Differenziale di genere e nuova cittadinanza sociale
(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)
Il Sud è stato oggetto, durante il governo presieduto da Silvio Berlusconi, di una riprogrammazione centralistica attivata dai ministri per gli Affari regionali e dell’Economia Raffaele Fitto e Giulio Tremonti, espropriando le Regioni. Da questo punto di vista, il nuovo governo, e in particolare il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca, ha portato una significativa discontinuità, condividendo gli obiettivi con le diverse Regioni su temi importanti come l’occupazione, l’istruzione, i trasporti ferroviari e le infrastrutture, i servizi pubblici. Per quanto riguarda l’occupazione femminile in particolare, servono politiche nazionali di settore per le attività produttive: la CGIL propone un Grande Piano per il Lavoro, con la ripresa di investimenti pubblici, il sostegno alla domanda e l’innovazione. Per la segretaria confederale Serena Sorrentino, occorre però più di tutto un passaggio culturale: le donne non solo hanno diritto al lavoro dignitoso, ma sono uno straordinario moltiplicatore economico, con effetti benefici non solo sul Prodotto Interno Lordo, ma anche sul benessere complessivo. Del Sud, della questione femminile e di legalità possibile, in particolare al Nord dove paradossalmente è ancor più necessaria, abbiamo parlato con Serena Sorrentino, segretaria nazionale della CGIL con deleghe per le politiche di coesione economica e sociale per il Mezzogiorno e per la legalità e sicurezza.
Redazione Diritti Globali: Il nuovo ministro per la coesione territoriale, Fabrizio Barca, ha sottolineato che l’Italia ha già riprogrammato le risorse comunitarie e nazionali perché il Mezzogiorno possa crescere e dare un forte contributo alla ripresa e che ora la sfida è realizzare le cose indicate nel documento “Il Mezzogiorno per l’Europa”, presentato dal premier Mario Monti al Consiglio Europeo. Si tratta di una discontinuità formale o concreta rispetto all’inazione del precedente governo?
Serena Sorrentino: Discontinuità, in questo caso, non rispetto all’inazione del governo precedente, ma rispetto alla filosofia di intervento e alle modalità di definizione del Piano di azione.
I ministri Raffaele Fitto e Giulio Tremonti avevano un’idea chiara in testa ed era quella di mettere mano ai Fondi strutturali attraverso una riprogrammazione centralistica che espropriava le Regioni delle loro titolarità e dava al Governo più potere nell’orientamento delle scelte.
Il ministro Barca invece ha ricostruito il dialogo e la cooperazione con le Regioni, con il partenariato economico e sociale e nel Piano di azione lega anche la riprogrammazione a obiettivi chiari e verificabili, come occupazione, istruzione, ferrovie e infrastrutture, servizi pubblici.
La nuova pratica d’azione del ministero prevede la definizione condivisa di obiettivi e interventi per singola Regione, le modalità di attuazione, i tempi e il monitoraggio. In più, si stanno definendo procedure in grado di snellire i tempi dell’espletamento delle istruttorie, a partire dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE), per rendere i tempi di realizzazione degli interventi più brevi e certi.
Siamo davanti a un cambio di passo importante poiché siamo a ridosso della nuova programmazione 2014/2020: i negoziati tra gli Stati e la Commissione Europea si stanno avviando e l’Italia può ora dimostrare di poter spendere le risorse per la coesione bene, con tempi ragionevoli e soprattutto per fare cose utili a colmare i differenziali nei trend di sviluppo più significativi: istruzione e formazione, infrastrutture e servizi.
RDG: Il tasso di occupazione femminile era, nel 2010, al 46,1% a fronte del 67,7% di quello maschile. Tra il 2009 e il 2010 nel Meridione il tasso di occupazione femminile è diminuito dell’1,4%, anche se poi tra il 2010 e il primo semestre del 2011 è salito, si fa per dire, dal 30% al 30,7%, secondo il CENSIS. Le nuove risorse recuperate in ambito europeo per il Sud non dovrebbero andare principalmente per l’incremento del tasso di attività delle donne e dei giovani?
SS: Solo con le risorse europee non ce la facciamo ad affrontare un problema strutturale di tale entità. La disoccupazione è più alta in generale al Sud: maschile, femminile e giovanile. Questo è un sintomo di quella che l’istituto Svimez ha definito «desertificazione industriale», che si accompagna a una crisi forte nei settori agricoli e dei servizi, dove c’è un alto tasso di presenza femminile, così come per la contrazione dei servizi pubblici per effetto dei tagli lineari delle varie finanziarie (scuola, infanzia, servizi alla persona). Le “azioni positive” sperimentate nella precedente programmazione, che aveva un asse sulle pari opportunità, ha funzionato come effetto tampone, legato alla durata dei progetti. Un po’ meglio è andata sul fronte dell’imprenditoria femminile al Sud ma anche qui la crisi è intervenuta pesantemente.
Per l’occupazione femminile ci vuole una risposta generale fatta di politiche nazionali di settore per le attività produttive che rilancino la crescita e un investimento nelle politiche sociali e nella rete dei servizi.
