by Roberto Ciccarelli, Rapporto Diritti Globali 2014 | 2 Agosto 2016 18:51
Un’intervista al compianto sociologo Luciano Gallino, di Roberto Ciccarelli (dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)
Luciano Gallino, sociologo, successivamente scomparso l’8 novembre 2015, è stato autore di alcuni dei libri più acuminati contro l’austerità: Finanzcapitalismo e Il colpo di Stato delle banche e dei governi (Einaudi) costituiscono un dittico importante, non solo dal punto di vista analitico ma storico, per ricostruire il modo in cui è stata imposta la politica dell’austerity in Europa
Redazione Diritti Globali: Allora si può dire che la crisi è finita?
Luciano Gallino: Per nulla. La Cina è un caso a parte, mentre la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge. L’attuale presidente della FED, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti, la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri. Gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia, ma i risultati sono stati abbastanza modesti. Il piano di riduzione degli stimoli monetari [tapering] è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda. A settembre c’è stato un calo dal 7,3% al 7,2%, ma c’è stato anche un calo dei posti di lavoro rispetto a quelli previsti (148 mila contro 188 mila). Sul mercato del lavoro sono entrate quindi meno persone di quelle stimate. Questo significa che il tasso di disoccupazione è più alto. Oltre 100 milioni di persone vivono in condizioni di povertà, per proteggerle non basta nemmeno il salario minimo che Barack Obama intende aumentare a 10 dollari all’ora. Il salario è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno reddito per le famiglie che hanno dovuto mettere al lavoro tutti, nonni e figli compresi.
RDG: L’ex segretario USA al Tesoro Lawrence Summers parla di «stagnazione secolare». Tutto fa pensare che riguardi anche l’Eurozona.
LG: Per un vecchio neoliberale come Summers è strano sentirlo rispolverare un concetto che ha più di 70 anni. Lui dice che senza stimoli forti dall’esterno, una frustrata, il sistema capitalistico è tendenzialmente propenso alla stagnazione, alla quale oggi contribuiscono molti fattori, dalla globalizzazione alla creazione di nuove tecnologie e alle delocalizzazioni. Ciò ha portato al paradosso per cui gli USA contribuiscono alla crescita della Cina ma non alla propria. La stagnazione caratterizza anche l’Europa e allarga le diseguaglianze in tutti i suoi Paesi. Non si dice mai che in Germania esiste una parte della popolazione che ha inflitto costi umani e sociali elevati alla maggioranza e ne prende grandi vantaggi. In questo meccanismo ha influito negativamente sui bilanci degli altri Paesi il suo eccesso di esportazioni. Siamo nel pieno di una stagnazione che durerà molti anni perché non si vede bene cosa fare per uscirne.
RDG: Ritiene che l’uscita dalla crisi possa avvenire con il rilancio della produzione e dei consumi di massa identici a quelli del «trentennio glorioso», tra il 1945 e 1973?
LG: Lo pensano i governanti e alcuni economisti che hanno sempre in mente il modello che ha provocato la crisi: produrre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumentando la precarietà. Non credo a questa prospettiva. E se mai questo avvenisse sarebbe un vero disastro, perché la crisi non è solo finanziaria o produttiva, è anche evidentemente una crisi ecologica che produce la desertificazione del pianeta, distrugge risorse che hanno impiegato migliaia di anni per accumularsi. Rischiamo inoltre di essere seppelliti dai rifiuti, uno dei problemi provocati dall’esplosione nel 2007 del modello produttivo, come dimostra la Campania, che è un caso esemplare di quanto sta accadendo.
RDG: L’OCSE avverte che la crescita tornerà, ma non produrrà nuova occupazione stabile. Senza considerare che i milioni di posti fissi bruciati nella crisi sono irrecuperabili. Visto che la creazione di occupazione è la premessa per ogni tipo di crescita, come la si può finanziare oggi in Italia e in Europa?
LG: Bisogna ridiscutere i trattati europei e modificare lo statuto della Banca Centrale Europea, innanzitutto. Non si tiene conto abbastanza di quanto la legislazione dei nostri Paesi sia fortemente condizionata da questi trattati. In Italia esistono 300 mila leggi e il calcolo è difficile. In Francia o in Germania, dove ce ne sono 9 o 10 mila, si pensa che l’80 per cento di quelle in vigore siano ispirate dai trattati o dalle direttive. Se non si passa di lì, penso che sia molto difficile fare politiche economiche che non siano quelle sconsiderate fatte negli ultimi tre anni. I governi continueranno a battere i tacchi e a firmare qualsiasi cosa che Bruxelles, la BCE o l’FMI gli propongono.
