La condizione anziana, emblema della società di domani
Uno “sguardo lungo” è quello di cui c’è bisogno: perché la cosiddetta “questione anziana” non è un fenomeno di settore e le risposte politiche che a esso si danno non sono la reazione a una “emergenza”, ma l’uno e le altre si inseriscono in una scenario strategico, in una tendenza che sta ridisegnando il mondo, la società, l’economia. Il benessere degli anziani è il benessere dell’intera società, la qualità della loro vita non può essere letta in conflitto con quella della vita delle altre generazioni, e il welfare che verrà non sarà la somma di risorse strappate qui e là, ma dovrà avere il respiro necessario per la coesione e la tenuta di una società complessa. Per questo, dice Carla Cantone, segretario generale SPI-CGIL, le politiche sociali mirate alle e agli anziani sono la cartina di tornasole della capacità complessiva che abbiamo di ripensare un modello di sviluppo sociale innovativo, all’altezza delle grandi trasformazioni del presente. Uno sviluppo in cui il welfare non sia misura residuale per i più poveri a mala pena “salvata” da politiche recessive, ma di nuovo, e forse questo difficile transito è davvero una grande occasione, un motore di crescita e cambiamento. Questo “sguardo lungo” sta alla base delle proposte dello SPI-CGIL, dal Patto per il lavoro, alla promozione della salute, a una nuova alleanza tra generazioni.
Redazione Diritti Globali: La CGIL, e con particolare forza lo SPI, esprimono la necessità di riportare il dibattito sul welfare fuori dal mero lessico economico-finanziario, per ritrovarne una declinazione originaria: non solo rispetto dei diritti e promozione umana, ma anche motore di sviluppo e di lavoro, aspetto, questo, centrale in un tempo in cui sulla ripresa e sull’occupazione devono concentrarsi gli sforzi del Paese. Tuttavia, è una prospettiva davvero in controtendenza: oltre alle recenti politiche di spending review e tagli lineari del governo di Mario Monti, che avete radicalmente contestato, oggi siamo in presenza di un nuovo vincolo rigido, cogente e strategico con il fiscal compact, inserito addirittura nel testo della Carta costituzionale. Un passaggio – per altro approvato dal centrosinistra e con un silenzio assordante nel Paese – che prevede tagli di 40 miliardi di euro all’anno per 20 anni, con scarsi spazi di manovra e sanzioni comunitarie in agguato. Da dove se non dalla spesa pubblica per il welfare potranno essere recuperati? Non c’è forza di governo che possa sottrarsi a questo vincolo ormai costituzionale. Come prevedete di muovervi, dato questo scenario irrigidito e bipartisan, per il welfare che verrà? Come si riposiziona il sindacato in questo quadro?
Carla Cantone: Stiamo vivendo una fase complessa e di profondo cambiamento, definita da una forte incertezza e instabilità, sia politica che culturale, la quale deve essere affrontata con lucidità, pena una turbolenza lunga e difficile da affrontare e superare. Per questo la CGIL pone al centro il lavoro quale priorità reale, dalla quale ripartire per riattivare i diritti, il reddito e la dignità delle persone, e lo fa attraverso il Piano per il lavoro. Questa proposta abbraccia il ruolo del terziario, le politiche energetiche e ambientali per la difesa e lo sviluppo intelligente del territorio, le politiche industriali, le infrastrutture, la rivalutazione del nostro sistema manifatturiero, le politiche agroalimentari e il welfare quale motore di sviluppo e punta su necessità definite: scuola, formazione, ricerca e innovazione.
In questi giorni l’ISTAT ha presentato il primo Rapporto BES, Benessere Equo e Sostenibile, che si pone l’obiettivo di definire la situazione del Paese e misurarne il progresso, attraverso un insieme di indicatori condivisi assieme al CNEL. Il BES è stato presentato come indice necessario nella valutazione dello Stato e del progresso di una società, per la programmazione a livello istituzionale e politico delle azioni da intraprendere. Stante l’importanza del PIL, è infatti oramai evidente il suo limite come strumento unico di analisi. Questo per dire che cosa: tre milioni di giovani sono attualmente senza lavoro, mentre un milione di adulti è in forte sofferenza. Dunque, se non cogliamo il messaggio di necessaria inversione di tendenza nella lettura della salute generale del Paese e quindi nella definizione degli strumenti adatti per l’avvio alla crescita, noi non avremo possibilità di sviluppo.