Oggi la retta di un nido è pari a quattro quinti dello stipendio di una lavoratrice precaria. Ciò rappresenta un deterrente: se non sarà ripristinata la legge contro le dimissioni in bianco, la permanenza degli abusi sfavorirà la permanenza delle donne nel mercato del lavoro in maniera continuativa e stabile. In questi anni si è fatta molta attenzione alla “tipologia” di contrattualizzazione e al costo del lavoro (incentivi e decontribuzioni), ma l’effetto dei contratti di inserimento, degli sconti sulla Imposta Regionale per le Attività Produttive (IRAP), del ricorso al part time senza obbligo di dichiarazione non hanno sortito effetti, poiché il punto non è rendere “conveniente” l’assunzione delle donne, bensì creare occupazione che possa assorbire l’offerta ampia di manodopera che c’è nel Sud.
Caso mai le risorse comunitarie dovrebbero agire su due leve: implementare la rete dei servizi e accrescere le competenze attraverso la formazione per qualificare sempre di più la domanda. Il tasso di mobilità dei giovani verso altre aree del Paese e del mondo è alto per chi ha qualifiche medio alte e ricerca opportunità altrove; la localizzazione di interventi dovrebbe servire non solo a invertire questa tendenza, ma a offrire opportunità anche a chi nella sfiducia e nell’impossibilità di emigrare è Not in Education, Employment, or Training (NEET), non studia e non lavora.
RDG: Le donne, in particolare, escono penalizzate dall’ultima manovra sulle pensioni, con l’innalzamento formalmente paritario dell’età pensionabile. Non solo, le risorse risparmiate con l’innalzamento dell’età pensionabile nel Pubblico Impiego non sono poi state distribuite a sostegno della condizione femminile, come peraltro previsto dal decreto legge n. 78 del 2009. Perché sono scomparsi dal dibattito sulle pensioni il tema del doppio lavoro femminile e delle carriere obbligatoriamente discontinue, da sempre la motivazione più convincenti contro una parità formale di genere che diventa una disparità sostanziale?
SS: Non direi che sono scomparsi questi argomenti ma, siccome sono onerosi, la politica li relega a discussioni per “addetti ai lavori” e non li affronta invece come elementi costitutivi di una nuova cittadinanza sociale. Il riconoscimento del lavoro informale, del lavoro di cura, sono elementi, come sottolinea Linda Laura Sabbadini dell’ISTAT, che rappresentano le due facce del differenziale di genere: nella società e nell’economia familiare per il ruolo che ancora oggi viene assegnato prevalentemente alle donne e che sostituisce il welfare pubblico via via sottratto, e nel lavoro in cui la spirale viziosa è rappresentata da meno salario, meno crescita professionale, minor tempo a disposizione, carichi di lavoro doppi e gli stessi criteri per andare in pensione. Alla fine del percorso di vita/lavoro, le donne si trovano più responsabilità familiari, più ore lavorate e differenziali a ribasso sul reddito (la maggioranza dei poveri relativi e assoluti è rappresentata da donne).
Il ministro Elsa Fornero parla di ciclo di vita; però, per le donne senza condizioni di sostegno ai carichi di cura, l’aumento dell’età pensionabile ha introdotto una profonda disparità, per la quale continuiamo a chiedere di agire su un doppio binario, ripristinando la flessibilità in uscita per la maturazione del diritto alla pensione (premettendo che vanno equiparate le condizione di lavoro e salariali) e agendo sulla rete dei servizi e su politiche di condivisione donna/uomo.
RDG: La Banca Mondiale sottolinea che l’Italia si pone al 74° posto per il ruolo delle donne nell’economia. Un dato che pesa sul Prodotto Interno Lordo, sui bilanci familiari e spesso anche sulla qualità della vita. Come è possibile attivare concretamente l’esigenza di una maggiore e più qualificata partecipazione all’economia extradomestica delle donne?
SS: La Cgil sta proponendo un Grande Piano per il Lavoro. Ci vogliono politiche nazionali, la ripresa di investimenti pubblici, attraverso il sostegno alla domanda, e privati, liberando le risorse messe a profitto nella crisi e reinvestendole in innovazione.
Più di tutto occorre un cambio d’approccio culturale: le donne sono cittadine attive e in quanto tali non solo hanno diritto al lavoro dignitoso, come recita la campagna del sindacato mondiale, ma sono uno straordinario moltiplicatore economico. Infatti, per ogni donna occupata la domanda di beni e servizi che si genera produce nuova occupazione, in prevalenza femminile, con effetti positivi non solo sul PIL, ma anche su quello che viene chiamato BIL, cioè sul grado di benessere di un intero sistema.
RDG: Sul piano della legalità, a che punto siamo nella trasformazione dell’economia illegale in economia pulita, al Sud ma anche al Nord?
