I bambini ci guardano. E poi muoiono
I bambini ci guardano. Siamo noi a evitare accuratamente di vederli. A non accorgerci delle loro sofferenze e del martirio cui sono sottoposti senza colpa. O meglio: fingiamo di farlo quando i meccanismi ipocriti del sistema mediatico e della politica decidono di accendere brevemente un riflettore non sulla immane tragedia delle guerre, non sulla barbarie dell’infanticidio prolungato in corso da anni in Siria, in Iraq, in Afghanistan, in Libia, nello Yemen, in tutti i luoghi dove “gli altri mezzi della politica”, per seguire il sempre attuale Carl Von Clausewitz, fanno strage, per lo più vigliaccamente dall’alto, senza rischio per gli assassini e senza che i mandanti (e i profittatori, che a volte sono gli stessi, vale a dire l’industria bellica) avvertano e riconoscano la minima responsabilità.
Ci guarda Omran Daqneesh, cinque anni, estratto vivo a differenza di tanti altri dalle macerie di Aleppo. Lo scatto fotografico che lo ha immortalato sulla sedia dell’ambulanza, impolverato, pesto e sanguinante, mostra il suo sguardo che non rivela paura, semmai l’irrimediabile disillusione e distanza dell’infanzia tradita e violentata.
Quell’immagine ha fatto il giro del mondo, che ha fatto finta di commuoversi, come già aveva fatto lo scorso anno per Alan Kurdi, prontamente dimenticato assieme alla tragedia collettiva dei migranti e dei popoli in fuga dalle guerre e dalle carestie di cui era stato per un attimo tragico emblema.
Così come allora l’ipocrisia mediatica e politica aveva rimosso dalla scena le centinaia di altri piccoli affogati sulle spiagge turche o greche, di nuovo le esigenze del miserabile copione rappresentato dal sistema mediatico (sia chiaro: non dei singoli fotografi e giornalisti, che fanno il loro mestiere, con maggiore o minore scrupolo e deontologia, ma di chi governa quel sistema e ha il potere di decidere le scelte editoriali e politiche), hanno tagliato dallo stesso scatto fotografico che ritrae il piccolo Omran l’immagine della sorella, appena più grande di lui, seduta sulla seggiola a fianco della sua, egualmente pesta e insanguinata.
E hanno perlopiù evitato di raccontare che nel raid aereo che ha sepolto sotto le macerie della loro casa Omran, i suoi tre fratelli e i genitori, sarebbero rimaste uccise otto persone, tra cui sei bambini, di cui nessuna immagine è stata fornita. Tra di loro Ali, dieci anni, il fratellino di Omran. Come ha raccontato lo stesso autore dello scatto fotografico, Mahmoud Rslan, gli è successo spesso di fotografare bambini uccisi o feriti in questa immonda guerra che dura dal 2011. In tre settimane di bombardamenti ad Aleppo le vittime civili sarebbero 333. Almeno 49 i bambini uccisi.
Ma il rito collettivo ed effimero della pietà deve infatti focalizzarsi su un unico bambino, un solo dramma, un solo dettaglio. E solo ogni tanto: della commozione pubblica non si può abusare. Potrebbe nuocere alla salute, alla vendita dei giornali e al commercio d’armi, un’eccellenza anche italiana. Mostrarne due, o tre, o cento, documentare e raccontare regolarmente le infinite sofferenze e ingiustizie che le guerre producono, potrebbe alla fine indurre il ragionamento nella opinione pubblica e passiva che la questione, forse, è dunque politica: che non basta la momentanea pietà per il dramma individuale perché occorre ragionare sulle cause che hanno prodotto, e producono quotidianamente, la strage dei bambini (se proprio non riusciamo a farci impressionare anche da quella dei loro fratelli maggiori, genitori, zii o nonni). E magari interromperle. E magari risalire a Erode, inchiodandolo alle sue responsabilità e mettendolo in condizioni di non più nuocere, non più devastare interi Paesi, non più moltiplicare all’infinito i profitti insanguinati e la catena politica e corruttiva che ne sta alla base.