Mentre, si potrebbe dire paradossalmente, una parte essenziale per lo sviluppo è a nostro avviso proprio il welfare. Il welfare fornisce opportunità di lavoro per dare risposte alle esigenze di intervento nello Stato sociale, per garantire condizioni di vita dignitose e servizi di pubblica utilità per tutti, a partire dalle prestazioni sociali e socio assistenziali per i cittadini, prestazioni intese in senso universale, indirizzate ad esempio ai bambini e agli anziani, insieme e non in contrapposizione.
Tale approccio culturale, deve inoltre trovare una forte interlocuzione all’interno dell’Europa. Una Europa in grado di spendersi per l’uguaglianza, per i diritti di cittadinanza e nel lavoro, per tutti: giovani, donne, anziani, lavoratori e lavoratrici. Una Europa che intende impegnarsi su ricerca, formazione, welfare, in una chiave di chiaro progresso democratico, di coesione fra i vari Paesi e di pari diritti di cittadinanza europea. Non è più eludibile la necessità di redistribuire la ricchezza, non è più rinviabile la riforma fiscale. Ciò che emerge è l’esigenza di un welfare basato sulla giustizia sociale. Uno Stato sociale in grado di garantire a tutti ma soprattutto ai più deboli e ai più esposti, sanità e assistenza all’interno di un sistema integrato, in un contesto fortemente modificato. Per tutto questo non si può prescindere dal lavoro e il Piano per il lavoro della CGIL è stato e rimane l’unica vera e concreta proposta in campo. Una proposta di spessore, che valorizza competenze e opportunità di un Paese come il nostro, ricco di professionalità e di settori vecchi e nuovi che se rilanciati, possono riportarci ai vertici delle graduatorie internazionali per quella qualità produttiva che ha collocato, nel secolo scorso, il sistema Italia fra le grandi potenze industriali nel mondo.
RDG: Tutti i dati recentemente elaborati su potere d’acquisto delle pensioni, redditi e consumi, rischio povertà e deprivazione materiale, povertà relativa e assoluta vedono l’età come variabile critica, non l’unica, ma certo molto rilevante, tanto che possiamo dire di essere in presenza di una reale “questione anziana”. Non si tratta certo di una “emergenza” ma di una nuova, necessaria prospettiva: il futuro prossimo prevede in Italia 16 milioni di over 65 nel 2020, 19 nel 2030. Mentre avviene questa “rivoluzione demografica”, le risorse investite nei vari fondi nazionali per le politiche sociali si assottigliano o addirittura spariscono, come quello per la non autosufficienza. Lo SPI si è mosso su molti fronti, nel 2012, dalla previdenza alla non autosufficienza, dal problema abitativo a quello del diritto alla salute, anche cercando di impedire al governo Monti di peggiorare la situazione. E la “resistenza” a volte ha pagato. Ragionando invece in termini di prospettiva, quale può essere per lo SPI “un’altra legge di stabilità possibile” per un welfare che sappia dare risposte all’altezza della “questione anziana”?
