Per i piani visionari di Abubakr al Baghdadi, l’edificazione del regno di Dio passava attraverso l’amministrazione di una nazione, con tanto di tasse, moneta propria, raccolta dei rifiuti, gestione della giustizia sulla base della sharia. E l’avanzata dei guerrieri jihadisti, fra incredulità e debolezze intrinseche di Siria e Iraq, è apparsa quasi inarrestabile, come a confermare che il suo successo fosse già scritto nel destino del Medio oriente.
Ma ora sono passati due anni dalla conquista di Mosul, probabilmente il successo maggiore degli integralisti, ottenuto quasi senza sparare un colpo. Quella spinta che sembrava travolgente adesso si è esaurita, in Iraq le città cadono una dopo l’altra nelle mani dei governativi, sostenuti dalla coalizione a guida Usa, e anche in Siria le forze di Bashar Assad avanzano, coperte dall’aviazione russa. In più, lo Stato islamico ha perso almeno un quarto delle risorse petrolifere che controllava, e anche le perdite territoriali si trasformano in minor introiti.
L’attenzione adesso torna su Mosul. Attorno al capoluogo della provincia di Anbar si stanno posizionando truppe curde. Ieri le forze speciali si sono scontrate con i miliziani dell’Is, facendo — dice il comandante Mansur Barzani — almeno 120 vittime e liberando nuove zone. Ma difficilmente saranno loro a partire per prime verso Mosul, visto che la città non rientra nei tradizionali confini del Kurdistan: toccherà invece ai soldati governativi, protetti dall’aviazione di Usa e alleati. Fra i militari, numerosi sono di credo sunnita: i ritardi nel preparare l’offensiva per riprendere l’antica Niniveh sono legati anche alla necessità, da parte del governo di Bagdad, di non schierare solo soldati sciiti. Questi ultimi avevano abbandonato Mosul nelle mani dell’Is senza combattere, e in altre città si erano lasciati andare ad abusi e prepotenze che gli erano costati la ribellione dei civili. Ora però la popolazione della città, anche se di credo sunnita, non sopporta più la presenza dei fondamenta-listi, che la opprimono e di fatto la tengono in ostaggio.
Proprio la presenza di oltre un milione di cittadini impedirà che l’offensiva per riprendere Mosul sia preceduta da bombardamenti a tappeto. L’attacco, che si prevede possa partire nella seconda metà di settembre, dovrà puntare su un’avanzata cauta, anche perché gli uomini di Al Baghdadi sono usi disseminare le città, man mano che si ritirano, con migliaia di trappole esplosive.
Prima di Mosul, le forze irachene punteranno con tutta probabilità su Tal Afar, a metà strada fra il capoluogo e Sinjar, la città degli yazidi riconquistata dai peshmerga nel novembre scorso. Le altre grandi città irachene sono di nuovo sotto il controllo del governo: Baquba è caduta nel settembre 2014, Tikrit nel marzo 2015, Ramadi nel gennaio scorso dopo mesi di scontri, Abu Ghraib a febbraio, Falluja appena lo scorso giugno. Ai fondamentalisti restano diversi centri di media dimensione lungo l’Eufrate. In Siria invece l’Is cerca di conservare un corridoio verso la frontiera turca, per garantirsi rifornimenti e vie di fuga. Ma anche Raqqa è ormai nel mirino. Ieri i bombardieri russi Tu-22M3, affiancati dai caccia di base a Jmeimim, hanno colpito pesantemente Deir El-Zor: la cattura della città, importante nodo stradale, dovrebbe aprire la via ai governativi verso la capitale siriana del Califfato. Dall’altra parte avanzano anche le forze curdo-arabe del Sdf, sostenute dall’aviazione americana: dopo aver liberato nei giorni scorsi Manbij, vicino al confine con la Turchia, si stanno dirigendo verso Al Bab. Da qui, Raqqa dista appena un centinaio di chilometri.
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