by Valentina Brinis, il manifesto | 18 Agosto 2016 10:42
Come si comporteranno i Comuni francesi che hanno vietato il burkini sulla spiaggia, con chi indossa la muta da sub? O con le donne che per varie ragioni non possono esporsi interamente al sole e si presentano al mare con un abito che le copre interamente, testa inclusa?
È vero che quelle ordinanze – adottate proprio dove qualche decennio fa era stato inventato il bikini – parlano chiaro, e si riferiscono al burkini come simbolo religioso più che all’abito in quanto tale. Ma è immaginando l’applicazione di un simile dispositivo che emergono le contraddizioni, oltre che la difficoltà di distinguere tra chi indossa un abbigliamento coprente per motivi religiosi e chi lo fa per altre ragioni.
Gli addetti al controllo delle spiagge avranno probabilmente delle linee guida e sarebbe interessante sapere se si limitano all’identificazione dei trasgressori attraverso le caratteristiche fisiche, o se è prevista un’intervista (due domande, due) in grado di mettere in evidenza se le ragioni di tale abbigliamento siano o meno religiose. Se quest’ultima parte verrà trascurata, quale atteggiamento assumeranno con i fedeli di altri culti che prevedono un costume simile? Possibile che sia solo il burkini a creare problemi di ordine pubblico, e non per esempio i borsoni da spiaggia, le già citate mute da sub o i copri costume extra-large?
Il burkini, poi, rende chi lo indossa immediatamente riconoscibile, smontando in questo modo il fulcro di un dibattito di qualche anno fa sul tema del velo come minaccia alla sicurezza pubblica.
Pare però che la battaglia contro alcune manifestazioni di radicalismo religioso si stia giocando esclusivamente sull’esibizione dei simboli di appartenenza tipicamente femminili e, più esattamente, sul corpo delle donne. Un atteggiamento, quello francese, che appare del tutto sfasato rispetto a quanto sta accadendo alle Olimpiadi di Rio dove il burkini viene utilizzato dalle atlete senza che divenga il bersaglio di accese polemiche. La schermitrice americana che ha gareggiato con il velo lo ha fatto per rivendicare la propria identità e non perché costretta da un compagno estremista. E lo stesso ha pensato la giocatrice di beach-volley egiziana quando lo ha indossato nel match contro la Germania.
Ecco perché è stato prudente il ministro dell’Interno Angelino Alfano a discostarsi dai provvedimenti francesi, assicurando che non saranno mai adottati in Italia. E ciò deve essere fatto non solo per paura di subire ritorsioni da parte di chi quei simboli li considera il tratto fondamentale della propria identità, fino a dichiarare guerra a chi non li rispetta, ma anche perché la loro negazione nello spazio pubblico non si è dimostrata efficace. Inoltre, un divieto come quello imposto dalla Francia, non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati. Dove, l’integrazione, è da intendersi come un processo a doppio senso (e non a senso unico), composto da diversi elementi, e capace di incidere sia sulla società ospitante che sugli stranieri. E in Europa, un simile sistema non è più ignorabile.
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