RDG: Nonostante tutto il presidente della BCE Mario Draghi sollecita i governi a continuare le “riforme” anche nel 2014…
LG: Così facendo non si farà molta strada per affrontare seriamente la crisi. Trovo scandaloso che il Trattato istitutivo dell’Unione Europea e lo Statuto della BCE ignorino quasi del tutto il problema della nostra epoca: la creazione di occupazione. L’articolo 123 del Trattato UE vieta alla BCE di concedere scoperti di conto o qualsiasi forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali. È un divieto unico tra le banche centrali esistenti sul pianeta, un’altra assurdità del Trattato. È difficile modificarlo a causa della contrarietà dei tedeschi che attaccano Draghi. È curioso però notare che questo stesso articolo non vieta alla BCE l’acquisto dei titoli sul mercato secondario. Cosa che la BCE ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acquistò 218 miliardi di titoli di Stato, di cui 103 italiani. Se lo si volesse usare, la BCE potrebbe prestare miliardi di euro in cambio dell’impegno di un piano industriale che preveda l’assunzione netta di nuova manodopera.
RDG: Che cosa ha fatto Draghi per la crescita?
LG: Ha prestato mille miliardi alle banche senza porre condizioni. Si è reso ridicolo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le banche. In realtà questi soldi sono stati usati per scambi bancari o per acquistare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in questo caso senza porre condizioni. Senza risorse, le politiche contro la disoccupazione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli europei, sono pannicelli caldi rispetto ai 26 milioni di disoccupati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa.
RDG: Molti economisti, come la Banca Mondiale, ritengono che il PIL non sia più l’unico indicatore per misurare la crescita. E propongono altri indicatori per misurare il tasso di sviluppo umano. Come renderli vincolanti?
LG: Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica. In questa fase mancano le premesse politiche per realizzarla. I discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, sono di un’ottusità incomparabile. Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro. La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero.
RDG: La green economy, o crescita verde, come la definisce l’OCSE, rappresenta un’alternativa a quello che lei definisce il «totalitarismo neoliberale»?
LG: Il cambiamento di paradigma produttivo si misura anche a partire dalla necessità di rompere la subordinazione al calcolo economico di qualsiasi azione, quella che Michel Foucault definiva la «ratio» del neoliberalismo. In questa chiave, queste idee potrebbero aprire nuovi settori di intervento caratterizzati da un’alta intensità di lavoro. Questo non significa creare piantagioni di cotone dove la macchina fa il lavoro di cento braccianti. Bisogna pensare a settori dove il lavoro umano è molto attrezzato. La ricerca bioalimentare, al di là dei famigerati OGM, è sicuramente una di questi. C’è la ricerca medica, i beni culturali. Invece di produrre beni di sostituzione di tipo tradizionale, o gadget come i cellulari, bisogna pensare all’ambiente, alla scuola, ai servizi pubblici nel senso ampio del termine, alla riqualificazione idrogeologica dei nostri territori.
RDG: Il caso dell’ILVA dimostra la difficoltà di conciliare l’esigenza dell’occupazione con un modello produttivo compatibile con l’ambiente e la salute. Come governare quella che si definisce una transizione?
LG: Il caso dell’ILVA è indicativo di quello che non bisogna fare. Ho studiato a lungo questi stabilimenti a Taranto. Quando furono costruiti rappresentarono un grande successo industriale, ma dovevano essere riconvertiti almeno vent’anni fa, quando la produzione siderurgica è radicalmente cambiata. Bisognava concordare con la proprietà una transizione, abbattere l’inquinamento, mettere in grado la produzione di far fronte a esigenze industriali sempre più complesse. Lo hanno fatto in Germania, in Giappone e negli Stati Uniti, tranne che a Taranto. L’acciaio in sé non vuol dire nulla, ha mille caratteristiche diverse a seconda della destinazione dei suoi prodotti. E ci vogliono stabilimenti più piccoli. In questo modo è anche possibile aumentare l’occupazione.
RDG: Uscire dall’euro è una risposta adeguata per contrastare le politiche di austerità?
LG: Queste politiche sono un suicidio programmato, ben venga qualunque intervento per alleviarne le conseguenze. L’euro è un problema, ma non bisogna farla troppo facile. È nato con gravi difetti e resta una moneta straniera. È una cosa da pazzi, non succede in nessun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiuterebbe molto, ma uscire dall’euro è un’idea insensata. Il marco sarebbe rivalutato del 40%, milioni di contratti tra enti privati e pubblici dovrebbero essere ridiscussi. Ci vorrebbero 20 anni per farlo, entreremmo in una spirale drammatica. Credo che oggi ci siano altre urgenze in Italia e in Europa.
