by Susanna Ronconi, Rapporto sui Diritti Globali 2012 | 19 Agosto 2016 12:04
(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)
Dentro la crisi, la questione del welfare – dalla sanità che rischia di aprire le porte a una privatizzazione tutta profit, al sociale, dove i diritti sono sempre stati più fragili e ora diventano inesigibili – si profila come questione di modello di sviluppo: o ci si orienta decisamente a vederlo come risorsa, investimento, di coesione sociale, qualità, occupazione, oppure è destinato a una mera residualità, con connessi alti prezzi sociali da pagare. Su questo piano, lo scontro sociale è ripreso, dopo la breve stagione dell’illusione attorno al governo dei tecnici. Dall’universalismo sempre più selettivo all’assenza di politiche di genere, dai limiti delle proposte governative per il sostegno al lavoro e al reddito dei giovani, al crescente peso della sanità sulle tasche dei cittadini, si moltiplicano i fronti di conflitto, resistenza, opposizione e, al contempo, l’elaborazione di controproposte per un diverso modello sociale e per una diversa uscita dalla crisi. Di questo scenario parla Vera Lamonica, segretaria nazionale CGIL con delega a Politiche dell’assistenza, della previdenza e della salute, Politiche giovanili, Immigrazione, Nuovi diritti, Promozione della contrattazione sociale e territoriale, Sport e tempo libero, Terzo settore e volontariato.
Redazione Diritti Globali: Il Servizio Sanitario Nazionale in Italia – uno dei migliori, a giudicare dalle graduatorie internazionali – ha fino a oggi garantito accesso e qualità; tra luci e ombre, per esempio con problemi di razionalizzazione e appropriatezza, su cui tanto la CGIL è intervenuta, ma nel complesso con risultati positivi. L’eredità del governo Berlusconi è pesante: nel 2010 ai quattro miliardi di tagli imposti al Patto per la Salute per il triennio 2010-2012, si sono aggiunti otto miliardi di tagli lineari e nuovi pesanti ticket. I tagli lineari, come avete osservato, mettono a rischio di disavanzo le Regioni virtuose e i Piani di rientro di quelle che hanno sforato, cosa che non accadrebbe qualora alla logica dei tagli si privilegiasse quella della riqualificazione della spesa. Non solo, ma le tasche degli italiani che il centrodestra ha sempre dichiarato di rispettare sono destinate invece a subire un prelievo massiccio, se è vero che la manovra del governo Berlusconi prevede che per il 2014 il 40% dei risparmi imposti alle Regioni provenga proprio da nuovi ticket. Il governo Monti, la cui politica è tutta centrata sul ridimensionamento della spesa pubblica e sul fare cassa, non pare dare segni di significativa discontinuità. Cosa ne pensa? Oppure si sono aperte possibilità di nuova negoziazione e qualche spiraglio verso la maggior tutela del SSN?
Vera Lamonica: È vero che il Servizio Sanitario italiano ha espresso negli anni una delle migliori forme di tutela al mondo e anche qualità diffusa e vere e proprie eccellenze. È altrettanto vero che da alcuni anni è sottoposto a un processo di definanziamento e che, a partire dal 2010, sta scontando tagli pesantissimi destinati, con gli otto miliardi ulteriormente programmati, a incidere in maniera molto rilevante sulla stessa struttura del sistema fino a metterne seriamente a rischio la tenuta complessiva. Bisogna calcolare infatti che, oltre ai tagli diretti, incidono profondamente le misure che hanno interessato tutto il mondo del lavoro pubblico a partire dal blocco del turn-over e dei contratti, dall’espulsione dei precari, dal ridimensionamento degli investimenti fino alle ricadute sul settore della minore spesa cui sono costrette Regioni ed enti locali, ad esempio sui servizi socioassistenziali, che scaricano ovviamente i problemi delle persone con particolare fragilità sul solo servizio sanitario. Peraltro noi abbiamo, come è noto, un sistema a più velocità e metà delle Regioni sottoposte a piano di rientro. Per queste ultime l’esito dei tagli, se rimangono così le cose, sarà quello di non assicurare più i livelli essenziali di assistenza, cosa che in parte già comincia ad accadere. Per tutte le altre, a eccezione forse di due o tre, significa programmare il disavanzo e quindi incidere profondamente sui livelli di qualità e di copertura dei bisogni.
