Le urla del razzismo e i bisbigli della democrazia
(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)
Francesco Ciafaloni, già presidente del Comitato “Oltre il razzismo”, ricercatore per la CGIL e apprezzato studioso, avverte l’esigenza di perlustrare gli anelli di congiunzione intorno cui il razzismo si trasforma, da psicopatologia individuale, in senso comune. La minaccia del razzismo è permanentemente in agguato col suo carico oppressivo, pronta a saltare sulle prede di turno, facendo fruttare tutte le occasioni favorevoli. E poche occasioni sono favorevoli come una crisi di immani proporzioni quale quella che stiamo attraversando.
Razzismo e crisi, per molti versi, hanno traiettorie autonome e separate che, però, si ricongiungono e deflagrano, con effetti drammatici sulla vita delle persone e dei diritti. La deflagrazione indica la zona di rischio del «trionfo pratico dei razzisti». Viene così approssimata, indica Ciafaloni, una zona limite tutta particolare, entro cui, con i diritti e le vite dei più deboli, siamo a rischio tutti.
Il punto letale, osserva Ciafaloni, è il ritorno del leaderismo: la volontà del popolo che si incarna nel corpo del governo. Lo scioglimento della volontà di tutti nella volontà dell’unità suprema al comando è apertamente in urto perfino con le più minimaliste teorie e pratiche democratiche. Il razzismo come preesiste alla democrazia, così la inquina e destabilizza: le urla addosso e la zittisce, per così dire.
Rifacendosi esplicitamente a una lezione di Giovanni Calvino e di Luigi Ferrajoli, Ciafaloni ci dice che la volontà del popolo è irrappresentabile. Così, ci rammenta che la democrazia non contempla alcuna delega di volontà a nessuna forma di leadership politica. Ed è proprio intorno a questo asse di scorrimento che è molta la strada che rimane da percorrere.
Redazione Diritti Globali: Il montare dei fenomeni di razzismo e il dilagare della persecuzione dei migranti fino a che punto sono la conseguenza della crisi finanziaria e dello stato comatoso in cui, ormai, versa la democrazia e da che punto in poi, invece, sono un architrave della costruzione di una società chiusa che cancella i diritti e azzera la sfera pubblica?
Francesco Ciafaloni: Temo che il razzismo e la persecuzione dei migranti abbiano radici assai più profonde e remote della crisi sociale, esplosa come crisi finanziaria ed economica, del 2007. La crisi, in sé, cancella o riduce, la necessità, demografica ed economica, dal punto di vista del Paese di arrivo, della migrazione. In un mondo che si muove – con sbarramenti, cancelli, barriere, ma si muove – è la domanda di lavoro che determina l’offerta di lavoro e quindi la popolazione presente, e non viceversa. In questi anni ci sono stati inseguimenti in mare, naufragi, blocchi sui moli, leggi restrittive, ma, alla fine, in maniera irregolare, salvo i ricongiungimenti e qualche decina di migliaia di colf, i migranti sono stati lasciati entrare, e poi regolarizzati, ogni quattro o cinque anni. Poi ogni anno, salvo ritardi e incidenti, con i decreti flussi. Naturalmente i migranti non sono sabbia; sono uomini. Non si muovono portati dal vento. Hanno amici, parenti, memorie, aspettative. Seguono catene migratorie e reti migratorie. In parte seguono in parte aggirano le norme. Ma, certo, in maggioranza, tipicamente, vanno dove c’è lavoro e benessere – e stato sociale, e diritti di cittadinanza – e non dove c’è miseria. Basta guardare i percorsi dei ragazzini afgani in arrivo a Torino; o – adesso – gli spostamenti verso il Belgio e l’Europa del nord. La crisi riduce la domanda di lavoro e perciò rende eccessiva la popolazione presente. Rende meno difficile e contraddittoria la posizione dei razzisti; di chi vuole bloccare l’arrivo perché odia gli altri, per motivi suoi. Fino a qualche anno fa uno poteva scommettere che dopo mesi, dopo anni, i nemici di ieri sarebbero diventati i lavoratori di domani: utili, indispensabili. Basti pensare agli albanesi, la cui vicenda rientra tutta nell’arco della mia memoria personale. Ci sono stati anni in cui l’arrivo dei ragazzini albanesi sui gommoni veniva dipinto come la calata degli unni; o le turcarum classes a Lepanto. Anni in cui la questura di Torino ha espulso un albanese su tre. In cui i comandi della marina, zelanti, rischiavano e qualche volta producevano eccidi, come quello della Kater i Rades, per bloccare un’ottantina di donne, bambini e adolescenti. In cui assessori cattolicissimi si scontravano anche con i preti operai per spiegare che «Torino non può pagare a piè di lista». Poi gli albanesi come pericolo pubblico sono spariti. Sono comparsi i muratori, i pastori, gli agricoltori, i meccanici, le infermiere, le collaboratrici delle Acli, le militanti politiche. I razzisti dovevano rodersi il fegato e accettare.
