti, sia per quanto riguarda le tipologie di reati attualmente puniti con la misura carceraria, sia infine per quanto riguarda la fisionomia degli interventi cosiddetti “trattamentali” e le situazioni critiche.
Cosa si aggiunge, quindi, relativamente agli otto Paesi considerati? Sostanzialmente il contributo segue due direttrici: la prima è la verifica dei dati forniti dalle amministrazioni, fatta da parte della società organizzata (nelle forme del volontariato che opera all’interno degli istituti, dell’apporto di studio del mondo accademico e nell’associazionismo che centra la propria azione sul tema delle norme e dell’esercizio di giustizia). Non è tema secondario: solo dal confronto tra la fotografia che viene fornita da chi è responsabile dell’organizzazione e della conduzione di questo settore e la fotografia di chi l’analizza dall’esterno può ricavarsi una descrizione quantitativa attendibile.
La seconda direttrice è quella più importante: il dato numerico non dà conto delle grandi differenze che esistono, tra un Paese e l’altro, dietro le definizioni a cui quei numeri si riferiscono. Per esempio, il dato numerico del ricorso a metodi contenitivi per il controllo di situazioni di emergenza nulla dice circa la tipologia dei metodi utilizzati che sono diversi da Paesi a Paesi; così come la frequenza di controlli all’interno di una realtà detentiva non danno conto della modalità con cui essi sono attuati, o il numero di provvedimenti disciplinari non indica la percentuale relativa tra una misura disciplinare e un’altra. Così l’analisi che l’Osservatorio può fare è anche di tipo qualitativo per inserire elementi di vita all’interno di quelle analisi quantitative disponibili e dare una immagine vera di come si vive all’interno delle istituzioni detentive europee, di quali siano le loro maggiori deficienze e quali le pratiche positive da estendere anche a Paesi che non le hanno finora sperimentate. Questo è, a mio avviso, il punto di forza della ricerca, che non la rende ripetitiva rispetto ad altre analoghe indagini.
RDG: In molti aspetti che riguardano la penalità, l’Italia detiene un triste primato in Europa. Pensiamo all’abuso della carcerazione preventiva, ma anche al basso tasso di concessione di misure alternative e alla lunghezza dei procedimenti. Quali sono i motivi dell’arretratezza delle nostre politiche rispetto ai nostri partner europei? E, siamo davvero così indietro?
MP: Non credo che si possa valutare nel complesso positivamente il modello di detenzione europea. È un po’ ovunque un modello obsoleto, inadeguato rispetto alla complessità del presente, inutilmente punitivo per taluni aspetti e soprattutto spesso non in grado di seguire i mutamenti che dal sociale si riflettono all’interno delle istituzioni di privazione della libertà. Basti pensare al ritardo con cui si sono affrontate regole penitenziarie specifiche relative alla detenzione di soggetti stranieri, mentre tutte le carceri europee andavano sempre più riempiendosi di persone straniere, prive soprattutto di un sostegno sociale che li aiutasse nell’impatto con tale istituzione. Ciò premesso, occorre obiettivamente riconoscere i punti di criticità specifica del sistema italiano: il primo riguarda le condizioni materiali di detenzione afflitte da un sovraffollamento che la stessa Corte Europea per i Diritti Umani ha definito “sistemiche” e non più dovute a una situazione eccezionale, temporalmente definita. A questo elemento si affianca la valutazione che tali condizioni non sono il risultato della pochezza delle risorse – problema che pur esiste – quanto piuttosto di un disorganico e caotico utilizzo delle risorse stesse. Manca da tempo – e questo è il secondo punto – una linea progettuale che dia fisionomia al nostro sistema: che indichi cosa si voglia raggiungere con determinati interventi trattamentali, quale sia la funzione della pena a cui si fa riferimento, quali gli strumenti per la sua realizzazione; in assenza di tutto ciò l’unica funzione resta quella segregativa.
Il terzo aspetto è connesso al non funzionamento corretto della macchina della giustizia: il tema giustamente nominato nella domanda dell’alta percentuale di persone in custodia cautelare è strettamente connesso in primo luogo alla durata del processi. Di fatto, la custodia cautelare in un gran numero di casi ha una durata che finisce coll’avvicinarsi alla pena effettivamente da scontare, una volta divenuta esecutiva la condanna. Questo ne cambia la connotazione trasformandola da misura dovuta a necessità processuale, a pena concreta, scontata anticipatamente e senza quegli strumenti d’intervento e quelle garanzie a cui la legge penitenziaria fa riferimento. Ma la custodia cautelare in eccesso è anche frutto della tendenza, accentuata negli ultimi anni, ad assecondare una presunta pubblica opinione che cerca di sopperire alla propria insicurezza sociale con la richiesta mai appagata di sicurezza, declinata come aumento della carcerazione. Sempre più si assiste nelle decisioni sulla misura cautelare da applicare a una sorta di timore della non legittimazione consensuale piuttosto che di stretta applicazione delle previsioni normative. L’umore della piazza entra nelle aule: e vi entra tanto più in una situazione, quale è quella italiana, in cui sono frequenti le competizioni elettorali (ai vari livelli locali, nazionali, europee) e il ruolo che gioca il tema della sicurezza nella ricerca del consenso elettorale.
RDG: In Italia, negli ultimi anni, è prevalso un linguaggio della penalità costruito sull’aberrazione, sulla logica del castigo, il cui simbolo è rappresentato dalla locuzione “tolleranza zero”. Che connessione esiste tra il linguaggio pubblico utilizzato e le concrete condizioni di detenzione?
