La dominanza del fattore economico contro salute, diritti e beni comuni

La dominanza del fattore economico contro salute, diritti e beni comuni

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)

 

Gianni Tognoni, Segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli, osserva che, in generale e storicamente, la salute non ha mai rappresentato realmente un diritto umano accessibile, quanto un orizzonte da raggiungere, al pari di tutti i diritti umani. Come questi, egli afferma, è regolata dalla incolmabile distanza tra “essere” e “dover essere”. Far accettare questa intollerabile distanza come fato e fatto normali, se non virtuosi, è diventato il mestiere delle istituzioni nazionali e sovranazionali. Trasformare in impalpabile virtù un evidente vizio attiva un processo di degradazione etica e manipolazione sociale. Intorno a processi di questo genere prende piede quella che Tognoni ritiene la regressione di civiltà più inquietante della nostra epoca: l’abdicazione a dichiararsi competenti in materia di assunzione delle decisioni che toccano la vita delle persone. La vita e le persone possono essere, così, facilmente evaporare in indistinte entità virtuali. Salute-progetto e salute-vita si offuscano. Per usare il lessico di Tognoni, con la vita delle persone, è l’intera dimensione del “dover essere” a divenire virtualizzata. Dietro questo schermo virtuale si nascondono e prosperano potenti interessi economici e politici, occupati a tempo pieno a sgominare i diritti umani. A sbaragliare, cioè, la vita delle persone e il linguaggio come bene comune.

 

Redazione Diritti Global: Lei ha costantemente fatto rilevare che il diritto alla salute costituisce l’espressione del diritto alla vita e, quindi, il suo inadempimento integra un caso di violazione palese di un diritto umano. Possiamo ritenere che alla base di questa violazione vi sia la trasformazione della salute in un bene privato sottratto al controllo della sfera pubblica?

Gianni Tognoni: La domanda sembra implicare che sia in corso un processo di deterioramento e di regressione da un tempo in cui la salute era di fatto un indicatore della fruibilità universale della vita (questo è il senso di “diritto umano”). Dice inoltre che tutto questo starebbe succedendo perché la gestione dei problemi della salute (ciò che coincide con i sistemi sanitari) sta passando più o meno progressivamente nelle mani dei privati. Non c’è dubbio che la situazione che stiamo vivendo è caratterizzata, in molti dei “nostri” Paesi da una crescente importanza del settore privato, e da crescenti problemi di accesso alle prestazioni che non rientrano nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Mi sembra, tuttavia, che lo scenario ha caratteristiche di ambivalenza più profonda. A livello mondiale (e prima ancora che la globalizzazione divenisse la definizione omnicomprensiva e omniconfondente della realtà) la salute non ha mai rappresentato nella realtà (salvo forse l’eccezione di pochi Paesi con un servizio sanitario nazionale come l’Inghilterra e l’Italia) un diritto umano accessibile. Essendo un “indicatore” di diritto, il suo statuto è sempre stato lo stesso dei diritti umani: un orizzonte da raggiungere, una raccomandazione-obbligazione da realizzare, una dichiarazione-assicurazione che la volontà di arrivare è da tutti condivisa. La realtà ha sempre documentato la “distanza” tra il dover essere e l’essere, nei modi più diversi. E certo mettendo in evidenza che la distanza era più conclamata là dove la sfera pubblica era ristretta all’area delle garanzie dei diritti cosiddetti primari: quelli delle libertà fondamentali, del lavoro, dell’istruzione. Il cambio fondamentale che si è verificato negli ultimi anni (che hanno sostituito l’universale con il globale: quasi fossero sinonimi, e non opposti) è quello di considerare la “distanza” non come una contraddizione da affrontare-capovolgere, ma come un destino di cui essere spettatori, quando non collaboratori conniventi-convinti-rassegnati. La salute segue questa tendenza: la possibilità e la “ovvia” necessità di colmare la “distanza” sono riaffermate sempre più come un rito-cerimonia: la programmazione concreta (a livello nazionale e internazionale) ha accettato la “distanza” come un dato di fatto, una delle variabili da gestire in modo da rendere tollerabili le distanze-diseguaglianze, ma sapendo che il destino è quello di un compromesso al ribasso.

 

RDG: Alla base di questo processo negativo possiamo collocare la trasformazione dei sistemi sanitari in sistemi economici vincolati da puri e semplici rilevatori di bilancio? E quale, ancora, il ruolo che in questo processo hanno giocato istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale?