Nell’attuale condizione economica e politica del Paese rischia di prevalere l’idea che tutto sommato un ridimensionamento dell’impegno pubblico può essere accettato. Se così fosse, significherebbe far partire una slavina che in poco tempo cambierebbe i connotati del nostro sistema di welfare, riducendo il complesso delle tutele e aprendo la via a forme di privatizzazione e di corporativizzazione destinate ad approfondire le diseguaglianze sociali e territoriali che già caratterizzano così tanto il nostro Paese. Per questo chiediamo insistentemente al nuovo governo di cambiare strada, innanzitutto invertendo il paradigma che ha finora governato le politiche pubbliche e che vede nella spesa sociale esclusivamente un costo, e quindi un lusso che non ci si può più permettere. Insieme ai più avanzati centri di ricerca del mondo noi pensiamo esattamente il contrario: la spesa sociale, e particolarmente quella in sanità, è un investimento che produce crescita, non solo perché determina coesione, e quindi capitale sociale, ma proprio perché ha effetti positivi sullo sviluppo. È stato calcolato che ogni euro investito in sanità, e quindi in tecnologie, infrastrutture, ricerca, eccetera, determina un ritorno di una volta e mezza.
Poi è necessario salvaguardare i caratteri di universalismo del nostro sistema e questo lo si fa garantendo caratteri di alta qualità e forme di compartecipazione alla spesa degli utenti che non rendano più conveniente rivolgersi al privato che è invece quanto sta avvenendo con la scelta del superticket che produce un danno al servizio pubblico proprio perché rende maggiormente competitivo ad esempio tutto il settore della diagnostica privata. Naturalmente lo stesso effetto può essere prodotto da una contrazione dei livelli di qualità come si è già avuto modo di sperimentare in molte aree del Sud, o nel Lazio, dove l’inefficienza non a caso convive, dinamiche affaristiche a parte, con incidenza molto alta di strutture private.
L’occasione per il nuovo governo è data dal rinnovo del Patto per la Salute che dovrà essere effettuato tra governo e Regioni. Il ministro ha fatto dichiarazioni positive che ora dovranno tradursi in realtà. La sfida è nella qualificazione della spesa, nell’eliminazione degli sprechi e delle inefficienze, ma soprattutto nella capacità di riconversione del sistema alle nuove caratteristiche epidemiologiche e demografiche che dobbiamo affrontare. Abbiamo proposto, ad esempio, una nuova centralità delle cure primarie e del territorio, con servizi aperti 24 ore, in grado di rispondere alla domanda che oggi si scarica prevalentemente sugli ospedali; è necessario ripartire da una vera integrazione socio-sanitaria; non è più rinviabile l’esigenza di misurare i successi e gli avanzamenti dei piani di rientro per obiettivi di riqualificazione dei servizi e delle strutture altrimenti, qualunque sia il grado di tassazione aggiuntiva e di tagli alla spesa, il debito si riprodurrà. Se posso dirlo con una parola, al governo chiediamo di non pensare più che si possa governare la sanità solo con le pratiche e gli obiettivi della ragioneria, ma che bisogna produrre politiche per la salute, perché solo in questo modo il risparmio è vero e durevole.