CC: L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha appena pubblicato il Rapporto europeo sulla salute 2012, un documento di forte rilevanza che offre una panoramica molto approfondita del livello di salute dei cittadini europei. L’OMS rileva che tale livello è migliorato (lo dimostrano gli indicatori sull’aspettativa di vita, il calo complessivo della mortalità, mortalità materno-infantile, per citarne alcuni), mentre sono tuttavia mantenute le diseguaglianze tra Paesi e all’interno degli stessi; quello che però viene sottolineato è il rischio che il mix di crisi economica e tagli alla sanità, come risposta dell’azione dei governi, se miscelati produrranno in primis un crollo drammatico della speranza di vita e lo svilupparsi di nuove pandemie. Questo allarme da solo dovrebbe indurre i governi a cambiare immediatamente rotta, sostituendo la pratica dei tagli “tout court” alla spesa, con una programmazione che preveda investimenti mirati al fine anche di innescare un circolo positivo di crescita intesa complessivamente: aumento della qualità della vita, creazione di posti di lavoro, implementazione dei servizi, aumento del benessere sia percepito, sia reale, aumento della sicurezza (anch’essa intesa in entrambe le accezioni) e via dicendo. D’altronde è quello che ripetiamo da tempo immemore e che oggi anche con il Piano per il lavoro abbiamo ben delineato. La stabilità non può essere definita solo in termini monetari, ma, a pari merito in termini di tenuta sociale.
Detto ciò, la “questione anziana” se continua a essere affrontata con un approccio non strutturato, non integrato e con diseguaglianze importanti tra le diverse realtà territoriali, rischia di divenire una vera e propria emergenza, che come tale verrà trattata, ovvero senza riuscire ad apportare modifiche al sistema di programmazione della salute e del benessere delle persone tutte. Vorrei infatti sottolineare che una mancata programmazione strutturale e nazionale della “questione anziana”, non coinvolge solamente gli over 65 ma tutti cittadini e le cittadine, per diversi motivi, tra cui: un aumento smisurato della spesa sanitaria e sociale, che andrebbe a cadere sempre più a carico diretto delle famiglie e delle singole persone, così come la gestione, lasciata ai singoli, dell’attività di cura delle persone anziane; una velocizzazione del percorso di perdita dell’autosufficienza, anche quando potrebbe non solo essere ritardata di diversi anni, ma addirittura evitata, anche attraverso una riprogrammazione degli interventi e delle figure professionali coinvolte e investimenti monetari non eccessivi.
Noi proponiamo un modello ben preciso di welfare per gli anziani, che come ho già detto interessa direttamente, ed è importante precisarlo, tutti i cittadini e le cittadine. Non si può più pensare ad azioni pensate come compartimenti stagni, questa è un’idea che appartiene a un mondo che non c’è più, e che, se ci pensiamo bene, non c’è mai stato. Le azioni devono essere integrate e devono riguardare tutti, perché nella vita di tutti i giorni siamo direttamente interconnessi, e in primis nei bisogni. Gli esempi sono molti e riguardano i trasporti, le abitazioni, la filiera del cibo, la pianificazione dei quartieri, degli ambienti comuni, l’educazione e la formazione e così via. Tutto ciò deve essere “stabilmente interconnesso” e non finanziariamente compartimentato.
Le cause che ci hanno portato a definire una fascia di popolazione, come una “questione” se non una vera e propria emergenza, sono state a lungo dibattute, e le sono tutt’ora; in questo contesto propongo però una breve descrizione delle azioni che noi come sindacato dei pensionati avanziamo. Bisogna attuare una revisione delle attuali forme del federalismo che pur assicurando alle Regioni la necessaria autonomia, forniscano alla sanità certezza di governo: uscire dalla debolezza della governance e costruire un governo federale della sanità. È inoltre necessario decodificare gli scenari socio epidemiologici e le loro linee di tendenza (invecchiamento, condizioni ambientali, struttura della famiglia); valorizzare le risorse della comunità (intese sia come infrastrutture fisiche – palestre, spazi di vita comune, nuovi modelli abitativi da realizzare anche e soprattutto attraverso edifici in disuso – sia come capitale sociale quali il volontariato, i gruppi di self aiuto, le pratiche di buon vicinato, family learning, etc.; utilizzare correttamente le risorse, attraverso la lotta alle diseconomie, agli sprechi e alla corruttela.