Ma i razzismi, a base biologica, culturale, religiosa, preesistono. Stanno lì, nella testa di alcuni, o di molti ad aspettare che un giorno la sventura li trasformi, come è accaduto in passato, da psicopatologia individuale in vento di tempesta, in senso comune. Nella crisi si rischia il trionfo pratico dei razzisti.
Sembrerà fuori tema, ma a me sembra pertinente ricordare il vigore con cui Bruno Trentin, nato in esilio, amico di Nelson Mandela, polemizzava con quelli di noi che tendevano a ridurre il razzismo a “competizione per risorse scarse”. Lui ricordava gli anni Trenta e insisteva sulla necessità di essere preparati, di far fronte, di ricordare che le ideologie razziste sono sempre lì a giustificare la disumanizzazione e, alla fine, il massacro, di quelli che sono di troppo. La competizione per risorse scarse trasforma in senso comune le credenze patologiche di pochi. La guerra e la scarsità possono convincere milioni di persone che ammazzare sei milioni di ebrei sia la forma più semplice di soluzione finale, che programmare la morte per fame degli ucraini e dei bielorussi sia il modo più semplice per fare davvero dell’Ucraina il granaio della Germania. Timothy Sneyder in Bloodlands ci ricorda che tra il 1933 e il 1945, tra l’Oder e i confini occidentali della Russia, con due diverse, in parte opposte, ideologie, furono ammazzati 14 milioni di esseri umani, 5 dei quali ebrei – non in guerra o per ragioni legate alla guerra, ma a detrimento della guerra.
RDG: Possiamo ipotizzare che i nuovi razzismi in gemmazione siano l’altra faccia necessaria del vuoto di democrazia a cui la globalizzazione neoliberista sembra condannarci?
FC: Il vuoto di democrazia c’entra senz’altro. Basti pensare al numero di persone che in Italia lavorano, pagano le tasse e i contributi e non votano. E chi non vota, nel senso che non ha il diritto di voto, è fuori. Per non parlare del governo dei ricchi, che pagano le tasse e fanno comparire i profitti dove vogliono, nella misura in cui vogliono. Ma non credo si possa considerare il razzismo conseguenza del neoliberismo. Il trionfo politico del neoliberismo, la sua trasformazione in ideologia dominante, in senso comune è storia degli ultimi trent’anni. Il razzismo, e anche la globalizzazione, vengono da molto più lontano. Basti pensare all’Action française dell’inizio del secolo scorso, allo schiavismo, non solo europeo. I comportamenti dei partiti politici possono alimentare il razzismo. Se una parte politica, specificamente razzista o xenofoba, usa gli attriti tra i nuovi venuti e i vecchi residenti per guadagnare voti e i partiti non razzisti pensano che difendendo gli immigrati si perdono voti e quindi non contraddicono i razzisti e non difendono i migranti, che tanto non votano, per forza il razzismo si rafforza. Lo ius soli e un più rapido accesso alla cittadinanza, in linea con la maggioranza dei Paesi europei, migliorerebbe la situazione. Ma anche una democrazia meno degradata di quella presente, di per sé, non annullerebbe i pregiudizi.