RDG: Di federalismo non si sente più parlare, dopo la caduta del governo di centrodestra. E nemmeno delle preoccupazioni sulla proliferazione di tanti sistemi socio-assistenziali quante sono le Regioni, con annessi problemi di diritto, equità e pari accesso ai servizi sul territorio nazionale. Eppure, intanto, le cose vanno avanti. Per esempio, in una certa accezione di sussidiarietà, tanto cara al Libro Bianco dell’ex ministro Maurizio Sacconi, si sviluppano processi di privatizzazione. In Lombardia – ma non solo lì – sta crescendo in modo significativo un privato di mercato così come un Terzo settore che, attraverso la creazione di un mercato a costi e prezzi contenuti, diremmo “popolari”, moltiplica la sua offerta privata soprattutto sanitaria (la cosiddetta sanità leggera). È un’offerta impensabile in tempi di buon funzionamento del pubblico, ma sempre più praticabile in tempi di rinsecchimento del welfare e di tagli, tanto che ci stanno alacremente lavorando cooperative sociali, assicurazioni, fondi integrativi. Qual è il giudizio della CGIL su questo processo? E fino a che punto, e se, questo giudizio trova dei distinguo per quanto attiene il ruolo del Terzo settore?
VL: La discussione sul federalismo finora ha prodotto oltre che tanta propaganda, anche una gran confusione sul terreno istituzionale, di chi fa che cosa. La realtà a oggi è che, sul terreno delle politiche sociali, stiamo sperimentando la più grande frammentazione che si ricordi, insieme a un processo, molto accelerato, di ridimensionamento che sfiora la condanna del socio-assistenziale a un ruolo di pura residualità di marca prevalentemente locale. Con il governo Berlusconi si sono di fatto eliminati tutti i fondi nazionali che, seppur in maniera incompleta, consentivano un’integrazione delle risorse e anche un qualche ruolo di cornice nazionale. Il risultato è che non esistono più strumenti di finanziamento nazionale, che l’Italia è naturalmente molto diversa da luogo a luogo, e che quindi politiche assolutamente strategiche, penso alla non autosufficienza o ai minori in difficoltà o alla povertà, rimangono relegate alla sola dimensione locale e con risorse sempre più scarse e non in grado di incidere significativamente sui bisogni che, specie in questo tempo di crisi, sono diventati più forti e complessi. Nel Centro-Nord un tessuto di servizi, anche di qualità, nel tempo si era costruito e la nostra contrattazione sociale sta operando per impedirne la fine. Nel Sud, dove mai si era costruita un’assistenza basata sui servizi, oggi c’è quasi il deserto, con gli effetti sociali immaginabili se si pensa ad esempio ai servizi socio-educativi la cui assenza produce guasti per l’oggi e per il domani visto che si condannano i bimbi meridionali ad avere fin da piccoli meno chance e le donne, la cui attivazione nel mercato del lavoro costituisce la vera scommessa per la crescita, a non poter godere di alcuna politica di conciliazione. Poi ci sono i fenomeni richiamati relativamente al privato sociale e al Terzo settore, che in effetti sono abbastanza profondi e tali da configurare la costruzione di un sistema sociale totalmente sussidiario, privatizzato o corporativizzato. Questo accade perché c’è stata una spinta politica molto forte in questo senso, che ha prodotto anche l’ideologia della beneficienza e del privato è bello, in un quadro di acutizzazione dei problemi sociali e di un’esaltazione retorica del ruolo della famiglia che non ha certo prodotto politiche di sostegno reale ma solo veicolato l’idea che in fondo qualche voucher o qualche quoziente fiscale può supplire a un sistema di servizi pubblici fatti percepire come costosi e magari di scarsa qualità.
Una parte importante del Terzo settore temo stia almeno in parte dentro questa logica.
