In Colombia FARC e governo negoziano per una pace giusta e duratura

by Orsola Casagrande, Rapporto sui Diritti Globali 2013 | 12 Agosto 2016 11:45

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Intervista a Yezid Arteta, ricercatore e scrittore, a cura di Orsola Casagrande (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)

Yezid Arteta individua tre elementi principali nel percorso che hanno portato l’organizzazione delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) e il governo colombiano di Juan Manuel Santos al tavolo delle trattative: il ruolo positivo di Cuba e del Venezuela; il pragmatismo del presidente colombiano, presidente Juan Manuel Santos; la svolta delle FARC e il recupero di una capacità politica. Oltre a ciò occorre considerare che in Colombia vi è una forte ripresa di movimenti di protesta e di lotte sociali che esigono cambiamento. Per Arteta, che in passato è stato un leader studentesco e ha scontato dieci anni di carcere per legali con la guerriglia, tutto ciò ha contributo a fare vedere alle FARC «che c’è uno spazio importante per la lotta e che questo spazio non deve necessariamente passare per l’utilizzo delle armi».

Redazione Diritti Globali: Quali sono stati secondo te gli elementi principali che hanno portato all’avvio dei negoziati tra guerriglieri delle FARC e governo di Juan Manuel Santos nell’ottobre 2012?

Yezid Arteta: Ci sono tre fattori, tre elementi che hanno fatto sì che si arrivasse a questo momento di negoziato tra governo e FARC. In primo luogo credo che il ruolo del governo cubano e del compianto presidente del Venezuela Hugo Chávez siano stati fondamentali perché questi due governi sono referenti molto importanti per la FARC. Cuba per quello che ha rappresentato come resistenza storica nel continente americano. E il Venezuela, a partire dal governo del presidente Chávez, che ha ripreso quelli che sono gli ideali bolivariani, gli ideali di integrazione latino americana. Questi due governi e i loro due uomini più rappresentativi, Fidel Castro e Hugo Chávez, hanno manifestato pubblicamente alle FARC la necessità di cercare alternative di lotta che, senza rinunciare ai loro obiettivi politici e sociali di trasformazione, non implichino necessariamente l’uso delle armi. Io credo che questo appello sia stato molto importante perché non si è trattato di un appello fatto da qualcuno che sta agli antipodi ideologici delle FARC ma da due leader importanti: uno, Fidel, con il profilo storico del calibro che si ritrova, come leader del Ventesimo secolo e l’altro, Chávez, che si è manifestato come uno dei leader più importanti del Ventunesimo secolo.

Il secondo aspetto è la determinazione del governo colombiano del presidente Juan Manuel Santos, che in modo pragmatico ha visto che il conflitto si trasformava in una specie di zavorra che non permetteva al Paese di sviluppare con un certo margine di tranquillità l’attività economica della classe imprenditoriale e impediva anche che lo Stato potesse detenere il monopolio delle armi e potesse sviluppare tutta la sua egemonia sul territorio nazionale. Santos dunque ha intuito che questo è un momento in cui un accordo accettabile da entrambe le parti può liberarlo da questi pesi, consentendogli di sviluppare le sue strategie politiche ed economiche a medio e lungo termine.

Il terzo elemento riguarda le FARC. Credo che ci sia stata una svolta importante a partire da quando Alfonso Cano, il leader delle FARC morto nel 2011, ha assunto il comando della formazione guerrigliera e ha cominciato a riportare le FARC a quello che chiamerei il recupero della politica. Perché le FARC negli ultimi anni sono state colpite da operazioni militari molto pesante grazie alle risorse che ha lo Stato e quindi hanno avuto molto poco tempo per poter recuperare l’esercizio dell’attività politica. Questo soprattutto in un momento in cui in Colombia c’è una ripresa insolita della lotta sociale, senza precedenti direi, che sta esigendo cambiamenti nel Paese. Movimenti sociali come quello degli indigeni, dei discendenti africani, il movimento degli studenti colombiano che sembra aver ripreso la bandiera degli anni Sessanta, con quella stessa belligeranza e partecipazione di massa, le ONG che hanno giocato un ruolo importante con la loro denuncia sulle scomparse, le violazione dei diritti umani, le minacce dei gruppi paramilitari. La presenza di alcuni settori della sinistra in Parlamento, nei comuni e in parte del territorio nazionale. Tutto questo ha fatto vedere alle FARC che c’è uno spazio importante per la lotta e che questo spazio non deve necessariamente passare per l’utilizzo delle armi.