Le cure primarie devono essere riorganizzate attraverso un finanziamento reale delle attività e con la introduzione dei nuovi modelli di gestione delle patologie croniche: Chronic care model, medicina d’iniziativa, reale presa in carico della persona fragile/non autosufficiente, attraverso l’uso di idonei strumenti, come la figura del case manager (medico di medicina generale o infermiere professionale) e dei registri di patologia, l’implementazione del modello di Casa della Salute, da noi proposto, e ora adottato da quasi tutte le Regioni. Un modello che è attualmente il più evoluto ai fini di una reale integrazione delle attività sanitarie e sociali.
Il mantenimento della persona anziana deve essere assicurato quanto più possibile presso il proprio domicilio, come obiettivo prioritario e alternativo alle pratiche di confinamento in RSA. Come realizzarlo? Attraverso il ricorso alla domotica, alle forme modulari di co-housing e di housing sociale, attraverso l’implementazione dell’Assistenza Domiciliare Integrata, che significa avere dei gruppi assistenziali polispecialistici che lavorano in team, domiciliarizzazione delle cure, attraverso un percorso completo, dalla diagnostica, alla riabilitazione, alla rieducazione di tipo motorio e del linguaggio, e una riabilitazione di tipo sociale, sotto forma di inserimento. In questo percorso è centrale la realizzazione del Piano di Assistenza Individualizzato (PAI), come strumento di lettura del bisogno della persona e di valorizzazione del capitale sociale di cui dispone. A questo proposito le risorse stanziate dal ministero della Coesione Sociale e finalizzate al mantenimento degli anziani presso il proprio domicilio, devono essere con certezza utilizzate e lo SPI ha un grande ruolo da svolgere.
RDG: Il differenziale di genere è un problema costante, in Italia, e le donne pensionate o comunque anziane ne sperimentano gli effetti, in termini di pensioni mediamente inferiori a quelle degli uomini (l’80% di loro non raggiunge i 1.000 euro al mese) e a una maggiore esposizione al rischio povertà, a fronte di una più lunga prospettiva di vita e di condizioni spesso di solitudine. Siete riusciti a bloccare il provvedimento della ministra Elsa Fornero che, abolendo il diritto ad andare in pensione con un minimo di 15 anni di contributi per quanti li avessero maturati prima della riforma del 1992, avrebbe colpito soprattutto le donne, che hanno carriere frammentate, precarie e spesso sacrificate ai compiti di cura familiare. Quali sono le strategie che il sindacato sta attivando per sostenere la qualità della vita delle donne anziane e il loro reddito?
CC: Le donne nelle varie stagioni hanno sempre pagato il prezzo più alto. Eppure gli studi di numerosi organismi internazionali affermano che sono proprio i Paesi caratterizzati da una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, come è il nostro, quelli che possono ottenere il maggiore vantaggio in termini di crescita dall’aumento dell’occupazione femminile.
Partendo da tale presupposto, non ci spaventiamo del fatto che le nostre proposte sembrino andare in direzione opposta rispetto all’impostazione culturale ed economica dominante, ma al contrario, riteniamo che questa sia l’occasione per riaffermare le nostre rivendicazioni, perché sono una leva per la crescita del Paese e per la realizzazione di una società più giusta. Allora, fra gli interventi possibili, avanziamo la proposta di una contribuzione figurativa per il lavoro di cura svolto, che risponde anche alla necessità di rafforzare sul terreno previdenziale la condizione delle giovani costrette a interrompere l’attività lavorativa per periodi di cura (infanzia, disabilità, non autosufficienza).
Qualità della vita significa anche riconoscere e prevenire. L’OMS sostiene che le diseguaglianze basate sul genere danneggiano la salute fisica e mentale di migliaia donne e di uomini, e che ciò avviene anche quando si applicano misure di prevenzione e protezione della salute che non tengono conto in modo appropriato della differenza di genere. Per questo proponiamo alcune azioni mirate, volte a implementare la garanzia di equità nel diritto alla salute per le donne e anche per gli uomini, attraverso l’equità nell’accesso e nel controllo sulle risorse, che non si deve fermare alla forma, alla mera titolarità dei diritti, ma alla costruzione delle condizioni necessarie per realizzare tale equità; l’equità di opportunità nell’esercitare un’influenza politica ed economica. Tale influenza è stato dimostrato essere un drammatico fattore di rischio nella definizione di ciò che determina la salute e la sua mancanza, ed è stato denominato con un termine inglese “gender identification bias”, ovvero l’influenza dettata dal genere di appartenenza dei soggetti coinvolti, nella priorità data ai finanziamenti e ai temi di ricerca, nella definizione degli outcomes e nell’interpretazione dei risultati in campo medico: il genere determinante, inutile dirlo, è stato quello maschile.