Al contrario, noi pensiamo che un ruolo il volontariato o la cooperazione sociale possano adeguatamente svolgerlo, a condizione che ciò avvenga dentro un’ottica di servizio pubblico e di sistema integrato: anche la riduzione dei servizi sta avvenendo di fatto sotto l’apparenza dell’esternalizzazione e della delega. Volontariato e cooperazione devono invece essere un valore aggiunto, qualcosa che allarga e aggiunge risorse ed energie, non la via per produrre a costi minori e con più bassi livelli di qualità quanto prima produceva il pubblico. In questo senso, anche il cosiddetto welfare aziendale o contrattuale può avere un suo ruolo di integrazione se, appunto, opera dentro una regia di governo territoriale pubblico dei processi e non se ne chiama fuori. Insomma, il problema è che non può esserci un’ottica sostitutiva né tanto meno un’ulteriore segmentazione dei diritti e delle tutele. Con una parte molto importante del Terzo settore, decine di associazioni, abbiamo tenuto un’importante iniziativa, “Cresce il welfare cresce l’Italia”, che aveva proprio il senso di costruire una strada comune e di sfuggire alla trappola della residualità e della sostituzione. Il punto centrale rimane però quello di una scelta politica non più rinviabile: bisogna attuare il dettato costituzionale e costruire i livelli essenziali anche nel sociale. Solo così sarà possibile avere una politica di quadro, anche graduale stante il problema acuto delle risorse disponibili, ma certa e orientata, in sinergia con le Regioni e i Comuni, a definire diritti e livelli di tutela e non beneficenza e carità che non possono fare parte della nostra idea di futuro.
RDG: Sul piano dell’assistenza sociale, l’eredità del governo Berlusconi è un macigno: non solo sul versante dei tagli, con cui i diversi Fondi nazionali, dalle Politiche sociali all’Autosufficienza, dall’Immigrazione alla Famiglia, sono passati dai 1.134 milioni di euro del 2010 ai 144 del 2013, ma anche sul terreno del sistema globale di welfare. Il disegno di delega fiscale (DDL n. 4566) fa piazza pulita dello spirito e dalla lettera della legge 328/2000 e scarica gli oneri dell’assistenza sui cittadini per un importo che è stato valutato in 20 miliardi tra esenzioni e indennità a famiglie, anziani e disabili. La riforma dell’ISEE ha il segno di una maggiore e drastica selettività, da un lato; dall’altro, il reddito diviene base per accedere ad alcuni diritti che, soprattutto nel campo della disabilità, oggi sono universalistici. Mentre la delega fiscale pare congelata, sull’ISEE il governo dei tecnici non sembra proporre alcuna discontinuità. Come vede lo scenario del conflitto attorno alla spesa per il sociale? Si intravvedono passi e priorità di una nuova contrattazione “di sistema”?
VL: Sì, per fortuna la delega fiscale pare congelata. Avrebbe costituito un taglio senza precedenti anche a quel che resta della spesa sociale nazionale, i cosiddetti diritti soggettivi. Naturalmente, il rischio che dentro questa spesa si voglia ancora andare a pescare non è del tutto scongiurato. A ciò, infatti, fa pensare la previsione di revisione dell’ISEE inserita nella manovra di dicembre. L’ISEE è uno strumento importante di misurazione della situazione reddituale perché inserisce nella valutazione anche un pezzo di patrimonio. Noi non abbiamo nulla in contrario se per revisione si intende, per esempio, rafforzare la quota patrimoniale o il meccanismo dei controlli, o se si avverte la necessità di rendere più cogente un sistema nazionale a fronte di troppi esperimenti di differenziazione che stanno andando avanti nelle Regioni. Ma se, come temiamo, l’obiettivo è di rendere a prova dei mezzi prestazioni che oggi non lo sono, o di costruire soglie penalizzanti per l’accesso, e se quindi si vuole ancora fare cassa con la spesa sociale, saremo nettamente contrari.
Questo non vuol dire che dentro il quadro dei trasferimenti monetari nazionali che oggi ci sono non sia possibile fare operazioni di razionalizzazione e di riforma; alcune, da anni, le proponiamo anche noi, ma deve essere chiaro che un’operazione di riforma è tale se mira ad adeguare le tutele e renderle più inclusive ed efficaci nel panorama dei nuovi problemi sociali. Ma neanche un euro può più essere tolto alle politiche sociali, anzi, c’è il problema di recuperare quanto tagliato, poiché noi siamo peraltro il Paese che sulle politiche sociali in senso stretto spende molto meno di quanto fanno tutti i Paesi europei con cui ci misuriamo.
È un tema di riforma, ad esempio, vedere come si risponde alla disabilità e alla non autosufficienza integrando prestazione monetaria e servizi, o come si disegna un ruolo più significativo per le Regioni, ma questo non può certo voler dire meno spesa.
