Agire conflitto per cambiare un sistema sempre più insostenibile

Agire conflitto per cambiare un sistema sempre più insostenibile

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Intervista a Maxime Combes a cura di Monica Di Sisto e Alberto Zoratti (dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)

Transizione ecologica e sociale, opposizione alle grandi opere, lotta al cambiamento climatico. Temi di carattere globale, che trovano però radici nella capacità di mobilitazione dei cittadini e delle cittadine, in un nuovo protagonismo dei territori davanti al modello economico dominante, causa di una crisi senza precedenti.

La lotta per la ripubblicizzazione dell’acqua a Parigi, contro le grandi opere, il bando alle estrazioni di gas di scisto da parte del Parlamento francese sono alcune delle esperienze d’oltralpe più significative, che vengono qui riepilogate dall’economista Maxime Combes, menbro dell’Association Internationale de Techniciens, Experts et Chercheurs (AITEC) e di Attac France. La prossima sfida è il TTIP, Transatlantic Trade and Investiment Agreement, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, che potrebbe diventare l’ulteriore ostacolo sulla strada verso una vera transizione ecologica e sociale.

 

Redazione sui Diritti Globali: In che modo i movimenti ecologisti e ambientalisti sono cambiati negli ultimi anni e come questi cambiamenti hanno influenzato la loro capacità di incidere sulle politiche in Francia?

Maxime Combes: È sempre molto difficile fare una storia del presente e non semplice identificare le tendenze più recenti. Sebbene possa rischiare di essere un po’ caricaturale, mi sembra che siano in ballo due tendenze. La prima ci permette di notare che l’ecologia ha preso sempre più campo a livello politico e istituzionale, guidando alcune azioni sia amministrative che politiche specialmente a livello locale, dove l’attenzione sui temi ambientali è aumentata rispetto a venti anni fa. Questo facilita l’implementazione di politiche più attente all’ambiente a livello territoriale e di esperienze alternative, anche se in modo assolutamente insufficiente e senza la prospettiva di un vero cambio di sistema.

Aldilà dell’istituzionalizzazione dell’ecologia, stanno comunque emergendo nuovi conflitti ambientali. E questa è la seconda tendenza.

Marsitella Svampa, filosofa e saggista, parla di convergenza tra visione ambientalista e approccio comunitario (lo chiama «giro ecoterritorial») per caratterizzare le lotte contro le miniere e contro i progetti infrastrutturali in America Latina: sono lotte radicate in un territorio e possono essere definiti conflitti ambientali nel senso che hanno l’obiettivo di proteggere aree dove ci sono comunità che si oppongono alla devastazione ambientale.

Se la situazione è, ovviamente, differente in Europa, credo che possiamo usare gli stessi concetti utilizzati da Marinella Svampa per caratterizzare le nuove lotte contro gli idrocarburi non convenzionali e i progetti minerari, contro i nuovi aeroporti e più generalmente contro tutte le grandi opere inutili e non necessarie. Dovremmo aggiungere tutte le esperienze alternative che si stanno sviluppando dal basso (come le città in transizione, la rilocalizzazione delle produzioni, le esperienze di sovranità alimentare, l’occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori). Sono lotte che hanno avuto buoni risultati anche in Francia, basterebbe dare un’occhiata al blocco della costruzione dell’aeroporto di Notre-Dame des Landes e la legge che mette al bando il fracking.

In ogni caso, se a volte si vince in queste situazioni, e naturalmente con vittorie parziali e non definitive, ci sono molti progetti locali devastanti per l’ambiente e per le persone e dunque abbiamo ancora molto da fare. Abbiamo ancora bisogno di connettere queste lotte locali all’interno di un’agenda e di una strategia molto chiare di «cambiamento del sistema», mettendo energia per coinvolgere tutte quelle persone e quei gruppi locali che giorno dopo giorno inventano e sperimentano l’altro mondo per cui stanno lottando.

 

RDG: Parigi è la prima Capitale europea che ha ripubblicizzato il servizio idrico: possiamo dire che è un processo compiuto e qual è stato il ruolo del movimento in questa lotta ?

MC: In Francia Parigi ha deciso di ritornare alla gestione pubblica dei servizi idrici dopo 25 anni di gestione lasciata a due grandi aziende private. Dal 1° gennaio 2010, l’intero servizio idrico di Parigi, dalle condotte al rubinetto, è gestito di un unico operatore pubblico e municipale: Eau de Paris. Questa ripubblicizzazione non fu semplice in un Paese che ha dato i natali a importanti compagnie idriche transnazionali e dove le autorità locali avevano demandato la gestione dei servizi idrici al settore privato.