In tale contesto si inseriscono le nostre proposte di implementazione dei sistemi di partecipazione delle cittadine e dei cittadini alle scelte pubbliche, finalizzate sia alla definizione dei bisogni e allo sviluppo delle attività, sia alla valutazione degli esiti del servizio reso e degli stessi professionisti. La partecipazione delle donne alle delegazioni trattanti, vuol dire anche partecipazione piena alla definizione degli obiettivi, al percorso di confronto e alla valutazione dei risultati. In altri termini, se vogliamo che le nostre controparti nella contrattazione sociale territoriale adottino una valutazione di genere, dobbiamo, noi per primi, proporre uno sguardo di genere in tutte le fasi del confronto.
Ulteriore punto è la diffusione dei bilanci di genere, strumento non ancora sufficientemente utilizzato ma oggi ancora più indispensabile, dato che le politiche economiche non sono neutrali, così come non sarà neutrale il necessario ridisegno del welfare locale. Il Bilancio di genere serve per identificare i beneficiari di dette politiche, quale strumento preventivo, e per verificare i risultati sociali raggiunti, anche in termini di sostegno e favore all’autonomia e al benessere delle persone e delle donne.
Un ambito che inserisco in ultimo, ma non per importanza, interessa la violenza: tema che riguarda il genere femminile, e che si presenta in forma drammaticamente asimmetrica. Dico questo perché la violenza è quella degli uomini sulle donne e anche perché la violenza e i maltrattamenti sugli anziani riguardano in grandissima parte le donne, dato che nell’età avanzata sono quelle in condizioni di maggiore fragilità, registrando una aspettativa di vita maggiore, accompagnata però da un più lungo periodo di disabilità, in una situazione di carenza di reddito e molto spesso di solitudine.
RDG: Le proiezioni attorno all’aumento del carico fiscale su salari e pensioni nei prossimi anni sono allarmanti, incluse le tasse locali, che già hanno avuto una impennata a compensazione dei tagli al welfare a Regioni e Comuni. Congiuntamente a CISL e UIL lo SPI-CGIL ha presentato proposte per il sostegno ai redditi da pensione, la revisione dei meccanismi delle detrazioni e delle deduzioni, l’abolizione dell’IMU sulla prima casa per i pensionati, altri redditi a parte. Su questi obiettivi pesa anche la riforma dell’ISEE, che nelle sue prime formulazioni è stata oggetto di scontro tra governo e parti sociali. Che bilancio fa a questo proposito? I pensionati meno abbienti sono ora al sicuro da una maggiore penalizzazione o è ancora un fronte aperto?
CC: Da anni stiamo assistendo a un progressivo e drammatico impoverimento dei pensionati italiani a fronte di un costante aumento del prelievo fiscale, del costo dei servizi sanitari e di assistenza, dei prezzi e delle tariffe. In tale contesto, l’IMU si è tradotta in una patrimoniale sui già magri redditi dei pensionati italiani, essendo pesata per un 20/30 per cento in più rispetto alla vecchia Ici per l’effetto combinato dell’aumento dell’aliquota e della rivalutazione delle rendite catastali.