In quanto all’universalismo, noi abbiamo da tempo costruito politiche basate su forme di universalismo selettivo, che tengono conto del particolare quadro economico e sociale del Paese, ma naturalmente ci sono forme di tutele che vanno garantite a tutti, anche proprio per dare senso e prospettiva al nostro modello sociale e per impedire che la spinta verso le soluzioni individuali da parte dei ceti più forti produca alla fine una vera e propria crisi di consenso al welfare pubblico che avrebbe effetti drammatici sulla tenuta sociale.
RDG: Mentre l’Europa e con essa l’Italia hanno scelto la via liberista dei tagli al welfare per affrontare la crisi, i nuovi movimenti di tutto il mondo – dagli Indignati a Occupy Wall Street – reclamano giustizia sociale, la fine delle ineguaglianze e un welfare visto come motore di sviluppo oltre che di giustizia sociale. In questa polarizzazione di posizioni, è riemerso con maggior forza che in passato, e con una più larga base di adesione, l’ipotesi di un reddito di cittadinanza che garantisca ognuna e ognuno dalle mutevoli sorti del mercato del lavoro con una continuità di reddito (almeno basic). Il sindacato storicamente non ha simpatizzato con questa ipotesi, legandosi a una cultura dei diritti del lavoro e del diritto al lavoro. Tuttavia, proprio la realtà del lavoro oggi sembra proporre un ripensamento radicale. Il governo Monti dichiara una riflessione in questa direzione, ragionando appunto di continuità di reddito più che di lavoro, ma lo fa straziando i diritti sul lavoro e proponendo i classici due tempi, prima meno diritti poi forse – bilancio permettendo – il reddito. È chiaro come questa non sia una ricetta accettabile dal sindacato. Ma uscendo dalle trappole governative, è possibile per la CGIL ripensare alla formula di un basic income? E se sì, con quali caratteristiche?
VL: Il governo ha avanzato, a me sembra, uno slogan più che l’idea di una politica. È evidente se non altro dal fatto che, a oggi, l’idea generale che propone è piuttosto quella di un sistema di tipo assicurativo, come abbiamo visto sulla previdenza, in cui il ruolo della fiscalità generale è ridotto al minimo. A me è sembrata non solo una trovata per intaccare intanto i diritti del lavoro, ma anche la proposizione di una visione che tende a marginalizzarlo il lavoro, e che mentre si erge a difesa dei giovani, a loro dice in realtà che il loro presente di disoccupazione e precarietà non è al momento intaccabile. A parte tutti i problemi di finanza pubblica e a parte che non esiste alcuna proposta concreta e che, mentre parliamo, si fanno fatica a reperire persino le poche risorse necessarie a coprire una credibile riforma degli ammortizzatori sociali che, negli intenti finora dichiarati, si ridurrebbe a una nuova distribuzione di quelle esistenti (che, per inciso, sono in gran parte a carico di lavoratori e imprese).
Noi abbiamo bisogno almeno di due cose. Innanzitutto, una copertura per tutti, a partire dai lavoratori precari e discontinui, dal rischio disoccupazione e interruzione di lavoro. Abbiamo una proposta molto dettagliata e da questa partiamo nel confronto con il governo. Speriamo di arrivare a un accordo con due pilastri, uno a finanziamento lavoro e imprese, e l’altro a fiscalità generale, con l’obiettivo di rendere la copertura della disoccupazione più alta, più lunga nel tempo e quindi più simile a quella che hanno i principali Paesi europei.
L’altra è uno strumento di contrasto alla povertà che intervenga in maniera efficace con politiche di inserimento oltre che di reddito. L’Italia è l’unico Paese europeo, insieme alla Grecia!, a non avere alcuno strumento di questo tipo.
