by Paolo Berdini *, il manifesto | 28 Agosto 2016 9:33
Sono passati quaranta anni dal terremoto del Friuli e di nuovo passano sugli schermi sequestrati dai talk-show i volti dell’Italia vera, di coloro che faticano ogni giorno per costruirsi una prospettiva di vita. Anche stavolta siamo in un’area interna popolata da quei mestieri che la retorica imperante ci dice che non esistono più o sono marginali.
E marginali lo sono sicuramente le persone che manifestano con dignità il loro dolore, come marginali geograficamente sono i luoghi meravigliosi colpiti dal sisma.
Ma le analogie finiscono qui. Se guardiamo alla storia breve dei quaranta anni cogliamo il vuoto di prospettive che sta minando il paese intero.
Il racconto vincente del 1976 ci diceva che quei volti antichi dei friulani erano le ultime cartoline di un’Italia che cresceva a vista d’occhio: dopo i decenni della grande crescita delle città, sarebbe toccato alle aree interne. E il Friuli – terra di passaggio – sembrò confermare il racconto. Dopo una ricostruzione tanto esemplare quanto partecipata, fu creata una struttura produttiva che ha funzionato per qualche decennio e ha oggi l’affanno di ogni altro distretto produttivo. Ed eccolo il paesaggio dell’abbandono: capannoni sbarrati aiutati solo dalla vorace presenza di ipermercati che ancora luccicano anche se hanno fatto spegnere la luce del piccolo commercio urbano.
Negli anni ’70 anche nell’Appennino attraversato dalla via Salaria iniziarono i lavori di un nuovo tracciato che favorisse lo «sviluppo». Quello antico passava nei circa cento chilometri che separano Rieti da Ascoli attraverso molti centri urbani meravigliosi come Cittaducale e Cittareale di fondazione angioina. Si passava dentro Arquata con i suoi tesori nascosti nella parrocchiale. Si lambiva Amatrice, con lo straordinario impianto disegnato da Cola e le sue meravigliose pietre arenarie.
Sono luoghi per me familiari, per i continui viaggi per raggiungere i luoghi d’origine a nord del Monte Vettore, ma in tanti anni la variante Salaria è lontana dall’essere completata e questo colpevole ritardo ha avuto grande responsabilità nell’inarrestabile declino demografico.
L’industrializzazione in crisi del Friuli e la mancanza dei requisiti minimi infrastrutturali per sostenere il progresso sono le due facce speculari del vicolo cieco in cui oggi siamo.
Si è ascoltata in questi giorni di dolore echeggiare una vuota retorica del «non vi lasceremo soli». Le popolazioni di quella parte di Appennino conoscono la solitudine per una strada che ancora non c’è. Conoscono la solitudine perché le imprese agricole che a fatica si sono affermate non hanno alle spalle alcuna politica di settore in grado di aiutarle e sostenerle. Addirittura con il governo del professor Monti si impose il pagamento dell’Imu sulle stalle, così da provocare la chiusura di molte di esse. Ancora, mancano reti locali di commercializzazione dei prodotti e altre indispensabili politiche.
Sul piano ambientale l’abbandono è ancora più forte.
Il tratto della Valle del Tronto colpito dal sisma sta in mezzo a due parchi nazionali, quello dei Sibillini e del Gran Sasso. Decine di anni di commissariamenti, tagli di risorse e prerogative, di limitazione di prospettive. Altre nazioni e regioni a statuto speciale continuano invece ad alimentarli ottenendo preziosi flussi turistici.
E arriviamo ai borghi, unica rete vitale che può salvare quelle montagne dall’abbandono. I sindaci di quei luoghi conoscono la solitudine quotidiana perché non hanno risorse da destinare ai servizi, quando devono chiudere scuole per ubbidire a leggi scellerate, quando vedono sparire i presidi dello stato come il Corpo Forestale.
Diamo atto al ministro Del Rio della volontà espressa di abbandonare il modello aquilano e di ricostruire «com’era, dov’era». Ma è solo il primo indispensabile tassello di un disegno che ancora non si vede.
Il tragico terremoto di Accumoli ci ha svelato un paese squilibrato e privo di durature prospettive per il futuro. Il terremoto del Friuli servì a costruire una profonda cultura della protezione, degli interventi di emergenza e delle tecniche di ricostruzione.
Quello della Valle del Tronto deve servire per avviare l’unica grande opera di cui abbiamo bisogno: la cura del territorio, la messa in sicurezza del patrimonio edilizio a iniziare dagli immobili scolastici e pubblici, il sostegno alle produzioni agricole e alla filiera industriale a esse collegata.
Insomma, questo piccolo lembo di terra marginale così crudelmente colpito potrà avere la possibilità, se la politica saprà fare il suo dovere, di indicare una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile.
* L’autore è assessore del comune di Roma
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