La guerra per Rojava
La storia si ripete ma questa volta la preda è ben altra: Gaziantep come Suruç, due massacri trasfigurati in surreale giustificazione per operazioni contro la kurda Rojava. Un anno fa, il 20 luglio 2015, l’uccisione per mano di un kamikaze dell’Isis di 30 giovani turchi in partenza per Kobane aprì alla rinnovata campagna militare contro il Pkk.
Oggi è la carneficina di Gaziantep (54 morti sabato notte in un attentato suicida durante un matrimonio kurdo) ad armare Ankara, stavolta per prendersi una città siriana, Jarabulus. La comunità è diventata in poche ore il nuovo e più concreto fronte di guerra: a soli 33 km a nord di Manbij (recentemente liberata dai kurdi dopo due anni e mezzo di occupazione islamista), riva ovest del Fiume Eufrate e porta d’accesso alla strategica provincia di al-Bab, è via di transito di armi e miliziani islamisti dalla Turchia alla Siria ma anche punto di collegamento dell’auspicata autonomia kurda nel nord della Siria.
In risposta a due missili lanciati contro il sud della Turchia, Ankara ha colpito tra lunedì notte e ieri mattina postazioni dell’Isis nella città occupata. Poi ha ampliato il raggio di azione, centrando postazioni kurde vicino Manbij. Non solo: secondo l’agenzia kurda AnfEnglish, i servizi segreti turchi sarebbero i responsabili della morte del generale kurdo al-Cadiri, comandante del neonato consiglio militare di Jarabulus, ucciso poche ore dopo averne annunciato la creazione come risposta alla pianificata controffensiva dei “ribelli” legati ad Ankara.
Lunedì unità dell’Esercito Libero Siriano e il gruppo salafita Ahrar al-Sham, notoriamente sostenuti dalla Turchia, hanno infatti lanciato un’operazione per la ripresa della città. In fretta e furia, prima che le Ypg kurde – dopo la ripresa della vicina Manbij – si avvicinino alla comunità considerata da Ankara linea rossa invalicabile perché garantirebbe loro il controllo totale del corridoio nord: per questo lo scopo non è frenare l’Isis, ma impedire l’unità e l’autonomia della regione kurda.
Un nuovo fronte di guerra è vicino: le autorità turche hanno imposto ai residenti di Karkamis, città turca che alla frontiera si specchia con la siriana Jarabulus, di evacuare e predisposto autobus per portarli fuori dalla città.
Si riuniva nel frattempo, per la seconda volta dal tentato golpe del 15 luglio, il Consiglio Supremo Militare che ha mandato in pensione altri 584 colonnelli e deciso di utilizzare per l’aviazione militare i piloti civili della Turkish Airlines: la vasta campagna di purghe contro l’esercito gli ha tagliato sia la testa che le braccia, costringendo le forze armate a presentarsi indebolite all’appuntamento contro Rojava.
Così per centrare l’obiettivo Jarabulus 1.500 miliziani siriani (secondo un funzionario appartenenti all’Esercito Libero) si sono riuniti a Gaziantep per prepararsi alla controffensiva, mentre carri armati e mezzi blindati sono stati dispiegati in ingente quantità a Karkamis. È intervenuto anche il ministro degli Esteri Cavusoglu: «Forniremo ogni tipo di sostegno all’operazione di Jarabulus», ha detto, quasi a far credere che l’idea di attaccare l’Isis sia frutto della volontà dei “ribelli” e non una strategica iniziativa turca.
Dopotutto non c’è memoria di concrete offensive delle opposizioni siriane nei confronti dello Stato Islamico, né tanto meno di operazioni della Turchia, ora improvvisamente preoccupata dalla presenza islamista.
E mentre il governo di Damasco raggiungeva con le Ypg il cessate il fuoco ad Hasakah dopo sei giorni di scontri, è dall’Iran che giungono rapporti volti a preparare il terreno contro l’autonomia kurda: secondo l’agenzia di Stato Fars, il Pkk e il suo braccio siriano collaborano con l’ex al-Nusra in chiave anti-governativa. Uno scenario campato in aria ma che serve a Teheran per posizionarsi sulla linea del fronte anti-kurdo.
Le azioni militari di Ankara sono intanto accompagnate dalle dichiarazioni del premier Yildirim che ieri ha ribadito che la Turchia «non ha idea» di chi stia dietro l’attacco di Gaziantep: «Le prime informazioni e il nome dell’organizzazione [lo Stato Islamico, ndr] sfortunatamente non erano giuste».
Una strategia efficace che innalza a livelli esponenziali la confusione dell’opinione pubblica e di conseguenza la paura, regalando al governo mano libera nella reazione. Come spiegava bene ieri in un editoriale il New York Times, una figura divisiva come Erdogan ha trovato la ricetta per l’unità nazionale: il mix di paura per l’instabilità, laico timore per i movimenti islamisti e terrore di essere accusati di complicità ha fatto salire al 68% il livello di gradimento del presidente dal 47% pre-golpe.
Avere tanti nemici rafforza i piani del presidente Erdogan: c’è l’Isis che fa comodo per garantirsi appoggio internazionale; c’è la sempreverde minaccia del Pkk, assurdamente tirato in ballo nei giorni scorsi proprio per l’attentato di Gaziantep; e ci sono Gülen e il suo cosiddetto “Stato parallelo”, considerati mente e braccia del tentato golpe.
Proprio ieri si è aperta nel paese la visita dei diplomatici ed esperti statunitensi chiamati ad analizzare insieme alla controparte turca la richiesta di estradizione dell’imam, ex alleato del presidente Erdogan e oggi suo acerrimo nemico. Tre funzionari del Dipartimento di Giustizia e uno del Dipartimento di Stato Usa raccoglieranno le informazioni che secondo Ankara potranno dimostrare la natura terroristica del movimento Hizmet di Gülen e il suo coinvolgimento nel tentativo di putsh.
Da tempo la Turchia preme sull’alleato perché gli consegni l’imam, da anni in auto-esilio in Pennsylvania. Ieri in serata Washington ha fatto sapere di aver ricevuto formale richiesta di estradizione ma che questa non è collegata al fallito colpo di Stato.
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