Kurdistan occidentale: prove tecniche di autogoverno

by Orsola Casagrande, Rapporto sui Diritti Globali 2013 | 11 Agosto 2016 10:37

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Intervista a Salih Muslim Muhammad, copresidente del Partito dell’Unione Democratica kurdo, a cura di Orsola Casagrande (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)

Si parla molto di Siria ma pochi sanno realmente che cosa sta accadendo nelle zone kurde “liberate”. Un interessante progetto di autogoverno è stato realizzato dal Partito dell’Unione Democratica (in kurdo Partiya Yekîtiya Demokrat, PYD) che ha mantenuto rispetto alla guerra in corso un atteggiamento di non partecipazione né a fianco della divisa e variegata opposizione siriana, né a fianco delle forze governative di Bashar al-Assad. Il copresidente del PYD, Salih Muslim Muhammad racconta qui quest’interessante esperienza.

 

Redazione Diritti Globali: Si dice spesso che i kurdi sono entrati nel conflitto in Siria parecchio dopo l’inizio della rivolta a marzo 2011. E che quando l’hanno fatto la loro posizione non era chiara. In realtà, i kurdi avevano già ingaggiato una battaglia con il regime del presidente Bashar al-Assad anni prima.

Salih Muslim: È vero. Nel marzo del 2004 c’è stata la rivolta di Qamislo, repressa nel sangue dalle forze del regime. Ancora nel 2005 un’altra e sanguinosa rivolta. Nel 2011 abbiamo salutato la nuova rivolta, però abbiamo anche cercato di pensare a una nuova strategia, una nuova filosofia. Abbiamo detto fin dall’inizio che noi crediamo sia possibile una rivoluzione pacifica. Se una rivolta comincia chiedendo appoggio militare ad altri Paesi, inevitabilmente diventa ostaggio di questi Paesi e dei loro interessi. Noi non siamo mai stati a favore di un intervento esterno. Crediamo che il cambio si debba produrre dall’interno. Noi non siamo in guerra con la popolazione araba di Siria, come con nessuna delle altre popolazioni che vivono in questo Paese. Il nostro progetto parla di inclusione, non di esclusione. Di convivenza, non di scontro. Quando chiediamo garanzie costituzionali non pensiamo solamente ai diritti dei curdi. Vogliamo che tutti i popoli, o, meglio, tutte le nazioni che vivono in questo territorio vedano rispettati i loro diritti, sociali, politici, culturali, economici, religiosi, il diritto alla legittima difesa. Purtroppo, dall’inizio della rivolta le cose hanno preso una piega molto pericolosa. La Siria si sta muovendo verso l’ignoto, la guerra civile è in atto.

 

RDG: I kurdi però sono riusciti a mettere in piedi un esperimento di autogoverno interessante. Entriamo un po’ nel dettaglio di quanto è accaduto e sta accadendo.

SM: Il fallimento del progetto di Stato-nazione centralizzato, che si basava sull’unità di lingua, cultura e colore e l’esclusione dell’altro, è ormai un dato di fatto. In Medio Oriente, poi, pensare di poter risolvere i conflitti rifacendosi a quel progetto ormai fallito non fa che peggiorare la situazione. Se analizziamo la Siria vedremo che la mappa politica attuale della Siria è il risultato di accordi internazionali tra le due principali potenze imperiali (Francia e Regno Unito). Tra questi, l’accordo Sykes-Picot (1916), la Conferenza del Cairo (1920) e il Trattato di Losanna (1923). Tali accordi erano diversi nel loro trattamento del diritto delle nazioni all’autodeterminazione. Le potenze imperiali hanno diviso l’Impero ottomano dopo la fine della Prima guerra mondiale in vari ambiti di influenza, a seconda dei loro interessi. Di conseguenza, il Kurdistan è stato diviso in quattro parti e il mondo arabo in diversi Stati nazionali, che sono stati posti o sotto il controllo britannico o sotto quello francese. Di conseguenza, sia la Siria che il Libano e la parte occidentale del Kurdistan sono stati posti sotto controllo francese subito dopo la Prima guerra mondiale. Obiettivo della Francia era creare una nazione araba servile, perché la mentalità del colonialismo occidentale si basa sul concetto di Stato-nazione dominante, che serve gli interessi, cultura e nazione della classe dominante. Questa forma di Stato non accetta né riconosce il pluralismo nazionale, né il multiculturalismo. Uno dei requisiti del progetto di Stato-nazione, che è fondato su negazione, sterminio e massacri sanguinosi, è quello di essere contro la democrazia. Cerca inoltre di fondere insieme culture, lingue, colori, appartenenze e le nazioni in una pentola con un approccio dogmatico e un carattere maschilista e fascista.

Il progetto di Stato-nazione è stato creato in Europa sulla base della soppressione delle rivoluzioni popolari democratiche e il predominio della borghesia, prima in Olanda e poi in Francia e Regno Unito. Questo progetto è stato un progetto controrivoluzionario – non era né “progressista”, né “popolare”, come era stato inizialmente pensato. Ha portato a sanguinose guerre regionali tra gli Stati europei e anche alle guerre mondiali.

Per quanto riguarda il Medio Oriente, questo progetto non era coerente con la natura, la storia, il patrimonio, la diversità culturale e l’armonia storica della regione. Quindi ha creato animosità tra le nazioni secondo il principio coloniale del “divide et impera”. Inoltre, il progetto di Stato-nazione ha creato istituzioni aliene, nazionaliste e razziste, ostili sia alla cultura di convivenza pacifica tra le varie componenti della società sia alla cultura della democrazia sociale che si era sviluppata nella regione dodicimila anni fa, dopo la rivoluzione neolitica (cioè il periodo pre-statale).