RDG: I dati dimostrano che il differenziale di genere è cresciuto drammaticamente, nel nostro Paese, con il prolungarsi dell’onda lunga della crisi: dagli scarti su salari e pensioni rispetto a quelli maschili, all’aumento delle tipologie precarie e temporanee dei contratti di lavoro, a una nuova segregazione del mercato del lavoro che offre alle donne i lavori più umili e dequalificati. Un prezzo pesante, per le donne, che va ad aggiungersi alle storiche arretratezze italiane in tema di conciliazione dei tempi e sostegno alla maternità. Di contro, sono impressionanti gli studi sul carico di lavoro non per il mercato, lavoro domestico, di cura, che presenta divari abissali tra donne e uomini. Quali sono per la CGIL le proposte più urgenti e significative, dal punto di vista del sistema di welfare a favore delle donne? La direzione che nel complesso sta prendendo il dibattito su lavoro, ammortizzatori e misure di sostegno riserva qualche sorpresa positiva?
VL: Sì, il tradizionale differenziale di genere con la crisi si è ulteriormente allargato per l’effetto combinato del calo dell’occupazione, della contrazione del reddito delle famiglie e della caduta nell’offerta di servizi per la conciliazione. L’Italia rimane il Paese con il più basso tasso di occupazione femminile dell’euro zona e soprattutto è diventato il Paese con il tasso più alto di inattività, se pensiamo che le donne sono la maggioranza dei cosiddetti scoraggiati e le ragazze sono gran parte dei due milioni e mezzo di neet. In più la situazione italiana è aggravata dall’approfondirsi del dualismo territoriale per il quale nel Sud si concentrano in misura spropositata l’esclusione e la marginalità: se dovessimo scattare un’istantanea per fotografare la condizione delle donne nel mercato del lavoro l’immagine sarebbe quella di una ragazza meridionale. Peraltro, anche la precarietà è in gran parte donna e com’è naturale la discontinuità dell’occupazione, i bassissimi salari, l’assenza di diritti minano nel profondo la possibilità di progettarsi la vita e con questa la maternità, il fare famiglia, l’autonomia abitativa. Le donne che lavorano mantengono il doppio carico del lavoro di cura che, in un welfare già abbondantemente familistico e avaro di sostegni, con la riduzione dei servizi pesa oramai quasi esclusivamente su di loro. C’è, infatti, il peso del lavoro domestico, ancora troppo poco condiviso, ma c’è tutto il carico dei bambini, della non autosufficienza, sempre più incidente in una società che invecchia, del tempo scuola che si riduce, delle mense che costano troppo e così via. Tutto questo, insieme alla bassa qualità della domanda di lavoro, contribuisce in maniera determinante al gap di crescita professionale e alla segregazione occupazionale che tutte le statistiche registrano.
La situazione, purtroppo, è destinata ad aggravarsi, sia perché le politiche di crescita e di rilancio del welfare non si vedono ancora all’orizzonte, sia perché alcune scelte fatte da questo governo vanno nella direzione sbagliata. La riforma delle pensioni, ad esempio, sotto il mantello della parità effettua un’operazione contro le donne: lavorare fino a oltre 66 anni, e poi 70, è insostenibile proprio per quel sovrappiù di carico di lavoro che ci accompagna per tutta la vita, e perché molti dei lavori fatti in prevalenza da donne sono faticosi ed esigono una energia difficilmente riscontrabile a quell’età, penso alle maestre dei nidi e delle materne, o alle infermiere, per non parlare delle case di riposo o delle pulizie. Inoltre, non sfugge che proprio quella fascia di età riassume in sé la risposta della cura sia ai nipoti sia agli anziani. Una cosa da fare subito sarebbe esattamente questa: rivedere la logica rigida e punitiva della riforma e impostare una ben diversa gradualità e flessibilità nel sistema previdenziale, collegandola alle condizioni del lavoro e ripartendo da una vera logica di parità che comincia appunto nella vita e nel lavoro e non certo nella pensione. Sappiamo quanto sia difficile riaprire questo tema, tuttavia non possiamo rinunciarci. L’altro segnale, che ci aspettiamo invece arrivi subito, è il ripristino della legge sulle dimissioni in bianco, che è uno scandalo aver cancellato. Dalla trattativa sul mercato del lavoro ci attendiamo un serio e vero colpo alla precarietà e quindi adeguati strumenti di contrasto e una vera riforma degli ammortizzatori in direzione dell’estensione e della copertura di tutti coloro che oggi non hanno nel mercato nessuna tutela.
