Precari, sfruttati e frustrati. I giovani sono stufi di stare ordinatamente in fila
Intervista a Claudia Pratelli, della campagna nazionale contro la precarietà “Il nostro tempo è adesso”, a cura di Sara Nunzi (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)
La “questione giovanile” costituisce senza dubbio una delle più gravi emergenze italiane. Per comprendere l’entità del fenomeno è sufficiente richiamare alcuni dati: nel 2012 il tasso di disoccupazione dei giovani d’età compresa tra i 15 e i 24 anni è del 35,3%, contro il 20,3% del 2007, un anno prima che la crisi economica dispiegasse i suoi effetti negativi sull’occupazione. In valori assoluti si tratta di 611 mila giovani, a fronte dei 380 mila del 2007. Se si allarga questa platea, prendendo in esame la fascia di popolazione giovanile compresa tra i 15 e i 34 anni, si raggiunge la quota di 1 milione e 426 mila persone (erano 900 mila nel 2007): un vero e proprio esercito di giovani disoccupati, nelle cui fila inevitabilmente crescono sfiducia e frustrazione. La mancanza di prospettiva dei giovani, del resto, non riguarda soltanto chi non ha un lavoro, ma anche chi ha un’occupazione precaria: sono quasi 3 milioni i contratti a termine nel 2012, almeno metà dei quali stipulati con lavoratori under 40. Della drammaticità della questione giovanile abbiamo parlato con Claudia Pratelli, che fa parte della Federazione Lavoratori della Conoscenza della CGIL ed è tra le promotrici della campagna nazionale contro la precarietà “Il nostro tempo è adesso”.
Redazione Diritti Globali: Come promotrice della campagna nazionale“Il nostro tempo adesso”, che ha portato in piazza nel giugno scorso 2012 decine di migliaia di persone, indaga da vicino la condizione della precarietà lavorativa, in particolare dei giovani. Da dove nasce e quali implicazioni reca con sé questa condizione?
Claudia Pratelli: Dal mio punto di vista la precarietà rappresenta un processo di radicale trasformazione dell’organizzazione della produzione e del lavoro. All’interno di questo processo, l’impresa non guarda all’inserimento stabile del lavoratore, ma a una flessibilità integrale, in modo tale che l’occupazione possa adattarsi al variare della domanda. Così facendo, il datore di lavoro è in grado di ottenere un assoggettamento del lavoratore e, al contempo, di risparmiare in termini di assicurazione di diritti e tutele. La precarietà delinea quindi i confini di un ampio territorio al cui interno viene sperimentato un nuovo modello di lavoro, un modello di lavoro imbarbarito che spesso dietro il nome e la codificazione formale dell’autonomia, nasconde vere e proprie forme di subordinazione. Essa costituisce peraltro un attacco alle fondamenta stesse della nostra democrazia, dal momento che lavorare con contratti precari significa essere costretti a rinunciare a quelle reti e forme di protezione sociale faticosamente realizzate nel lungo processo di costruzione del welfare state democratico a partire dal secondo dopoguerra. Tutto ciò comporta poi lo spreco delle generazioni più giovani, a cui è di fatto impedito l’accesso all’età adulta. I trentenni e i quarantenni di oggi sono ingabbiati in condizioni di precarietà, inattività coatta, disoccupazione prolungata. Si tratta di uomini e donne che hanno terminato, spesso da tempo, il proprio percorso formativo, che vorrebbero finalmente costruirsi un percorso e un progetto di vita e di lavoro autonomi, ma si ritrovano bloccati – per oggettive condizioni di inadeguatezza e malfunzionamento sia del nostro sistema di welfare sia del mercato del lavoro – in una paradossale condizione di eterna giovinezza. Chiamare “giovane” chi oggi ha oltre trent’anni è un artificio attraverso cui si respinge al mittente una legittima domanda di accesso all’età adulta, un modo paternalistico per continuare a dire “restate ordinatamente in fila, il vostro momento prima o poi arriverà”.
RDG: Precarietà, dunque, come enorme spreco di risorse. Quali sono le forme concrete che ha assunto questa dilapidazione di energie, talenti e potenziali dei giovani?