GT: Tutti gli attori menzionati hanno avuto (e hanno) un ruolo determinante nel provocare-mantenere l’incolmabilità della “distanza”. Ed è vero che la dominanza dei fattori economici (che si esprime nella sanità con i budget “a pareggio”, ma prescindono dalla vita-sofferenza-morte delle persone) è entrata “a gamba tesa” in sanità. Ma questo è vero anche per l’istruzione. È considerata una tendenza “normale” per tutti i beni comuni. La sanità è, certo, un mercato economicamente molto appetibile, per la sua tecnologia, la sua estensione, il peso psicologico e sociale che rappresenta nei vissuti e nei rapporti quotidiani tra le persone. Ma alla radice di tutto questo si deve riconoscere l’abdicazione più profonda, e drammatica, del diritto a dichiararsi competente nelle decisioni economiche che toccano la vita delle persone. Non c’è certo bisogno di ricordare che questa è la “regressione” più impressionante di civiltà di cui siamo spettatori-vittime. Non per nulla tra gli indicatori della gravità della “crisi”, la non-accessibilità ai servizi sanitari è uno degli indicatori privilegiati anche se fa poco rumore, ed entra sì e no nelle cronache.

 

RDG: La salute non sembra più essere un indicatore del diritto alla vita, ma un puro e semplice coefficiente di compatibilità tra sostenibilità della spesa e profittabilità dell’investimento. L’agenda delle istituzioni non contempla il diritto umano alla vita, ma la mercatizzazione della salute. Può chiarirci la dissociazione tra sanità e salute che questa tendenza ha sviluppato in tutto il mondo?

GT: La salute è un modo di pensare e progettare vita: i suoi soggetti-protagonisti sono persone e popolazioni reali, che stanno bene o male, si ammalano e guariscono, nascono e muoiono. Se l’aspetto organizzativo-tecnologico della salute, cioè la sanità, prende il sopravvento, sulla spinta di un mercato che ha bisogno di comprare-vendere prestazioni, farmaci, dispositivi, la salute-progetto passa in second’ordine. Peggio: viene fatta coincidere con le procedure o le conoscenze più o meno disponibili. Se le procedure – apparentemente precise, quantificabili, pianificabili – sono le protagoniste, le persone-popolazioni restano, quando va bene, sullo sfondo. In fondo ci si è abituati ad aprire e chiudere le giornate con gli indici di spread e simili, come se parlassero di “noi”. O dell’imprescindibilità dell’art. 18 da abolire, perché lo dicono un ministro perfettamente accademico e “di principi certi” o un manager che non ha mantenuto nessuna promessa di investimento e tutte quelle di disinvestimento. O dell’esemplarità di grandi opere come la TAV di Val di Susa, mentre i suoi abitanti (e non solo) chiedono dati e confronti e di parlare del loro futuro, e non dell’obbligatorietà-non-vera di “contratti” europei. Le persone diventano virtuali: non importa quanti sono i dati che ne documentano la progressiva assenza, in Italia e ancor più fuori. Se, ufficialmente, le persone esistono e pesano “virtualmente”, è chiaro che i diritti della loro vita sono a rischio di scomparsa. In fondo è impressionante vedere quanto la sanità sia scomparsa totalmente da tutta la programmazione del “nuovo governo”.

 

RDG: Il risultato è che chi è più abbisognevole di cura e assistenza è espulso dal sistema, proprio in quanto povero. In ciò possiamo leggere anche una degenerazione etica globale? E una trasformazione del principio di responsabilità solidale in principio dell’utilità?

GT: Anche nei tempi del servizio sanitario nazionale “forte” i “marginali” erano a rischio. In sanità i marginali sono quelli che non corrispondono a interessi chiari di mercato: coloro che non sono trasformabili in procedure-strumenti-farmaci da vendere-comprare, perché la medicina in “quel” settore non ha “ancora” incontrato un mercato che vi veda un interesse. Sono stati marginali i pazienti con AIDS finché non sono divenuti un capitolo importante della spesa farmaceutica. Ritornano a essere marginali i depressi via via che si esaurisce la “bolla” dei farmaci antidepressivi che non risolvono lo star male della vita (che si era cercato, e si cerca ancora, di trasformare in un problema medico). Rimane marginale ed escluso dal “pubblico” la riabilitazione neurologica dopo l’ictus, fino all’afasia (così simbolica, perché la incapacità-impossibilità di parlare è un mimo della privazione-impossibilità di autonomia e di rapporti…). Non si sa ancora qual è il carico assistenziale delle tante disabilità. Gli anziani fragili si trasformano in oggetti di attenzione e di investimento (quanto accoglienti?) là dove le reti delle RSA diventano nodi vitali di affari-investimenti di gruppi tanto ambiguamente “solidali” come la Compagnia delle Opere (e non solo!) nella Lombardia di Formigoni. La sanità è specchio-eco della società: ne ha espresso il sogno “alto” di dignità nel cuore degli anni dei diritti – gli anni Settanta, in Italia e nel mondo – con due leggi, la 194 e la 180: esse dicevano alla perfezione il ruolo di “variabile dipendente” delle tecniche e dei saperi “medici” rispetto alle “diagnosi di civiltà” che identificavano nella violazione dei diritti personali e umani – delle donne e dei “matti” – la vera patologia-devianza da curare, e di cui farsi carico, da parte della società.