RDG: Il rapporto tra potere e diritti è stato sempre molto conflittuale. Ma ora le nuove forme di sovranità globale sembrano volersi liberare del tutto dei diritti, considerati una pesante e inutile zavorra. La guerra contro i migranti, i profughi e la diversità in genere è una forma aggiornata dello stato di eccezione? Siamo qui oltre il dissidio classico Leviathan/Behemoth, come da lei accennato in Sbilanciamoci! con un articolo di qualche anno fa?
FC: Certo nello stato di eccezione la situazione dei gruppi più deboli, facilmente identificabili, contro cui ci sono pregiudizi, può diventare mortalmente pericolosa. Ma la forma di politica che è prevalsa negli ultimi decenni, che richiama per molti aspetti gli anni tra le due guerre, mette a rischio tutti – cominciando dagli zingari, come allora, naturalmente; ma poi tutti. Siamo tornati al leaderismo, alla volontà del popolo che si incarna nel governo. Siamo di nuovo alla vecchia tesi di Giovanni Gentile: «La volontà di un popolo non è la somma delle volontà dei suoi membri, ma la volontà di quell’uno che la rappresenta, in quanto ci riesca». Parte di noi ha approvato il governo di un uomo e dei suoi seguaci, come se fosse diretta emanazione del popolo.
Esiste la concezione opposta della democrazia. Luigi Ferrajoli, in un libro recente, Poteri selvaggi, ha scritto, applicando alla politica e al popolo ciò che Giovanni Calvino diceva della volontà di Dio: «La volontà del popolo non può essere rappresentata». Nessun capo politico può avere poteri assoluti, deleghe totali, sopra le leggi. Per ricostruire una democrazia in questo senso abbiamo molto lavoro da fare.
RDG: Nel nuovo panorama giuridico, finanziario, politico e sociale internazionale vi sono istituzioni sovranazionali che giocano il ruolo di produttori occulti di razzismo, discriminazione ed emarginazione. Una di queste è la Banca Mondiale, per la quale, come da lei recentemente ricordato, al mondo esiste solo il capitale; non esistono più storia, politica e diritto nelle loro autonome forme di espressione. Trascorriamo qui dal razzismo di Stato al razzismo imposto allo Stato? Oppure tra le due forme esiste una mediazione attiva?
FC: Sono d’accordo con la critica alle assunzioni culturali implicite ed esplicite della Banca Mondiale e alle conseguenze tragiche di alcune decisioni di quella Banca e del Fondo Monetario Internazionale. Anzi, dopo aver scritto il pezzetto sulla ricchezza delle nazioni per Sbilanciamoci!, mi sono reso conto che l’uso di quei modelli e concetti si è esteso a quasi tutti, incluso l’Ufficio internazionale del lavoro, che negli ultimi anni pubblica dati derivati dai modelli matematici, passati e futuri, nello stesso formato, con l’unica aggiunta della percentuale di casi misurati, che per il futuro è, per forza, sempre zero. Ma non credo che questa follia si possa chiamare “razzismo”; a meno che non si intenda che queste pratiche colpiscono l’intera razza umana. Alla cancellazione degli uomini, purtroppo, si aggiunge la cancellazione selettiva di alcuni di loro, per ragioni di aspetto, di cultura, di religione. La loro persecuzione apre la porta alla persecuzione degli altri. Esiste la tesi, sostenuta in particolare per gli afroamericani, che sia il razzismo il motore di tutto, più che lo sfruttamento del lavoro o la cancellazione dei problemi dei poveri, senza distinzione di aspetto, cultura, religione. Mi sembra una tesi difficile da condividere. Ora, per esempio, per «l’alterna onnipotenza delle umane sorti», stiamo scoprendo che i ricchi e potenti non necessariamente sono bianchi, occidentali, cristiani di una qualche confessione. L’economia conta moltissimo a questo mondo; ma anche le idee e le ideologie vogliono la loro parte. Quando Jerry Masslo fu ammazzato, nell’autunno del 1989, la partecipazione al lutto, la protesta di molti italiani fu alta, credo, perché anche se era nero, ragionava esattamente come noi; perché le idee dell’African national congress ci erano familiari. Avesse avuto la barba, avesse citato il Corano, molti sarebbero stati più tiepidi, temo.