CP: Lo spreco della gioventù del nostro Paese è fotografato impietosamente dai dati statistici, a partire da un tasso di disoccupazione giovanile che supera il 35% e da un tasso di precarietà che tocca direttamente un giovane su due. Chi, oggi, ha la fortuna di lavorare lo fa nella metà dei casi con contratti a termine. Un altro dato sintomatico è quello relativo ai NEET, l’acronimo inglese che indica i giovani che non studiano, non lavorano e non si formano: in Italia sono circa due milioni e mezzo e il loro profilo somiglia moltissimo a quello dei cosiddetti inattivi, ovvero quei soggetti che hanno rinunciato a cercare lavoro, spesso perché espulsi dal mercato del lavoro a metà della loro carriera professionale. I NEET, invece, sono giovani d’età compresa tra i 15 e i 29 anni che vivono una condizione di profonda prostrazione non a causa dell’interruzione della propria carriera professionale, ma del suo mancato inizio, quindi dell’impossibilità di avviare un proprio percorso di lavoro. Tutto questo ci parla anche del carico di frustrazione che investe le generazioni più giovani.
Nel corso di questa drammatica crisi economica siamo messi al corrente del variare dei tassi di disoccupazione, dei livelli di inattività, del numero dei NEET, delle aziende fallite, delle ore di cassa integrazione, ma non si parla mai del “tasso di frustrazione” che, insieme alla mancanza di lavoro e alla precarietà del lavoro stesso, lacera nel profondo le prospettive dei giovani. Questa frustrazione deriva non soltanto dall’essere costretti ad accettare lavori inadeguati rispetto alle proprie competenze, dal vedersi negati diritti e tutele, dalle retribuzioni ridicole che si ricevono, ma anche dalla netta percezione del tradimento che questa società ha fatto alla generazione dei trentenni dicendo loro «studiate, formatevi, accedete ai livelli alti dell’istruzione, questo vi permetterà di soddisfare i vostri desideri». Ecco, questa promessa è stata ed è sistematicamente disattesa, e si stanno buttando via talenti, idee e energie preziose, l’unico appiglio che permetterebbe a questo Paese di uscire dalla crisi economica.
RDG: Alla luce di queste evidenze e di queste riflessioni, come valuta l’impianto e l’impatto della riforma del mercato del lavoro promossa dal ministro Elsa Fornero?
CP: La riforma Fornero è un’ottima linea guida su cosa non si dovrebbe fare. In questo senso, è necessario parlare non degli interventi messi in atto con quel testo di riforma, ma di quelli, radicalmente alternativi, che si dovrebbero praticare.
Ne indico brevemente quattro, che ritengo prioritari. In primo luogo, è imperativo ridurre le tipologie contrattuali atipiche: al momento in Italia ne abbiamo 46, cioè, paradossalmente, lo stesso numero di prima della riforma Fornero. A questo si aggiunge l’esigenza di combattere gli abusi contrattuali, ovvero l’utilizzo improprio di forme di lavoro precarie perché più convenienti. Il caso di chi fa lavori di segreteria con partite IVA o con contratti CoCoPro ne è un classico esempio. È poi urgente intervenire sul fronte dei compensi, per esempio rendendo i minimi retributivi previsti dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro un riferimento anche per i compensi di chi lavora con contratti parasubordinati. Soltanto quattro anni fa si parlava di “generazione mille euro” per descrivere la condizione dei giovani all’ingresso del mondo del lavoro, oggi i compensi medi di chi lavora con contratti a progetto, partita IVA, assegni di ricerca, collaborazioni occasionali, ritenuta d’acconto e via dicendo, sono mediamente molto inferiori. Infine, ma si tratta di una questione della massima urgenza e importanza, è necessario estendere il welfare a chi lavora con contratti precari. Oggi proprio i soggetti più esposti al rischio sul mercato del lavoro – i precari – sono anche i meno protetti dal welfare: spesso privi di ammortizzatori sociali e con tutele sociali di frequente inadeguate. È ora di colmare questa lacuna.
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