Dal mio punto di vista questi tre elementi sono i fattori che hanno fatto sì che questo negoziato potesse cominciare.

RDG: Leggendo i documenti, soprattutto quelli delle FARC, sembra che la guerriglia abbia chiari gli obiettivi di questo negoziato. Così come ha chiaro che questo non può essere un “negoziato express”, come lo ha definito Ivan Marquez, il capo delegazione delle FARC ai colloqui di Cuba. In questo senso, credi che il governo sia veramente pronto e disposto a un negoziato che di fatto va a condizionare la sua stessa politica?

YA: È un negoziato. Un negoziato alla fine del quale le parti dovranno trovare un punto di avvicinamento intermedio. Detta altrimenti, sia le FARC sia il governo dovranno fare concessioni reciproche per poter vincere qualcosa entrambi. Non può essere un negoziato di perdenti ma nemmeno asimmetrico perché nella pratica non c’è una disfatta militare dello Stato ma nemmeno la guerriglia è in una posizione di debolezza. Quindi bisogna trovare un punto intermedio che avvicini le due parti.

Questo punto intermedio implica cambi sostanziali in alcune questioni; soprattutto, per citarne alcune, la questione agraria, quella degli spazi politici e quella delle garanzie. Perché in un eventuale processo di pace che abbia successo i guerriglieri dovranno avere garanzia piena di poter fare politica e partecipare allo scenario politico colombiano senza temere di essere repressi o assassinati come è accaduto in processi anteriori. Questo negoziato non può essere “express”, come alcuni settori del governo e dell’establishment politico colombiano vorrebbero, però non può nemmeno convertirsi in un dialogo infinito, perché entrambi gli estremi sono negativi. Quando parliamo di “negoziato express” abbiamo in mente un unico scenario possibile: una farsa. Una farsa in cui le parti si mettono d’accordo ma le questioni fondamentali che hanno generato il conflitto rimangono latenti. Uno di quegli scenari in cui il rimedio può essere peggiore della malattia.

Succederebbe un po’ come quanto è accaduto nel processo guatemalteco, dove non c’è stata una verifica, un controllo dell’accordo e di quanto stabilito in esso e alla fine tutto si è convertito in farsa. D’altro canto, non può nemmeno essere un negoziato che non ha limiti temporali, perché la velocità dei fatti politici in Colombia richiede decisioni da parte della guerriglia. Ci sono scadenze politiche ed elettorali che devono essere affrontate e se la guerriglia sta pensando al suo inserimento nel processo politico del Paese dovrà parlare anche del suo inserimento nel processo elettorale. In tutto questo la cittadinanza non può essere mantenuta in uno status quo infinito aspettando che il negoziato si risolva. Quindi il processo dovrà necessariamente trovare un tempo equilibrato.

RDG: C’è una differenza tra molte, che sembra interessante nel processo colombiano: in altri processi di pace, quello irlandese per esempio, a negoziare sono rappresentanti del governo e quella che si definisce ala politica del movimento armato. Qui no, il movimento armato è al tavolo dei negoziati. E con un mandato, evidentemente. Come si è arrivati a portare al negoziato la proposta delle FARC? E, dall’altra parte, come si stanno organizzando le FARC per entrare in gioco politicamente: pensando a un partito, a candidati indipendenti?