Se il “tempo del diritto” continuerà a essere considerato come un ricordo interessante, ma sorpassato, perché oggi – e ancor più domani: questo è il messaggio ripetuto ossessivamente dalla “diagnosi di crisi” – non c’è più spazio per la libertà delle persone, ma solo per quella dei capitali, e delle guerre, la salute potrà solo degradarsi: o meglio divenire un bene-indicatore del privilegio e delle diseguaglianze. Basta non rendere ciò troppo visibile nelle statistiche e nel sociale. Nelle “nostre” società ciò è ancora più facile: i “nostri” indicatori socio-solidali hanno, per la grande maggioranza, una tenuta che durerà nel tempo. Non c’è da temere una “recessione sanitaria” paragonabile a quella dell’URSS dopo il crollo del Muro. La sanità “accompagnerà” la degradazione della solidarietà (nel senso alto di questo termine: il riconoscimento che la dignità umana non è sinonimo del “minimo” ma del “massimo” del rispetto delle persone, della loro diversità e dei loro bisogni), per occuparsi “con accanimento diagnostico-terapeutico” di coloro che coincidono con il mercato (vedi oggi la situazione realmente surreale della spesa oncologica) e rivestendo di patine “cosmetiche” le politiche assistenziali per i tanti marginali sopra citati. E stiamo parlando di Italia. Nell’Inghilterra l’attacco anche istituzionale al NHS è oggetto di formale dibattito politico, sociale, medico. Gli USA di Obama sono rimasti “al palo” della “riforma”: come a quello dei diritti. E i “desaparecidos sanitari” di sempre e di tutti Paesi? La crisi si sa (che è globale, viene da lontano) non è fatta per aprire, ma per chiudere gli occhi, temo.

 

RDG. Lei ha sovente fatto riferimento al nuovo vocabolario che ha stravolto il diritto alla salute, trasformando in “leggi di mercato” le violazioni dei diritti umani. Con la crisi finanziaria, il mercato si è elevato ancora di più a dominus dei diritti. Come è possibile opporsi a questo stravolgimento e, al contrario, arricchire il vocabolario dei diritti umani?

GT: Il linguaggio non è come una lingua straniera che si impara, o si ripassa. Il linguaggio siamo-noi-che-prendiamo-la parola, per fare del nostro vivere un progetto di sopravvivenza e/o di realizzazione piena. In quanto espressione di collettività umane, il linguaggio che mi pare serva, e da coltivare, è quello di moltiplicare pratiche che rendano visibili e praticabili i diritti: quelli di tutti i giorni e quelli sanitari. Non si tratta di “fare” ricerche o progetti speciali, né tanto meno specialistici. Questi sono utili per dare dimensione e qualificazione alla realtà: alle diseguaglianze, ai bisogni non risolti, alle deviazioni. Ma di questi dati siamo pieni. Il problema è come fare entrare questi dati nel linguaggio, cioè nella vita, nell’immaginario, nei processi decisionali dei politici, e/o di tutti gli uomini delle istituzioni (banche-banchieri, finanza-finanzieri sono istituzioni? O sono elementi virtuali, per ciò immuni-esenti dal dovere di ascolto e di sguardo, così da non dover considerare, né da avere dubbi, la complessità chiarissima dei dati che parlano delle persone?). La “ricerca” in sanità è oggi, e domani, la stessa che esiste per la democrazia. Non è qui il luogo in cui parlarne tecnicamente e nel dettaglio. Lo si sta facendo con difficoltà. Come per la democrazia e per i beni comuni. La salute-sanità non deve essere una lingua separata, “esente”, privilegiata. Ha senso solo se è bene-linguaggio comune. Che parla delle vite, più che delle malattie, che appartiene a tutti, più che ai sanitari. Che racconta e fa intravedere e costruisce e rende fruibili spazi di fiducia per chi non ne ha, e che sa che tutto ciò non è il prodotto principalmente di nuova tecnologia, ma di una coscienza di condivisione umana.



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