RDG: A suo avviso, quello in corso in Italia, e in Europa, sarebbe un colpo di Stato. In cosa consiste?
LG: Si può parlare di colpo di Stato quando una parte dello Stato stesso si attribuisce poteri che non gli spettano per svuotare il processo democratico. Oggi decisioni di fondamentale importanza vengono prese da gruppi ristretti: il direttorio composto dalla Commissione UE, la BCE, l’FMI. I Parlamenti sono svuotati e hanno delegato le decisioni ai governi. I governi li hanno passati al direttorio. Se questa non è la fine della democrazia, è certamente una ferita grave. Pensiamo al patto fiscale, un enorme impegno economico e sociale con una valenza politica rilevantissima di cui nessuno praticamente ha discusso. I Parlamenti hanno sbattuto i tacchi e hanno votato alla cieca perché ce lo chiedeva l’Europa. Non esistono alternative, ci è stato detto. Questa espressione è un corollario del colpo di Stato in atto.
RDG: Quanto è realistica l’intenzione di ammorbidire l’austerità?
LG: Non lo è, un po’ di pioggerella su un grande pascolo non fa crescere i baobab o le sequoie. Gli alberi bisogna piantarli, non innaffiare il prato aspettando che dopo tre o quattro decenni crescano da soli.
RDG: Uno degli effetti del colpo di Stato è stato l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione italiana?
LG: È avvenuto in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea dopo la decisione del Consiglio Europeo sotto la spinta del direttorio. Bisogna assolutamente rientrare dal debito in 20 anni, riportandolo al 60%. Questo valore è inventato. Poteva essere il 50% o il 70%. Il dogma poi è diventato sacro. Questa decisione impone all’Italia di trovare 50 miliardi di euro ogni anno, per i prossimi venti. Significa l’impossibilità assoluta di farvi fronte. Qualora fosse realizzato questo piano sarà imposta una miseria rispetto alla quale quella della guerra del 1940-45 sarà poca cosa. Questa decisione doveva essere discussa, sottoposta a un referendum, per rendere edotti i cittadini di cosa significava.
RDG: A cosa è ispirato il progetto politico di chi dirige questo colpo di Stato?
LG: La maggior parte dei nostri governanti ha assorbito l’ideologia neoliberale per cui i cittadini non devono pronunciarsi, perché danno fastidio, si mettono a discutere di cose che non capiscono, intervengono su decisioni che riguardano la loro vita, ma se si prendono alla spiccia è meglio, senza interferenze. La democrazia è un intralcio quando si devono prendere decisioni economiche e finanziarie in modo veloce. Angela Merkel al suo Parlamento ha detto che viviamo in un sistema democratico e quindi è corretto che il Parlamento esamini le leggi a condizioni che si arrivi a decisioni conformi al mercato. La direttrice dell’FMI Christine Lagarde sostiene la stessa cosa. Quello che queste due signore auspicano è già avvenuto. I Parlamenti non decidono nulla.
RDG: Quello che tratteggia sembra un moloch politico-finanziario praticamente inattaccabile. In che modo si può costruire un potere alternativo?
LG: Me lo chiedono sempre, ma le alternative ci sono e gli dedico 35 pagine de Il colpo di Stato di banche e governo. La riforma essenziale è quella del sistema finanziario per affrontare la possibilità di una nuova crisi che può esplodere nel giro di pochi anni. Questo sistema è lontanissimo dalle esigenze delle economie reali e dalla produzione di beni utili per la comunità. In Europa si discute di questo dal 2008 senza combinare nulla, salvo pubblicare numerosi rapporti o studi. La riforma dell’architettura finanziaria della UE è fondamentale, come anche l’intervento sui trattati europei. Siamo arrivati al paradosso che si possono cambiare le Costituzioni in due ore, mentre il trattato di Maastricht viene ritenuto immodificabile. Questo trattato ha limiti gravissimi, assomiglia allo statuto di una corporation, mentre sarebbe molto bello che la piena occupazione comparisse non una sola volta come oggi, ma come il suo scopo centrale. Bisogna inoltre modificare lo Statuto della BCE. Davanti a 26 milioni di disoccupati e 126 milioni a rischio di povertà persegue la stabilità dei prezzi, mentre dovrebbe regolare il credito e l’attività finanziaria, prestare a enti pubblici a cominciare dagli Stati. Una facoltà che hanno tutte le banche centrali, tranne la BCE.
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