YA: Sì credo che la differenza con il processo di pace irlandese o anche quello basco, è che in questi processi sono state le manifestazioni politiche di quei movimenti, quelle che, per così dire, godevano di una certa legalità, a sedersi con la controparte sviluppando i termini del negoziato. Nel caso colombiano è diverso, perché la potenza militare delle FARC è notevole. Stiamo parlando di un’organizzazione che alcuni stimano in 10-12 mila uomini, le cui attività comportano ogni anno perdite nelle fila militari avversarie di 500-600 uomini e tra i 1.700 e i 2.000 feriti. Stiamo dunque parlando di un’organizzazione molto forte. Con una struttura di comando, una gerarchizzazione, una pianificazione di tutte le attività sia politiche che militari. Credo dunque che questo posto al tavolo dei negoziati le FARC se lo siano conquistato. Dobbiamo dire le cose come stanno: la guerriglia ha conquistato sul campo il suo posto ai negoziati. Mantenendo un’attività militare costante e resistendo a tutte le operazioni militari che ci sono state negli ultimi dieci anni. Quindi lo Stato ha capito che per poter fermare la guerra, per poter fermare i colpi, doveva dialogare con chi questi colpi li tirava. E chi sta tirando i colpi non sono le organizzazioni civili e politiche che sono nella scena politica. Per questo buona parte del documento denominato Accordo per la fine del conflitto, ha come priorità quella di risolvere il tema della Guerra, ma non le questioni che hanno portato al conflitto. Su questo bisogna essere chiari: perché il conflitto è lì. Perché la rappresentazione delle FARC e del governo non sono la riproduzione della genesi: in sette giorni costruiranno un Paese. La costruzione del Paese deve essere realizzata dalle organizzazioni sociali e politiche che stanno chiedendo il cambiamento e stanno trasformandosi nella forza motrice che può imporre questo cambiamento. Credo che FARC e governo si metteranno d’accordo soprattutto nel generare questa condizione, lo spazio nel quale queste forze sociali potranno agire. Ora, come lo farebbero le FARC? Le FARC hanno una base sociale piccola ma soprattutto nelle zone agrarie e marginali del Paese, le zone della colonizzazione, hanno una base nel movimento dei cocaleros e godono di una certa popolarità in settori importanti dell’intellettualità, del mondo accademico e studentesco, di alcune fasce urbane del paese. Questa base sociale, fondamentalmente campesina, molto organizzata e che è stata fedele alle FARC (perché sono state l’organizzazione che ha resistito ai piani ufficiali di repressione, di forza regressiva, di appropriazione della terra) fa sì che le FARC abbiano al primo punto del documento che si sta discutendo a Cuba la questione agraria. Perché le FARC alla fine di questo negoziato devono portare alla loro base sociale dei fatti concreti che permettano di soddisfare le aspettative di chi è stato il loro elemento nutritivo, dal punto di vista politico, logistico e di reclutamento per mantenere lo sforzo bellico. Per cui, per le FARC, la questione agraria rappresenta un po’ la colonna vertebrale di questo negoziato. E per il governo sicuramente la questione fondamentale sarà la fine della guerra e la garanzia che dovrà dare a queste organizzazioni: la garanzia di uno spazio politico nel quale possano partecipare senza timori di repressione.

C’è oggi in Colombia una gamma di organizzazioni sociali potenti, come la Marcha Patriotica, con un livello di attività senza precedenti nella storia della sinistra in Colombia che certamente troveranno similitudini e spazi comuni con una guerriglia che abbia concluso la fase delle armi e cerchi di entrare nello spazio politico. Non si può poi disdegnare il tema delle elezioni. In passato, io ero in servizio attivo nelle FARC, ricordo che quando la Union Patriotica discuteva di presentarsi alle elezioni, come molti quadri membri della guerriglia sono uscito in piazza ad organizzare il progetto politico della Union Patriotica e due dirigenti importanti, tra cui Ivan Marquez che oggi è il capo delegazione delle FARC ai negoziati, e Braulio Herrera, sono stati eletti alla Camera per la UP, pur essendo dirigenti delle FARC. Se si è fatto nel passato, perché non si può ipotizzare per il futuro?

RDG: Approfondiamo la questione agraria.

