In Libia Tobruk e tribù sfidano gli Usa

by Chiara Cruciati, il manifesto | 4 Agosto 2016 10:58

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L’alternativa tribale è Saif Gheddafi. L’Isis si riorganizza a sud: attinge adepti dai rivali e punta alle vie del contrabbando

La speranza delle diplomazie occidentali è che i raid Usa sull’Isis a Sirte (partiti, scrive il New York Times, dalla Giordania e da portaerei sul Mediterraneo) rafforzino il governo di unità nazionale del premier al-Sarraj. Di certo isolano in parte il generale Haftar. Prova ne è la rabbia con cui il parlamento di Tobruk (ex riferimento Usa e Ue, oggi all’angolo per non aver riconosciuto l’esecutivo uscito dal negoziato Onu) ha reagito ai primi raid: azione illegale che viola la sovranità libica.

Poi è giunta la seconda reazione: ieri Tobruk ha convocato l’ambasciatore Usa in Libia per «chiarire le violazioni aeree senza permesso». Senza permesso perché, ai suoi occhi, al-Sarraj non ha alcuna legittimità: «Denunciamo l’atteggiamento americano, propaganda politica in vista delle prossime elezioni».

Ancora più dura, se possibile, la presa di posizione del Consiglio supremo delle Tribù e delle Città libiche, che a fine giugno aveva emesso un comunicato con il quale invitava i clan tribali a riconoscere il proprio sostegno all’esercito di Haftar e Tobruk: l’intervento statunitense è un’azione «imperialista». Per questo il Consiglio chiede «all’Unione Africana e ai membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di assumersi le proprie responsabilità e proteggere il popolo libico, considerando che i raid americani saranno sfruttati dal governo di unità di Tripoli per colpire i suoi oppositori».

Le diverse forme di protesta assunte dai vari attori libici destano le consuete preoccupazioni: al-Sarraj sarà in grado di garantirsi l’appoggio di chi, nella pratica, controlla pezzi interi di territorio? Le milizie, islamiste e non, fedeli a se stesse o a poteri più radicati, dettano legge su ampie porzioni di paese facendosi braccio militare di forze politiche: Tobruk di capacità belliche ha dato dimostrazione ieri, reagendo all’attentato kamikaze (a Bengasi uccisi 23 soldati dell’esercito di Haftar) bombardando Derna, roccaforte della federazione qaedista Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi.

L’autobomba guidata dall’islamista suicida è saltata in aria martedì sera in una zona residenziale della “capitale” della Cirenaica. L’attacco è stato rivendicato dal Consiglio della Shura, di cui fa parte Ansar al-Sharia, formazione qaedista contro la quale Haftar lanciò due anni fa la sua personale crociata anti-islamista, l’Operazione Dignità.

E poi ci sono le tribù, in primis Warfallah (la più grande, un milione di persone da Bani Walid a Sirte), Tarhuna (concentrata a Tripoli) e Zuwaya (presente in Cirenaica, dove gode del controllo di giacimenti petroliferi). Spina dorsale delle innumerevoli «Libie» tenute a bada per anni dalle capacità di mediazione e i favori clientelari del colonnello Gheddafi, hanno milizie ma soprattutto legittimità politica: i clan gestiscono reti economiche e di potere in grado di destabilizzare (o stabilizzare) il paese.

Non a caso guardano oggi al figlio del colonnello, Saif Gheddafi, da mesi sotto protezione nella prigione dorata di Zintan: a coccolarlo le stesse milizie che lo arrestarono cinque anni fa, le Brigate di Zintan oggi fedeli all’esercito di Haftar.

Il loro uomo potrebbe essere l’ex delfino, l’altra faccia della medaglia del governo di unità dell’odiato al-Sarraj che di consenso non ne ha. Almeno questa sarebbe la posizione di molti clan tribali, storicamente vicini alla tribù Gheddafi: Saif come solo rappresentante (necessario a cementare un mondo composito, quello delle tribù libiche, senza una leadership chiara e definitiva), l’unico a cui riconoscere legittimità nazionale.

In tale complesso sistema politico si inserisce l’intervento di Washington. Difficile giungere ad una soluzione duratura senza il coinvolgimento delle diverse forze centrifughe libiche, concentrandosi esclusivamente sulla minaccia islamista.

Di certo lo Stato Islamico perderà Sirte ma il flusso di miliziani è cominciato già da tempo: il “califfato” si sta redistribuendo e riorganizzando a sud-ovest. In vista della perdita della costa nord, lo Stato Islamico si starebbe concentrando sulle zone meridionali, come riportano fonti della sicurezza libica al settimanaleAl-Ahram Weekly. Non solo: per rimpiazzare i miliziani uccisi, sta attingendo ai gruppi rivali e alle milizie tribali, aprendo ad una possibile faida interna alla galassia jihadista.

In palio, a sud, c’è il controllo del contrabbando di armi e del traffico di esseri umani. E c’è il deserto, spazio aperto e scarsamente controllato dove mettere in piedi campi di addestramento e reclutamento per futuri combattenti da spedire nell’Africa del centro e in Maghreb.

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