Il potere d’acquisto delle pensioni è ormai in caduta libera: in 15 anni è costantemente diminuito fino a toccare la quota del 33%. Nello stesso arco temporale il valore di una pensione media è sceso del 5,1%. Ciò significa che si è verificato un crollo vertiginoso del reddito da pensione rispetto all’andamento dell’economia reale. A fronte di ciò, tasse e tariffe sono continuate ad aumentare; quest’anno incideranno sulla spesa dei pensionati per una cifra di circa 2.064 euro a testa, il 20% in più rispetto al 2012. Tra addizionale regionale Irpef, addizionale comunale, IMU e TARS si verificherà un aumento di spesa medio di 640 euro per l’anno corrente, ovvero il 12% in più rispetto al 2012. Per quanto riguarda invece le tariffe, la spesa media sarà di 1.424 euro tra telefonia fissa, acqua, luce, gas e riscaldamento. Pesano inoltre il canone Rai e l’aumento dal 22% al 23% dell’IVA che scatterà il prossimo luglio. I dati sul potere d’acquisto delle pensioni sono dunque destinati a peggiorare per effetto del blocco della rivalutazione annuale introdotto dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, così detta “Riforma Fornero” (su quelle superiori a tre volte il minimo, poco sopra i 1.400 euro lordi), che nel biennio 2012-2013 toglie mediamente 1.135 euro a 6 milioni di pensionati. Questo vuol dire che un pensionato con un assegno di circa 1.200 euro netti ha perso 28 euro al mese nel 2012 e nel 2013 ne perderà 60, mentre chi percepisce una pensione di circa 1.400 euro netti ha perso 37 euro al mese nel 2012 e ne perderà 78 nell’anno corrente. È chiaro allora che bisogna intervenire con urgenza per sostenere il potere d’acquisto delle pensioni, rimuovere l’odioso blocco della rivalutazione annuale, alleggerire il carico fiscale e rilanciare welfare e sanità.
RDG: Nel campo del diritto alla salute, oltre al mai risolto nodo della non autosufficienza, emerge con forza anche quello di un’aumentata spesa sanitaria sulle spalle dei cittadini, e gli anziani in modo particolare si trovano già a limitare le visite, cure e farmaci. La spending review ha inciso in modo significativo sul sistema sanitario e processi di privatizzazione, non ultimo quello relativo alla sanità “a basso costo”, sono progrediti speditamente in molte regioni. Qual è l’agenda dello SPI per una difesa del sistema sanitario nazionale e per una spending review alternativa, che ottimizzi ma non penalizzi i servizi sanitari, soprattutto quelli di cui gli anziani maggiormente fruiscono?
CC: Premetto che una parte della risposta a questa domanda è già contenuta nel punto precedente dedicato alla “questione anziana” e alla nostra proposta di una legge di stabilità alternativa. Cito a titolo esplicativo, richiamandomi alla realtà che voi richiamate nella domanda, i dati della Fondazione Censis per il 2011, i quali ci dicono che più di 9 milioni di italiani non hanno potuto accedere a una parte delle prestazioni sanitarie di cui avevano bisogno per motivi di ordine economico; di questi 2,4 milioni sono anziani, 5 milioni vivono in coppia con figli, 4 milioni risiedono nel Mezzogiorno. Inoltre (ce lo dice il Rapporto Censis nel capitolo dedicato a welfare e salute), la spesa sanitaria out of pocket (ossia gli esborsi sostenuti direttamente dalle famiglie per acquistare beni e servizi sanitari) ammonta in Italia a circa 28 miliardi di euro (per il 2011), pari all’1,76% del Pil, e secondo i dati dell’OCSE si trattava nel 2010 del 17,8% della spesa sanitaria complessiva. Dato che pone il nostro Paese al di sotto della media (pari al 20,1%), ma nel confronto con gli altri grandi Paesi europei (Francia, Regno Unito e Germania) risulta piuttosto alto.