Le almeno 290 mila vittime (ma altre fonti danno cifre quasi doppie) della guerra in Siria non provocano sdegno. Tanto meno i milioni di sfollati, un piccolo rivolo dei quali riesce a giungere, a caro prezzo e spesso perdendo la vita nel tragitto, nelle nostre città e addirittura sulle nostre spiagge, compresa quella esclusiva di Capalbio, turbando non la coscienza ma la vacanza. I rifugiati non possono commuovere: sono troppi e non ci guardano dalle pagine dei giornali ma spesso da vicino, da troppo vicino. Né tanto meno il loro evidente e immane dramma può riuscire ad arrivare a modificare leggi e norme, nazionali ed europee, in nome non della solidarietà ma della giustizia: chi rompe – in questo caso gli equilibri geopolitici – e specula sulle guerre dovrebbe almeno occuparsi dei cocci. Invece l’Unione Europea preferisce pagare miliardi a quel campione della democrazia e dei diritti umani che sia chiama Recep Erdogan affinché trattenga in Turchia quel fiume di umanità lacera e dolente. Se il piccolo Omran dovesse mettersi in viaggio per tentare di salvare la propria vita dal prossimo bombardamento, se non anche perisse lungo il viaggio come Alan, finirebbe probabilmente maltrattato in qualche campo profughi turco, e poi magari sfruttato e nuovamente maltrattato in quell’industria tessile che consente agli occidentali di comprare abiti a poco prezzo e alle multinazionali del settore lauti guadagni. Ma, a quel punto, il suo sguardo ferito non interesserebbe più nessuno, la sua sorte e condizione diventerebbero invisibili al pari di tutte le altre vittime delle guerre e dell’avidità colonizzatrice.
Sul “New York Times” del 18 agosto Anne Barnard ha ottimisticamente scritto che Orman, come già in precedenza Alan, «sta portando nuova attenzione alle migliaia e migliaia di bambini uccisi e feriti nel corso di cinque anni di guerra e l’incapacità o mancanza di volontà di potenze globali per fermare la carneficina».
Magari. Già due giorni dopo l’“effetto commozione” della fotografia è svanito, quello “indignazione” non ha neppure fatto in tempo ad affacciarsi. Le notizie su Aleppo e sulla guerra Siriana tornano a scorrere distrattamente, senza meritare neppure qualche editoriale e approfondimento. Bisogna pur approfittare di questo scampolo di estate. A Capalbio e altrove. I media sono tornati a occuparsi a tempo pieno di Olimpiadi e delle condizioni metereologiche, mentre i cittadini di buona volontà, i volontari e la Caritas di Como – e di tanti altri posti – continuano a fare quel poco che possono per aiutare i migranti respinti dalla Svizzera alla frontiera. Invisibili ai media. Ed è forse meglio così, onde evitare che la stampa alimenti la psicosi e l’allarmismo che hanno portato a Ventimiglia a picchiare e deportare migranti e i pochi e coraggiosi attivisti che li hanno sostenuto. Gli avvoltoi, che non risparmiano neppure il Capo dello Stato che ha osato criticare la politica dei muri e fili spinati, sono pronti a speculare. Come sempre.
Related Articles
Le menzogne del potere e la forza delle nostre idee. Intervista ad Ascanio Celestini
Il Teatro di narrazione e le periferie. Intervista ad Ascanio Celestini
LETTERE DAL FRONTE
La difesa di Kobanê (settembre 2014 – gennaio 2015) è stata condotta da uomini e donne, giovani volontari delle Unità di Autodifesa. Da Global Rights Magazine alcune delle lettere scritte dal fronte durante i mesi di resistenza
Il ritardo italiano nell’istruzione
Intervista a Andrea Cammelli a cura di Roberto Ciccarelli (dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)