RDG: Il 2011 è stato anche l’anno di un rinnovato attacco ai diritti delle donne sotto forma di “controriforme”, magari di tipo amministrativo e/o locale, alle leggi 194/78 sull’aborto e 405/65 sui consultori. Su questi ultimi si sono susseguite proposte di legge regionale (il Lazio, il Piemonte, per esempio) che mirano a limitare per via appunto amministrativa la libertà di scelta delle donne, a impostare i servizi sulla tutela della famiglia più che sulla libertà di scelta delle donne. A volte questo accade in modo platealmente ideologico, per esempio permettendo l’ingresso nei reparti ospedalieri pubblici dove si pratica l’Interruzione Volontaria di Gravidanza ad associazioni pro-life. Il movimento delle donne ha reagito con determinazione, scendendo di nuovo in piazza in molte città e trovando nuove alleanze tra giovani donne e donne che hanno dato vita alla stagione delle lotte negli anni Settanta. La CGIL e le donne dello SPI-CGIL sono spesso in prima linea. Come valuta questa ondata “controriformatrice”? Qual è l’impegno prossimo futuro della CGIL in questa importante partita?
VL: Si dice sempre che viviamo tempi post-ideologici, in realtà non si era mai vista tanta ideologia su tanti terreni, dalla centralità dell’impresa fino al ritiro dello Stato dalle funzioni pubbliche. Uno dei terreni privilegiati da noi rimane quello dell’attacco ai diritti civili di libertà, non solo delle donne, penso ad esempio alla difficoltà che permane di riconoscere diritti e dignità giuridica alle coppie di fatto e omosessuali, o alla legislazione persecutoria sull’immigrazione.
Il clima culturale risente di qualche accenno di miglioramento ma mantiene ancora tutta la sua pesantezza, in particolare su alcuni temi propri delle donne. Vorrei dire, però, che l’attacco è meno gridato di un tempo e avviene soprattutto su un terreno su cui è molto difficile anche organizzare il contrasto, che pure esiste e ha bloccato in gran parte processi regressivi che si sono messi in piedi in più parti d’Italia. Il terreno cui facevo riferimento è quello del far morire i servizi per assenza di investimenti e personale, o dequalificarli, o renderne la risposta inefficiente e inefficace. Ad esempio, nessuno dice che l’aborto non è praticabile, ma oramai di fatto un intervento inesigibile in due terzi dell’Italia. Così i consultori, che si tenta di svuotare con le leggi regionali, ma che di fatto sono ridotti male, anche dove non si è messa la bandierina ideologica. E poi c’è questa discussione sulla famiglia che è anche stucchevole, un po’ perché se ne parla tanto ma in realtà non si produce niente a sostegno, neanche ad esempio per i bambini poveri che in questo Paese sono tantissimi, un po’ perché fa riferimento a un modello di famiglia che come modello unico ormai non c’è più. E poi quelli che pensano che per sostegno alla famiglia debba intendersi la disincentivazione del lavoro femminile e la monetizzazione del welfare non hanno capito che questa sarebbe la via per approfondire i problemi del Paese e non per risolverli, giacché solo l’allargamento della base occupazionale delle donne può farci agganciare ai nostri competitori europei e, d’altra parte, solo l’investimento in welfare dei servizi produce costruzione di lavoro buono per le donne.
In ogni caso, tuttavia, io credo che nella coscienza della società, nonostante tutto, ciò sia molto presente. Noi continueremo, come stiamo facendo da anni, con tutti gli strumenti, compresa la contrattazione sociale, a batterci per un’idea di vita, di coppia, di famiglia, ma soprattutto di diritti e di libertà, le stesse idee che hanno portato in piazza il movimento di “Se non ora quando”, del quale facciamo parte e con il quale continueremo a lavorare.
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