Dunque, cosa fare? Bisogna avere il coraggio di portare avanti un cambiamento di rotta necessario, avviare percorsi integrati in una strategia lungimirante di governo e rendere realtà l’idea di “invecchiamento attivo” come fattore di promozione del benessere delle persone e come strumento per lo sviluppo di capitale sociale. Invecchiamento attivo vuol dire prevenzione, intesa come voce principale di investimento e di azione, partecipazione, intesa come conoscenza e consapevolezza del proprio stato di salute, delle proprie possibilità future, dei diritti, della programmazione degli interventi, che devono essere condivisi. Si comincia a invecchiare non appena si viene al mondo, questo vuol dire, per noi, che è un dovere assicurare alle donne e agli uomini, tutti, di tutte le età, una prospettiva di autonomia e realizzazione di sé, in un progetto di vita capace di proiettarsi oltre le segmentazioni con le quali si concepiscono le diverse stagioni dell’esistenza. Questo per lo SPI-CGIL significa avere ben presente la realtà, la salute e il benessere degli anziani di oggi, ma anche quella di coloro che oggi sono adulti o soprattutto giovani e che domani saranno anziani.
RDG: Probabilmente per la prima volta in Italia, nel 2012 si è parlato di anziani e omosessualità, grazie all’iniziativa Equality Italia con il vostro sostegno. Un segnale importante e innovativo, che rompe il silenzio su una particolare condizione anziana. Come siete arrivati a occuparvi del tema? E quali sono gli aspetti che avete affrontato, relativi a diritti, condizione sociale e qualità della vita del popolo LGTB più agé?
CC: Come sindacato dei pensionati, riteniamo con convinzione che nella giustizia sociale devono trovare un posto di parità di diritti anche gli anziani e le anziane che vogliono vivere la propria omosessualità in libertà senza essere emarginati, perseguitati o derisi. I diritti di queste persone devono imboccare la strada giusta ed è per questo che devono essere rimossi tutti gli ostacoli culturali, sociali e politici che fino a oggi hanno impedito loro di vivere alla luce del sole la propria esistenza.
L’indagine che ha svolto il sociologo Raffaele Lelleri, per conto dello SPI-CGIL, sull’omosessualità e anzianità in Italia, ha permesso di far emergere un quadro complesso e necessario per avviare un percorso di azioni volte al riconoscimento dei diritti di tutte le persone. Un percorso volto allo sviluppo di empatia, come atteggiamento di comprensione dell’altro; concetto antico ma attualmente rivoluzionario, rilanciato dall’economista Jeremy Rifkin, oramai nel 2010 (La civiltà dell’empatia). Dico questo perché lo SPI è il principale contenitore e propulsore di questo modo di agire. Tale capacità, presente nel nostro corredo genetico ma disincentivata dalla cultura predominante (come diversi studi scientifici internazionali hanno dimostrato), che non è in linea con i cambiamenti ambientali tecnologici e demografici, deve essere praticata e insegnata attraverso uno scambio costante tra le generazioni e questa azione può avere nello SPI un punto di forza. Dallo SPI perché è rappresentato da quelle persone che hanno avuto la capacità di portare avanti lotte per i diritti di cui ancora beneficiamo e che devono trasmettere questo atteggiamento di trasformazione della società alle nuove generazioni. Dunque, per la prima volta in Italia l’omosessualità viene trattata dal punto di vista degli anziani.
I risultati dell’indagine svolta hanno fatto emergere che l’essere anziani, può costituire uno svantaggio di per sé, soprattutto se si è omosessuali. Degli intervistati (il campione era composto da oltre duemila persone omosessuali, bisessuali e trans), infatti, il 52% ha dichiarato che essere oggi una persona anziana LGBT in Italia rappresenta soprattutto uno svantaggio rispetto a essere anziano ed eterosessuale. Il 22% ha espresso un giudizio ancor più netto, affermando che rappresenta sempre uno svantaggio.
Una doppia invisibilità, quella messa in rilievo dall’indagine. Invisibili sul fronte dei diritti e delle tutele sia in quanto anziani sia in quanto omosessuali. E invece per la prima volta nella storia italiana e internazionale le anziane lesbiche e gli anziani gay cominciano a essere visibili, a porre questioni inedite, che riguardano la loro specifica condizione; come si deve attrezzare lo Stato, quali servizi socio assistenziali devono essere costruiti o semplicemente riconosciuti, e cosa possono fare gli attori sociali. Siamo fieri di avere avviato questo percorso, che porteremo avanti con quella determinazione che ci contraddistingue.
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