by Federica Iezzi, il manifesto | 4 Agosto 2016 10:53
JUBA (SUD SUDAN) Ancora violenza in Sud Sudan. Violenza inaudita esplosa negli stessi giorni in cui il Paese si apprestava a festeggiare il quinto anniversario dell’indipendenza.
Alier solo due anni continua a gridare senza sosta durante la medicazione al braccio ferito da un proiettile. Siamo nella clinica all’aperto, allestita ai piedi della cattedrale di Santa Teresa, al centro della capitale Juba.
Con carenza di personale, mancanza di risorse, tra cui elettricità e acqua corrente, gli ospedali sud sudanesi sono al limite della sopravvivenza.
La guerra civile che imperversa nel Paese è legata ai disordini etnici tra la maggioranza Dinka e il popolo Nuer, iniziati nel dicembre del 2013. Da allora ha ucciso decine di migliaia di persone, ha creato tre milioni di sfollati e quattro milioni di denutriti.
Una fragile tregua si è affacciata nella vita del Sud Sudan con un falso accordo di pace firmato lo scorso agosto. Mai guarita la rivalità tra il clan del presidente Salva Kiir e quello del suo vice Rieck Machar, appoggiato da Khartoum.
Una raffica di proiettili ha lasciato nel Paese in queste ultime settimane più di 270 cadaveri ma, secondo le prime stime delle Nazioni Unite, le perdite potrebbero essere maggiori. Quasi 52mila nuovi rifugiati hanno raggiunto nell’ultimo mese la confinante Uganda, che ha già ridotto le pratiche di autorizzazione di asilo.
Il dramma degli sfollati
Fori di proiettili, vetri fracassati, calcestruzzo macchiato di sangue. Più di 36.000 profughi riversati nelle strade di Juba e almeno 7.000 accolti nella base Tomping delle Nazioni Unite. I camion d’acqua non sono in grado di fornire i carichi giornalieri necessari. Saccheggiati i magazzini del Programma Alimentare Mondiale. È così che si sveglia ogni giorno Juba.
Almeno 17.000 rifugiati vivono in circa 45 acri di terra cotta dal sole. Un muro di cinta di filo spinato avvolge gli alloggi ricavati da lenzuola e coperte. Si dividono gli spazi con i serbatoi d’acqua e le latrine. Il tutto pattugliato dalle forze di pace Unmiss (Missione delle Nazioni Unite nella Repubblica del Sud Sudan).A Malakal, nel sud, la situazione non è differente dal resto del Paese. Nyandeng, solo 17 anni e già mamma di due figli, ci racconta che tutte le strade sono perpetuamente pattugliate dai soldati governativi del Sudan People’s Liberation Army (Spla), partito politico separatista, fondato in Sudan negli anni ’80, come gruppo armato per l’indipendenza del Sudan del Sud.
Ad abitare il campo sono principalmente civili della tribù Nuer, stessa etnia di Riek Machar. Al di fuori della recinzione i Dinka di Salva Kiir.
I soldati di Kiir
«Il governo ha sempre negato che i Nuer sono stati presi di mira per attacchi di vendetta», ci dice Mabior, un uomo di forse 40 anni che ne dimostra almeno 60 «Ma nelle strade i poliziotti ti chiedono in lingua dinka, se sei un dinka».
E chi non è dinka? Picchiati con il calcio dei fucili, bendati e costretti a salire su grossi camion in direzione della più vicina stazione di polizia.
«I soldati di Kiir entrano di notte nelle case dei Nuer», continua Mabior. «Ci hanno rubato tutto. Le case, i vestiti, le storie, le vite. Io vivevo nel quartiere di Gudele, a Juba. Poco più di due settimane fa un commando di soldati ha buttato giù la porta della nostra casa mentre dormivamo. L’aria era riempita da colpi di pistola e urla e le torce luminose trafiggevano il buio pesto della notte. Alcune capanne erano state già date alle fiamme e il fumo nero riempiva i polmoni. Da allora le nostre vite sono diventate un inferno». Mabior, con moglie e cinque figli, è stato buttato nel campo rifugiati di Ajuong Thok, non molto lontano dalla città di Bentiu, nella parte settentrionale del Sud Sudan. «Le forniture di cibo e acqua delle Nazioni Unite non sempre raggiungono tutti», ci spiega mentre il sole tramonta e l’ultima luce del giorno svanisce.
Oggi la famiglia di Mabior vive in una capanna di forma quadrata. I figli aiutano nelle faccende quotidiane e si prendono cura degli anziani del campo, come fanno centinaia di altri bambini. La moglie cucina le razioni di cibo distribuite dal Programma Alimentare Mondiale: frittelle di farina, riso, fagioli. Ci dice: «Dipendiamo da altre persone per tutto e non si sa mai cosa sta per accadere».