Venendo alla Siria, questo è un Paese multiculturale, vario e pluralista e, di conseguenza, lo Stato-nazione non è un modello che possa funzionare. È un progetto che contrasta con la realtà delle diversità e pluralità che sono esistite nel Paese fin dall’epoca pre-romana. Dopo l’indipendenza (17 aprile 1946), i successivi governi che hanno diretto la Siria hanno rappresentato e servito gli interessi della classe dominante e dei colonizzatori, vale a dire i francesi. La maggior parte dei governi successivi – il governo della Shukri al-Qwatli, quello della Repubblica Araba Unita e, infine, il governo baathista – hanno seguito una politica nazionalista attraverso la manipolazione di sentimenti nazionalisti.

Nel 1949 la Siria è entrata in una nuova epoca della sua storia – l’era dei colpi di Stato militari – che è culminata nel colpo di stato baathista l’8 marzo 1963, cui ha fatto seguito il colpo di Stato guidato dal defunto presidente Hafez Assad il 16 novembre 1970.

Non mi dilungo oltre, però diciamo che in questo contesto di crisi profonda a tutti i livelli, è necessario offrire un’alternativa corretta a tale sistema per consentire alla società, in tutte le sue componenti, di partecipare alla vita politica. A nostro parere, il quadro iniziale per la democratizzazione della Siria e la soluzione della questione kurda nella parte siriana è quello che chiamiamo autogoverno democratico.

 

RDG: Come si articola questo modello?

SM: Proponiamo dieci principi che chiamiamo dell’autogoverno democratico. È fondamentale che le soluzioni alla crisi in corso in Siria e Kurdistan occidentale siano di carattere permanente. Devono cioè contribuire al processo di creazione di una forma di democrazia siriana in cui il sistema democratico sia efficace e contribuisca a raggiungere la stabilità sociale. Se riteniamo che la democrazia comprenda sia lo Stato sia la società, allora il processo di transizione democratica in Siria deve avvenire sistematicamente sulla base di principi decisi di comune accordo come condizione per lo sviluppo di un quadro permanente democratico.

Democrazia è un termine che viene usato oggi da tutti i poteri socio-politici, compresi il regime e l’opposizione. D’altro canto, le potenze capitaliste intervengono negli affari della regione con lo slogan: portiamo la democrazia. Pertanto, la corretta identificazione dell’essenza della democrazia – sia in termini di ideologia che di principi – è essenziale per la corretta attuazione del processo di democratizzazione.

 

RDG: Questo dell’auto-governo democratico è il modello disegnato da Abdullah Ocalan, il leader del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, nella sua road map?

SM: Sì, sostanzialmente sì. A noi sembra che questo modello possa essere adottato anche in Siria.

 

RDG: E dunque quali sono i dieci principi?

SM: Il principio della nazione democratica, il principio della patria comune, il principio della Repubblica democratica, il principio della Costituzione democratica, il principio di soluzione democratica, il principio dell’unità dei diritti e delle libertà collettive e individuali, il principio dell’indipendenza ideologica e della libertà, il principio della storia dialettica e del presente, il principio della morale e della coscienza, il principio dell’auto protezione nei sistemi democratici.

 

RDG: Come state mettendo in pratica questi principi?

Mi piacerebbe cominciare dalla questione della scuola. Poco dopo l’inizio della rivolta nel 2011 abbiamo cominciato a insegnare non solo il kurdo ma in kurdo in alcune scuole del Kurdistan occidentale. Una cosa straordinaria, se si pensa che il regime Baath riconosce come unica lingua l’arabo. Poi, con la liberazione di alcune città kurde nell’estate del 2012, quella dell’educazione è diventata una importante battaglia. Abbiamo formato, nei mesi estivi, centinaia di maestri.

Un altro aspetto importante è l’organizzazione della società. Perché il progetto di autogoverno funzioni abbiamo dato vita a delle assemblee del popolo che lavorano divise in commissioni: c’è la commissione donne, quella giustizia, quella giovani, quella sanità. Sono le commissioni che analizzano i problemi dei territori e prendono decisioni in materia.

Ogni comitato ha un’area di lavoro specifica e tutti i comitati si riuniscono mensilmente per valutare le attività svolte. I consigli cittadini e i comitati collegati a essi funzionano attivamente nel Kurdistan occidentale e in tutte le città a maggioranza di popolazione kurda come Aleppo, Tiltemer e Hesekê. Ci siamo organizzati anche nei quartieri abitati dai kurdi della capitale Damasco. In alcune delle città del Kurdistan come Kobanê, Efrin, Qamislo, Tirbisiyê, Amude e Derikê, la popolazione si autogoverna e il numero di queste comunità cresce ogni giorno in linea con il processo corrente e gli equilibri variabili.

Il sistema di autogoverno nelle città di Kobanê, Efrin e Cizire è stato messo in pratica grazie a questi comitati che hanno provveduto a soddisfare i bisogni della popolazione in diversi ambiti incluse la sicurezza e la sanità. Per esempio, una delle prime decisioni prese dalla commissione donne è stata quella di condannare la poligamia e di votare di escludere dalle assemblee del popolo quegli uomini che abbiano più di una moglie.

Le donne hanno un ruolo molto importante nel disegnare la nuova Siria che vogliamo. La co-presidente del nostro partito, il PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat, Partito dell’Unione Democratica, fondato nel 2003) è una donna: Asya Abdullah Osman.

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