YA: Ci sono vari aspetti connessi a questo tema. Non si tratta solo di riforma agraria in cui si parla di redistribuzione della terra. Questa è una questione che riguarda alcune aree del Paese, per esempio il Madalena-Medio dove ci sono latifondi improduttivi. Però la questione dello sviluppo rurale, com’è definito nell’accordo in discussione tra FARC e governo ha a che fare con la questione della migrazione interna. Non si può parlare di sviluppo rurale in Colombia senza garantire il ritorno di migliaia di campesinos che sono stati espulsi dalle loro terre con la violenza. Affrontare questo tema del ritorno implica misure politiche strutturali in Colombia perché significa toccare proprietari illegali di terra, mettersi contro gli interessi di persone che si sono appropriate con lo sterminio, il sangue di migliaia di ettari di terra per sviluppare progetti agroindustriali, come l’olio di palma. Altra questione quella che interssa la zona ai piedi della Cordigliera Orientale e in parte Occidentale e riguarda la coltivazione della coca. Qui le terre ci sono, per tutti. Tutti sono proprietari. Ma qui il discorso è diverso: devi parlare di riconversione graduale delle coltivazioni di coca. Sviluppare un programma nel quale la guerriglia, che ha vissuto in quella regione e conosce al dettaglio le problematiche reali, possa vincolarsi, già dopo l’accordo di pace, a un piano di sostituzione di coltivazione di coca per poter relazionare la regione a un piano di sviluppo più ampio, ma nel contempo facendo in modo che questa gente che ha vissuto di coltivazione di coca possa partecipare allo sviluppo futuro del Paese, per esempio in materia alimentare.

RDG: In ogni processo di pace ci sono due temi importanti, quello dei prigionieri politici e quello delle vittime. Nel caso delle vittime si tende a considerare vittima solo le vittime dei guerriglieri. Però le vittime del terrorismo di Stato sono molto spesso dimenticate o vengono considerate cittadini “di serie B”. Perché?

YA: In Colombia poche persone discutono del fatto che la maggioranza delle vittime di questo conflitto sono state vittime delle azioni di gruppi paramilitari e di gruppi vincolati all’apparato di repressione dello Stato, i responsabili di quella che chiamiamo guerra sucia. Basti pensare che la sola Union Patriotica sta chiedendo giustizia per la morte di 5.000 suoi militanti. C’è stato lo sterminio di un partito politico attraverso l’eliminazione fisica dei suoi affiliati. I grandi massacri che ci sono stati in Colombia tra il 2000 e il 2002 sono stati compiuti dai gruppi paramilitari. Il pittore Fernando Botero ha mostrato in maniera molto potente il martirio di queste regioni.

Ci sono ovviamente anche vittime della guerriglia. Nessuno lo nasconde. È una guerra. La cosa che mi pare più complicata in questo processo è trovare un equilibrio in Colombia tra la giustizia (perché ci sono settori che fanno pressione per punire i capi guerriglieri, ma si dimenticano che questo atteggiamento è una minaccia per il processo di pace stesso), la verità (e sarà impossibile ricostruire tutta la storia della violenza di cinquant’anni, però dobbiamo fare questo lavoro il più meticolosamente possibile) e la questione della riparazione. Che non è solo chiedere perdono alle vittime. Lo Stato deve riconoscere fino a che punto ha avuto responsabilità nel non proteggere i beni e gli interessi della comunità. Ci sarà qualcuno che vorrà una riparazione simbolica, ma ci sono campesinos poverissimi che avranno bisogno di un compenso per poter ricominciare a ricostruire la loro vita. È un compito molto difficile ottenere questo equilibrio.

Quanto ai prigionieri credo che si possa pensare a misure di progressiva riduzione del conflitto. Lo Stato come gesto di buona volontà, corrisposto da un gesto delle FARC, potrebbe consentire una visita, magari a una Commissione anche internazionale, per verificare le condizioni dei prigionieri. Dovrebbe poi adottare misure di riduzione della pena, per esempio per i prigionieri malati. Perché ci sono prigionieri che muoiono in carcere senza cure adeguate. Anche il tema dei prigionieri deve essere risolto con una giustizia simmetrica, che significa anche applicare le stesse misure ai membri delle squadre paramilitari. Un tema molto delicate, ma che va affrontato.

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