MP: Il linguaggio è specchio delle scelte operate e conferma delle stesse nel loro riprodursi futuro. Le parole usate sono indicatori della cultura che si è diffusa: “tolleranza zero”, ovviamente verso reati bagattellari e non certo verso reati che coinvolgono grandi sistemi economico-finanziari, “non essere buonisti” e altre simili locuzioni sono il risultato della cultura che mediaticamente si è affermata in questi anni. Le ragioni sono quelle indicate nella precedente risposta: uno slittamento dall’insicurezza oggi socialmente avvertita verso un surrogato di sicurezza agito attraverso l’individuazione di potenziali nemici da neutralizzare: immigrati, rom, soggetti non omologabili, poveri. Ma, queste espressioni non solo registrano, anche costruiscono le culture diffuse. Per questo credo che un elemento di ridefinizione democratica anche dei sistemi dove si esercita la funzione punitiva dello Stato debba partire da un’operazione di igiene lessicale. Costruire un nuovo e diverso lessico, renderlo progressivamente lessico condiviso e comune è la prima essenziale tappa del ripensamento del sistema penale, dei suoi limiti, del suo essere strumento sussidiario a cui ricorrere con attenzione e parsimonia.
RDG: Lo Stato italiano è stato condannato tante volte dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), anche per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Si può ritenere che la giurisprudenza CEDU stia attraversando un’evoluzione nel senso di una maggiore attenzione e severità nei nostri confronti? Sui temi del carcere, è un foro destinato sostituirsi nel ruolo di garanzia dei diritti umani nel nostro Paese?
MP: L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo è innegabile, ma non riguarda soltanto l’Italia. È un passo necessario a più di sessant’anni dalla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Sessant’anni non sono pochi: è giusto che si diventi via via più rigorosi nel valutare come gli Stati che sono parte della Convenzione rispettino gli obblighi in essa contenuti. Nel 1999 il Consiglio d’Europa ha adottato una Raccomandazione relativa alle politiche da mettere in campo per contenere il problema dell’affollamento carcerario: i punti della Raccomandazione (n. 22 del 1999) riguardano le politiche penali, il ricorso a pene alternative per taluni reati e il ricorso a un sistema di probation per le pene detentive, dopo un congruo periodo della loro esecuzione. La linea di fondo è sconsigliare l’adozione di politiche centrate sulla costruzione di nuovi spazi detentivi – pronti a diventare insufficienti nel breve periodo – a vantaggio invece di un sistema più articolato che veda la privazione della libertà come misura da riservare a un numero ben limitato di casi. Con una qualche periodicità agli Stati è stato richiesto cosa avessero concretamente fatto nella direzione indicata dalla Raccomandazione (l’ultima occasione è stata a Roma la Conferenza dei capi delle amministrazioni penitenziarie che ha riservato a questo tema una sessione aggiuntiva, svolta insieme ai rappresentanti delle procure e delle corti).
Parallelamente, dal 2002-2003 la Corte ha elaborato una giurisprudenza tendente a dichiarare «inumane e degradanti» alcune situazioni detentive – il primo caso riguardò la Federazione russa – indipendentemente da qualsiasi “dolo”, cioè da qualsiasi volontà d’infliggere sofferenza, bensì come condizioni materiali in se stesse, frutto di carenze nella volontà e nella capacità politica di affrontare adeguatamente questi temi e adottare politiche penali in linea con le indicazioni date a suo tempo. Da qui l’evoluzione che si registra nella giurisprudenza e che ha riguardato anche l’Italia – prima, in un caso singolo nel 2009, poi nel gennaio 2013 in un caso definito frutto di carenze sistemiche dalla stessa Corte.
Osservo che in alcuni Paesi anche le Corti costituzionali hanno cominciato a interrogarsi sui valori in gioco nel bilanciamento tra la necessità di far eseguire una sentenza di condanna alla detenzione e l’obbligo assoluto a non porre alcuna persona, anche se detenuta, in condizioni offensive della sua dignità. Il Tribunale costituzionale tedesco ha affrontato la questione nello scorso anno, aprendo la via alla sospensione dell’esecuzione di una sentenza, nel caso di persona libera al momento del potenziale inizio dell’esecuzione stessa, qualora le condizioni detentive esponessero lo Stato a violare il principio fondante della dignità di ogni persona. La Corte costituzionale italiana sarà a breve investita analogamente del problema a seguito di un rinvio a essa fatto dal tribunale di sorveglianza di Venezia che la interroga sulla necessità di una sentenza “additiva” che includa nei casi di sospensione dell’esecuzione di una pena anche l’impossibilità di dare una dignitosa sistemazione.
RDG: Altrove stanno sperimentando la formula delle “liste d’attesa” come antidoto al sovraffollamento. Lei come valuta questo sistema ? Lo ritiene applicabile al caso italiano?
MP: A questo ho fatto riferimento nel dibattito che alcune Corti e il quesito posto alla Corte costituzionale italiana hanno aperto. Non amo la locuzione “liste d’attesa”: se ne fanno troppe nella quotidianità e non ne vorrei aggiungere un’altra. Inoltre, la pena distante – e di molto – dagli eventi e dalla sentenza perde di significato, diviene mera punizione. Specialmente se si riferisce a un soggetto che nel frattempo si è positivamente reinserito nel contesto sociale. Preferisco parlare di possibilità di conversione della pena detentiva in altra misura – per esempio di tipo domiciliare – nel caso non sia possibile appunto garantire condizioni dignitose. Ovviamente mi riferisco a pene di breve-media durata, che sono poi la stragrande maggioranza di quelle che debbono essere eseguite da soggetti che provengono dalla libertà. Non deve trattarsi di rinuncia d’esercizio della funzione punitiva da parte dello Stato, che non sarebbe accettata dalla società, bensì di un esercizio che si modula nel rispetto di un supremo valore che è quello enunciato da quell’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: «Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti o pene inumani o degradanti».
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