Erdogan sfida l’Europa “Sì alla pena di morte se il popolo la vorrà”

Erdogan sfida l’Europa “Sì alla pena di morte se il popolo la vorrà”

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 «SE IL popolo vuole la pena di morte, penso che i partiti debbano acconsentire. Sarà il Parlamento turco a decidere, ma la sovranità appartiene al popolo. Lo dico in anticipo: approverò le decisioni del Parlamento ». La Turchia torna a passi spediti verso la pena di morte, abolita nel 2004. È il suo leader a chiederlo, quasi a sollecitare la piazza: un milione di sicuro, ma forse addirittura tre, secondo i media di Istanbul che non hanno mai contato una manifestazione così imponente davanti al Bosforo, a Yenikapi, la Porta Nuova che si apre sul Mare di Marmara. E Recep Tayyip Erdogan, vestito di nero con la camicia bianca slacciata, guarda la folla immensa e lancia nuove parole dure contro l’Occidente. Contro la Germania, per esempio, colpevole l’altra settimana di non avere voluto trasmettere un suo comizio a un corteo di turchi a Colonia sul fallito golpe del 15 luglio: «Dov’è la democrazia? », si è chiesto. «Lasciamo che nutrano i terroristi, si ritorcerà contro di loro», ha detto con toni minacciosi.
Alla vigilia del summit che domani lo porterà a San Pietroburgo, dove riprenderà i rapporti con il Presidente russo Putin dopo l’incidente del Sukhoi abbattuto da Ankara a novembre, Erdogan ha riunito anche l’opposizione per il mega-raduno in piazza. Ci sono i socialdemocratici di Kemal Kilicdaroglu e i nazionalisti Lupi grigi di Devlet Bahceli. Ma non il Partito democratico dei curdi, che con più del 10 per cento dei voti e 70 deputati in Parlamento non è stato invitato a partecipare — è stato detto — fin quando non prenderà le distanze dai guerriglieri del Pkk che combattono i militari turchi nel sud est dell’Anatolia. La manifestazione è chiamata «per la democrazia e per i martiri», con un cambiamento anche semantico sulle vittime del tentato colpo di Stato, oggi considerate come eroi pure sotto il profilo religioso. Ma la folla accorsa al richiamo del governo conservatore di ispirazione islamica guidato da un Erdogan che punta ora a instaurare una Repubblica presidenziale, è quasi tutta per lui, e contro i golpisti. «Erdogan, sei un dono di Allah», si legge su alcune magliette. Oppure: «Ordinaci di morire, e lo faremo». E ancora: «Pronti ai tuoi ordini, comandante in capo».
Nessuna parola sulla repressione seguita al golpe, con una stima di più di 70 mila persone fra epurati e arrestati (14 mila): militari, giudici, docenti, giornalisti, diplomatici, dipendenti pubblici, società sportive, ospedali, e da ultimo una purga anche dentro il partito Giustizia e Sviluppo del leader. In Austria, il Paese europeo più critico con la Turchia, continuano gli echi della richiesta avanzata dal cancelliere Christian Kern di fermare i colloqui con Ankara per il suo ingresso nella Ue. In due interviste il leader del Partito liberale tedesco (Fdp), Lindner, e quello dell’estrema destra austriaca, Strache, hanno tracciato un paragone: la repressione post-golpe in Turchia assomiglia a quella che, nel 1933, seguì l’incendio doloso del Reichstag di Berlino e che permise a Hilter, proclamando lo stato d’emergenza e gridando al complotto comunista, di consolidare il suo potere.
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