Gli oppositori e gli scettici erano molti e molto attivi nel tentativo di fermare il processo. La ripubblicizzazione si rese possibile grazie alla determinazione del movimento per l’acqua e al coinvolgimento di alcuni politici, ma anche alla capacità di una parte dell’amministrazione e dei dipendenti di essere pienamente coiinvolti nel progetto.

Se Parigi fosse stata la prima comunità ad essersi imbarcata in questa avventura non si sarebbe potuta applicare nessuna ricetta universale. Gli stessi promotori della ripubblicizzazione riconoscono che si dovevano portare avanti sperimentazioni e innovazioni e che non è stato tutto perfetto.

Ma oggi possiamo dire che la transizione è stata un successo e che Parigi è un esempio e un simbolo sia in Francia che all’estero. È stato sia un processo politico che tecnico, e ha richiesto molti anni. Se il movimento dell’acqua ha giocato un ruolo importante e ha reso possibile l’esperienza di Parigi, soprattutto nel dimostrare che c’erano alternative possibile, questo è stato grazie alla combinazione tra movimento e politici e amministrazione pubblica.

Parigi è un’icona dell’attuale onda mondiale sulla ripubblicizzazione. Europa, Sud America, Asia, Africa: da Berlino a Buenos Aires, le municipalità si riappropriano della distribuzione dell’acqua. Il processo di privatizzazione dell’acqua, risorsa vitale e bene comune per eccellenza, è stato parzialmente fermato. Principalmente perchè il movimento dell’acqua che è nato negli ultimi anni ha cambiato la situazione.

 

RDG: In Francia siete anche riusciti a mettere il bando al fracking: come siete riusciti a raggiungere un tale risultato ?

MC: Onestamente non penso che nessuno avesse pianificato o considerato una tale mobilitazione dei cittadini con un tale risultato. Nell’autunno del 2010 pochissime persone in Francia erano consapevoli di qualcosa che si chiamasse “la rivoluzione del gas di scisto”. Poco più di un anno dopo, pochi francesi potevano dire di non averne mai sentito parlare. Nello stesso tempo, nel luglio del 2011, la Francia è diventata il primo Paese nel mondo a mettere al bando al fracking, la pericolosa tecnica estrattiva utilizzata per estrarre gas e petrolio dalle rocce scistose. Fino alla manifestazione con più di 15 mila persone a Villeneuve de Berg nel febbraio del 2011, che è apparso come il primo segnale della resistenza che stava crescendo. Una mobilitazione che consisteva principalmente nella formazione di piccoli gruppi di cittadini che organizzavano incontri pubblici e distribuivano materiali informativi. Poco dopo, gli incontri nei Comuni delle comunità impattate furono inondati di persone e spesso c’erano più partecipanti in questi incontri che abitanti nei villaggi. Concesse senza alcun dibattito pubblico e nessuna reale analisi di impatto ambientale sugli effetti delle tecniche utilizzate, le licenze di estrazione avevano preoccupato le comunità locali aldilà del mondo ambientalista: cacciatori, pescatori, lavoratori delle cave e cittadini comuni erano parte di questa fase di mobilitazione.

Come ovunque, le immagini potenti e sincere del documentario Gasland di Josh Fox hanno stimolato reazioni emotive profonde e il desiderio che il fracking e l’estrazione di gas di scisto non dovesse avvenire sui territori.

I dati tecnici, economici e geologici del dibattito sono stati diffusi ampiamente e la consapevolezza è cresciuta a velocità incredibile. Oggi molti attivisti sono diventati esperti di tecnologie estrattive, nonostante la mancanza di ogni retroterra o formazione in tali aree.

Le alleanze molto ampie che all’inizio si sono costruite in Francia hanno forzato molti politici di tutti gli schieramenti a prendere posizione contro il fracking sia a livello locale che nazionale, senza aspettare istruzioni o decisioni dai loro vari quartier generali parigini. L’establishment parigino, sia governativo che economico, fu sorpreso e sovradeterminato dal movimento di cittadini. Furono incapaci di prevedere il movimento nascente e le sue richieste. Quaando i ministri cominciarono a chiedere una pausa o una moratoria sui permessi, i gruppi locali, riuniti nel loro coordinamento nazionale, stavano già domandando la cancellazione di tutti i permessi esistenti. Alla fine, i membri del Parlamento, presi alla sprovvista da un dibattito che non avevano visto arrivare e che non erano in grado di gestire, hanno finito per presentare una legge in Parlamento per bandire il fracking e calmare la rivolta cittadina a pochi mesi dalle elezioni locali. Sebbene il fracking sia stato bandito, la legge lascia aperta la possibilità per sperimentazioni sotto l’egida della ricerca scientifica e del miglioramento delle conoscenze, e molti permessi sono ancora disponibili. La mobilitazione dei cittadini sta andando avanti, organizzando una sorta di guerriglia giuridica e locale contro ogni permesso rimasto. Molti gruppi locali ora stanno lavorando sulle energie alternative, per non rimanere sul semplice “No”.