RDG: Le ondate migratorie globali pongono all’ordine del giorno la formulazione e l’esercizio di nuovi diritti di cittadinanza e nuovi diritti umani. Ciò richiama una forma di universalismo delle differenze? E dunque richiede mutamenti costituzionali in senso partecipativo e democratico?
FC: Sì certo; bisogna formarci a un universalismo delle differenze. Nella cultura europea ci sono le risorse per farlo. Il termine per indicare l’universalismo delle differenze può essere cosmopolitismo, un termine kantiano ripreso oggi da vari studiosi, tra cui Anthony Kwame Appiah, che insegna negli Stati uniti, è nato in Ghana ed è figlio del figlio del re degli Ashanti e della figlia di Sir Stafford Cripps – Anthony è il nome di Eden, del cui governo suo nonno era ministro, e Kwame quello di Nkruma. È più o meno del colore di Obama; racconta di aver passato giornate serene accanto a suo nonno che amministrava la giustizia agli Ashanti; cioè che mediava le controversie, perché i tribunali penali ci sono anche in Ghana. Nella casa del Padre mio ci sono molte stanze è la citazione del vangelo di Luca che fa da titolo a uno dei suoi libri più importanti; la stessa che sta sulla facciata della Casa valdese a Torre Pellice. In un sistema cosmopolitico ci sono norme vincolanti per tutti – «non ammazzare», per esempio – e norme accettabili per tutti ma vincolanti solo per alcuni. Puoi portare il velo se vuoi, se per te è un simbolo religioso. A me non disturba, ma non sono tenuta a portarlo.
Non credo che ci sia bisogno di adeguamenti costituzionali perché la costituzione italiana è cieca al colore e alla religione. Una ventina di anni fa Stefano Rodotà aveva scritto un emendamento costituzionale di poche righe che estendeva esplicitamente i diritti politici – di riunione, di fondazione di un partito – agli stranieri, e che non è stato mai messo neppure all’ordine del giorno. Ma i diritti politici ci sono lo stesso, perché la Carta delle Nazioni Unite e i Trattati che la Repubblica italiana ha sottoscritto vincolano lo Stato a rispettarli. Esattamente come i diritti dei minori, che sono stati fatti rispettare, almeno in qualche regione, da qualche tribunale, per esempio quello di Torino, anche prima che la legge prevedesse esplicitamente il permesso di soggiorno per ragioni di età. Quello di cui c’è bisogno è un mutamento culturale, che ci riguarda tutti.
RDG: Su questi nuovi campi problematici quali sono, se ci sono, i limiti delle sinistre italiane ed europee? E, se ci sono, è possibile porvi rimedio?
FC: La sinistra italiana mi sembra in condizioni peggiori, da questo punto di vista, di quella dei Paesi scandinavi, o della Francia. Fatta eccezione per la sinistra cristiana, più sensibile a questi temi, si potrebbe dire che la sinistra italiana su questi problemi è stata semplicemente assente; che non ha rispettato, salvo dichiarazioni verbali e manifestazioni di facciata, neppure l’universalismo dei diritti dei lavoratori. Ancora venti anni fa avrei detto che, forse, un po’ alla volta gli italiani si sarebbero accorti che questo è un Paese di immigrazione, che i migranti non sono una emergenza e una sventura, che i diritti sono indivisibili. Ora, con la ripresa dei localismi, degli estremismi nazionalistici anche in Europa, sarei più pessimista. La strada è difficile e bisogna percorrerla passo dopo passo. Un po’ alla volta, malgrado la difficoltà della concessione, perché di questo ancora si tratta, si sta formando un nucleo non piccolo di migranti cittadini italiani. Nelle fabbriche la solidarietà, in genere, non è limitata ai cittadini. Ci sono ostacoli seri, che richiedono informazione e capacità di parlarsi per essere superati, come l’antislamismo. Una sinistra bisogna ricostruirla, non solo per questo aspetto, su base inclusiva, cercando ciò che ci unisce e non ciò che ci divide; non solo in senso cosmopolitico, ma anche per le compatibilità ambientali, per la salute, per il muto soccorso.