SS: Ormai è acclarato dalle indagini giudiziarie e da studi autorevoli che la penetrazione dei capitali illeciti nell’economia legale raggiunge in Italia la quota del 10,9% rispetto al PIL, come mostra uno studio dell’Università Bocconi. Se a tale quota aggiungiamo il sommerso fiscale, stimato intorno al 16,5%, possiamo notare che il sommerso totale raggiunge una quota pari al 27,4 per cento del PIL. Dal punto di vista territoriale, il peso dell’economia criminale registra una differenziazione significativa, dato che si attesta al 12,5% nel Centro-Nord, quando invece scende al 7,3% nel Mezzogiorno. Anche per quanto riguarda il sommerso fiscale rileviamo una differenziazione, dato che l’indicatore raggiunge il 18,5% nel Centro-Nord (31% il sommerso complessivo) e il 12% nel Mezzogiorno (19,3% il sommerso totale).
Secondo SOS Impresa, il valore del fatturato delle mafie è di 135 miliardi, secondo la Corte dei conti la corruzione vale 60 miliardi e secondo l’Agenzia delle Entrate il mancato gettito per evasione fiscale vale 120 miliardi.
Il volume di liquidità derivante dalle economie criminali tradizionali viene reinvestito grazie alla cosiddetta zona grigia nelle attività “legali” attraverso holding, acquisizioni, società di capitali. Il sistema degli appalti è sempre il canale privilegiato per la determinazione dell’intreccio tra affari e politica, ma negli ultimi anni sono settori non tradizionali a essere penetrati dal fenomeno: il turismo, il commercio e la grande distribuzione, la zootecnia e il sistema dei servizi.
RDG: La crisi ha favorito l’azione impropria da banca estremamente liquida delle organizzazioni della criminalità organizzata nel sistema economico e finanziario del Paese?
SS: Non v’è dubbio. Questo è stato anche il canale per entrare e controllare interi settori economici dove ormai le zone di influenza e competenza territoriale, al Nord come al Sud, sono riconducibili a interessi precisi.
Alla crisi di credito del sistema bancario si è contrapposta la grande disponibilità di contanti dell’economia mafiosa, determinando lo spostamento di considerevoli flussi finanziari dall’economia “regolata” a quella legale, ma esercitata con capitali riciclati, con conseguenze devastanti sul sistema economico anche in termini di concorrenza leale.
RDG: Il 2011 è stato un anno segnato, secondo il CENSIS, dal downgrading della criminalità: meno reati, meno denunce, meno arresti. Eppure, soprattutto le zone urbane sono attraversate dalla perdita di coesione sociale, delle reti di relazione, della capacità di fare comunità. Come è possibile rafforzare i legami, i rapporti e l’identità sociale?
SS: Meno reati vuol dire più affari. Meno reati ma anche più disoccupazione e meno politiche sociali. Il mix di questi fattori è esplosivo. Non credo ci possano essere altre ricette se non un grande investimento delle politiche pubbliche: urbanizzazione e lotta al disagio abitativo, servizi, luoghi della socialità urbana alternativi al centro commerciale.
Nel disagio economico e sociale l’insicurezza diventa una dimensione del sé, si tende a rinchiudersi, le paure aumentano e i legami sociali si allentano. Le nostre città sono sempre di più senz’anima culturale, i quartieri sono non luoghi, le periferie sono lo specchio della crisi come destrutturazione del sistema sociale e dello spazio pubblico, dove le marginalità convivono ai bordi della civiltà, le piccole comunità si spopolano.
Quando, con gli anni, la spesa sociale è diventata un costo, nella vulgata liberista uno “spreco di risorse”, e non un investimento, mentre le riforme istituzionali, il federalismo iniquo della legge n. 42/2009, e le leggi finanziarie hanno svilito ruolo e funzioni degli enti locali, al territorio è stata sottratta un gamba importante per lo sviluppo e la coesione. Bisogna ripartire da lì.
RDG: Quali sono le luci e quali le ombre della nuova legge sul caporalato?
SS: Magari avessimo una legge sul caporalato così come proposta dalla Federazione Lavoratori AgroIndustria (FLAI), dalla Federazione Italiana Lavoratori Legno Edili e Affini (FILLEA) e dalla CGIL, che propone in visione organica prevenzione, contrasto e sanzioni per il fenomeno dei caporali e tutele per i lavoratori che sono sfruttati, specie i migranti. Occorre poi valutare che spesso ci sono molte “agenzie di intermediazione” che operano in assenza di controlli al pari dei caporali. Positivo è il testo dell’Articolo 12 del decreto legge n. 138 del 2011, poi convertito in legge, ma continuiamo a chiedere che vi sia una legge quadro che non si limiti all’inasprimento delle sanzioni. Ci sono delle leggi in discussione in parlamento che recepiscono le nostre indicazioni: stiamo lavorando a una rapida approvazione che cancelli le nuove e le vecchie schiavitù nel nostro Paese.
Related Articles
In Colombia FARC e governo negoziano per una pace giusta e duratura
Intervista a Yezid Arteta, ricercatore e scrittore, a cura di Orsola Casagrande (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)
Il razzismo contro i rom e il coraggio del loro esistere
Intervista a Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi a cura di Antonio Chiocchi (dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)