 

RDG: Bruxelles si è fortemente opposta a tutte le politiche e alle visioni che contestano le privatizzazioni che l’Unione Europea sta spingendo a ogni livello: quale lezione l’Unione potrebbe imparare dalla Francia, sull’importanza di forti politiche pubbliche ?

MC: Considerato ciò che sta accadendo in Francia da molto tempo, compresi i due anni di governo di François Hollande, non penso che ci sia molto che possa servire come buon esempio per il resto dell’Europa. Al contrario, François Hollande sta facendo cose che non dovrebbe fare: rafforzare le politiche di austerità, posporre ogni transizione ecologica, nessuna riforma del sistema bancario, rifiutare una vera tassa sulle transazioni finanziarie. La lezione che dovremmo imparare è la necessità di rafforzare le nostre mobilitazioni e le nostre alternative per essere in grado di ribaltare le attuali tendenze generali. Stiamo affrontando una sfida enorme, che richiede la nostra completa determinazione. E la nostra intera immaginazione, sommata alla capacità di indignarci e alla volontà di cambiare le cose in profondità. Se siamo veramente il 99%, dobbiamo convincere il 98% ad attivarsi per fermare l’agenda reazionaria dell’1%, dell’oligarchia.

 

RDG: Il TTIP è uno dei più chiari tentativi di imporre questo approccio attraverso il commercio a un livello politico più generale. Come vi state opponendo a questa volontà e, secondo te, quali sono i rischi ambientali per il TTIP ?

MC: In prima istanza, il TTIP è il nuovo avatar delle politiche commerciali e di investimento che sono state implementate per molti anni, sia attraverso la WTO che con la proliferazione di accordi bilaterali. Se il TTIP ha avuto un’importanza crescente nel dibattito pubblico, non dovremmo dimenticare gli altri accordi che l’Unione Europea sta negoziando (col Canada, i Paesi del Nord Africa) o che ha recentemente concluso (con la Colombia e il Perú). Stiamo lottando contro il TTIP per le politiche di libero commercio e di investimento portate avanti per anni dall’UE che continua a dare sempre più potere alle multinazionali riducendo le opportunità di migliorare le regolamentazioni sociali e ambiental, che sono necessarie per affrontare l’attuale crisi, che ha molte dimensioni, e bloccando ogni possibilità di mettere in atto politiche di trasformazione sociale ed ecologica.

Prendiamo il caso dell’energia. L’UE usa i negoziati transatlantici come il TTIP o il CETA [con il Canada, ndr] per cercare di eliminare tutte le restrizioni sui combustibili fossili importati dagli USA o dal Canada. Questo obiettivo è già stato menzionato nel testo del mandato che, sebbene segreto, fu reso pubblico dai movimenti sociali nel luglio 2013. Ed è stato confermato dal Commissario europeo Karel de Gucht, secondo il quale gli accordi futuri dovrebbero «permettere alle compagnie europee di importare risorse energetiche e materie prime dagli Stati Uniti». Piuttosto che incoraggiare l’efficienza energetica e la riduzione del consumo di energia, la Commissine Europea sta cercando con tutti i mezzi di rendere sicure le fonti energetiche per l’Unione Europea, anche se la capacità di esportazione degli Stati Uniti sta aumentando a causa del devastante sfruttamento degli idrocarburi da rocce scistose.

Naturalmente, le lobbies del gas e del petrolio statunitensi ed europee che vorrebbero esportare il gas naturale liquefatto sono alleate dei negoziatori europei. Al Congresso degli Stati Uniti, il Trade Representative Michael Froman ha chiarito che difenderà «il punto di vista dei raffinatori statunitensi», sottolineando che avrebbe rimosso tutte le restrizioni sull’esportazione di idrocarburi in Europa. I regimi di libero commercio e di investimento stanno contribuendo a dare ai diritti delle imprese una più alta priorità rispetto alle regolamentazioni sociali e ambientali. Aumentando i diritti degli investitori, il libero commercio e le politiche di investimento, si indeboliscono in modo sostanziale gli standard ambientali e si disarticolano le politiche di transizione energetica, indebolendo gli obiettivi delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Attraverso i negoziati USA-UE, si promuove e si consolida un modello energetico altamente dipendente dai combustibili fossili e quindi insostenibile.



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