RDG: La nuova stagione dei movimenti, dalle primavere arabe agli Indignados fino a Occupy Wall Street, può scardinare la fortezza dei poteri neoliberisti, per saggiare un percorso che vada oltre discriminazioni e razzismi vecchi e nuovi? È possibile inaugurare una nuova alba del rapporto tra movimenti e istituzioni nel segno della partecipazione dell’Altro alla sfera pubblica e alla decisione? Nelle traiettorie disegnate da questi snodi, c’è qualcosa di nuovo e di diverso nei movimenti globali di questi ultimi anni, a confronto di quelli degli ultimi decenni del Novecento?
FC: Io sono rimasto molto legato alla stagione dei movimenti di 40 anni fa e non faccio fatica ad identificarmi con i movimenti nuovi. Non sono però ottimista sugli sviluppi automatici e non vedo una grande differenza al cambiamento di secolo.
Certo, ci sono i movimenti nei Paesi arabi che suscitano speranze nuove, ma sono tutti un po’ in bilico: meno in Tunisia, più in Egitto. C’è un risveglio culturale; c’è la funzione di guida esercitata dal Qatar. La famiglia regnante lì è ibadita, il ramo pacifista dei karigiti, che sono i meno gerarchici e i meno clericali tra gli islamici, per non parlare dei cattolici. Ma il Qatar ha anche molto realismo politico: il petrolio non si tocca; le basi militari che controllano il petrolio non si toccano. La speranza che i movimenti possano rimettere insieme la ricchezza mineraria e la popolazione sembra remota. Ma quando il mondo comincia a muoversi è difficile fermarlo, anche se non sempre ci piace dove va. Fino a oggi si sono viste tre guerre civili: nello Yemen, dove, però, in varie forme va avanti da più di mezzo secolo, in Libia, in Siria. Non sono buoni sviluppi. Mi preoccupa meno la vittoria elettorale dei partiti cosiddetti islamisti in Tunisia e in Egitto. Non ne so abbastanza, è ovvio, anche se mi sforzo di leggere e di tenermi informato. Ma il buon senso mi dice che se noi siamo sopravvissuti alla vittoria di un partito cattolicista, più gerarchico dei Fratelli mussulmani, il 18 aprile 1948, forse anche i tunisini e gli egiziani possono sopravvivere. Potrei aggiungere che, personalmente, non credo in Dio, ma vengo da una famiglia contadina e quindi cattolica. Mio padre e mia madre quel 18 aprile, quando avevo 11 anni, dieci di meno della maggiore età di allora, le elezioni le hanno vinte. A 64 anni di distanza, da laico e socialista, in senso lato, non li accuserei di aver tradito la patria.
Non sono ottimista, invece sulla capacità dei movimenti dei Paesi ricchi di crescere oltre il livello della protesta, che consente sempre di sommare tutto, a quello della proposta. Abbiamo nutrito molte speranze, molte volte, e le abbiamo bruciate. È difficile tenere insieme le domande di libertà, i bisogni elementari dei poveri, che si sono moltiplicati tra noi. È difficile liberarsi dal desiderio di identità, visibilità, affermazione che qualche volta rischia di distruggere una possibile unità anche nei campi in cui c’è più consenso e più ragione, come quello dei beni comuni.
Ma confesso che la mia paura maggiore è quella di distruggere il bene comune più prezioso di tutti, che è la pace. Un secolo fa la belle époque finì nel sangue, anche per la presunzione e il senso di onnipotenza dei Paesi ricchi. Facciamo male a pensare che la sventura debba sempre colpire solo gli altri.
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