La polvere è ovunque. I canti riempiono l’aria e commuove la condivisione della musica, a dispetto delle cose orribili che tutti sono stati costretti ad attraversare. Sulle strade sterrate rosse del mercato in Ajuong Thok, non mancano racconti attorno ad un infuso con zenzero, cardamomo e cannella.
Tra i banchi di scuola
L’unica scuola si trova nel vicino campo profughi di Yida. La mattina presto, più di 2.000 studenti si riversano nella scuola elementare Yousif Kuwa. Tra questi c’è Anna, la figlia di Mabior «Voglio diventare un dottore da grande ma se non studio come faccio?», ci fa vedere i suoi disegni del corpo umano ricopiati da vecchi libri. «Ci sono tante malattie e non si può perdere tempo, bisogna studiarle tutte e capire se ne arriveranno altre».
Ha appena 10 anni.
Gli insegnanti a Yousif Kuwa sono volontari. Gli studenti ogni mattina portano lattine vuote di olio di mais che utilizzano come sedie, tra teli e bastoni. Anna ci racconta che è difficile seguire le lezioni, i maestri sono troppo pochi. E spesso sono semplicemente ragazzi che hanno iniziato e poi abbandonato l’università.La scuola ha preso il nome da un famoso comandante del movimento ribelle Spla, che ora controlla ampie fasce dei monti Nuba e combatte le forze del governo di Khartoum. Per questo, secondo il presidente sudanese al-Bashir, rappresenterebbe una sicura base dei ribelli e per questo lo stesso presidente spinge la Comunità Internazionale allo smantellamento, alla chiusura e all’abbandono dei suoi 70.000 residenti.
Migliaia di persone continuano a spostarsi e a fuggire dalle battaglie tribali di una Nazione che non trova pace. Nonostante un cessate il fuoco temporaneo che sembra tenere, molti sono ancora troppo spaventati per tornare a casa.
Achan, madre di tre ragazzini, ha lasciato la sua casa dopo vetri distrutti da colpi di arma da fuoco e spari nel cortile. Teme di rientrare nella casa dove è nata e vissuta «Adesso sanno che lì vivono Nuer. Sanno i nostri nomi». Achan mentre fa mangiare il più piccolo dei suoi figli, Gatbel, ci racconta di spari e urla, dell’obbligo di abbandonare le proprie case, di soldati con divise e scarponi che ti spingevano fuori dai quartieri residenziali. Achan e la sua famiglia sono tra i più di 2,4 milioni di sud sudanesi senza casa a causa di guerra, fame o povertà.
«Ormai crescere in campi come questo è diventato un modo di vita in Sud Sudan», dice Achan. Gatbel segue un programma gestito dalla Croce Rossa Internazionale per la malnutrizione, nell’unico ospedale da campo dell’area. Il pavimento è sporco, pochi farmaci, pochi strumenti, poco personale. Anemie e polmoniti sono le conseguenze più disastrose della malnutrizione.
Manca il cibo
Dall’inizio dell’anno, più di 100.000 bambini sono stati trattati per malnutrizione grave, soprattutto nelle regioni di Equatoria Orientale e Bahr el-Ghazal occidentale, dato in aumento del 150% rispetto al 2014. Secondo Fao, Unicef e Programma Alimentare Mondiale, almeno 4,8 milioni di persone in Sud Sudan, oltre un terzo della popolazione, si troverà ad affrontare gravi carenze alimentari nei prossimi mesi: «Mancano le infrastrutture. Istruzione, sanità e servizi sociali sono scadenti». Gli effetti della guerra sulle zone di scontri sono chiari: villaggi svuotati, campi abbandonati, scuole e cliniche bombardate.
Achan torna a raccontare e si sofferma su come vivevano prima degli ultimi scontri: «Avevamo un pezzetto di terra, così abbiamo provato a seminare mais, sorgo e arachidi. È arrivata la pioggia e i raccolti sono stati buoni. Abbiamo mangiato nonostante non ci fosse lavoro». Ci confessa che non sarebbe mai scappata dalla sua casa per la fame, avrebbe trovato un modo per andare avanti. Ma per la guerra sì, è scappata. Più di 125.000 civili come lei, hanno lasciato il Sud Sudan nei primi quattro mesi del 2016 per Sudan, Kenya, Repubblica Democratica del Congo e Uganda.
Il padre di Achan, ci racconta lei «era in cura nel Juba Teaching Hospital per un problema renale cronico». Era diventato troppo pericoloso per lui fare ogni mese un viaggio di cinque giorni dal suo villaggio, così è stato obbligato a interrompere le terapie. «Il Sud Sudan sta diventando una crisi dimenticata».
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