Etiopia, è strage di contadini oromo
È strage di oppositori in Etiopia, una strage che si è concentrata nei giorni tra il 6 e il 7 agosto scorsi quando almeno cento persone sono state uccise dalla polizia etiope durante le proteste antigovernative nelle regioni di Oromiya e Amhara.
Il numero di vittime si è registrato a Oromia nelle città di Ambo, Adama, Asassa, Aweday, Gimbi, Haromaya, Neqemte, Robe e Shashemene. Secondo Amnesty International almeno 30 persone sarebbero state uccise in un solo giorno a Bahir Dar il capoluogo regionale dell’Amhara, dove in diverse migliaia avevano preso parte a una manifestazione. «Le forze di sicurezza etiopi hanno sistematicamente fatto ricorso a un uso eccessivo della forza nei loro errati tentativi di mettere a tacere le voci di dissenso», ha dichiarato Michelle Kagari, vice direttore regionale di Amnesty per l’Africa Orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi.
In centinaia sono stati arrestati e rinchiusi nei centri di detenzione non ufficiali, tra cui le basi di addestramento dell’esercito e della polizia. «Siamo estremamente preoccupati che l’uso di strutture di detenzione non ufficiali possa esporre le vittime a ulteriori violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura e altre forme di maltrattamento», ha detto Kagari.
A innescare le proteste a novembre dello scorso anno era stata la decisione del governo di implementare l’Integrated Development Master Plan, piano che prevedeva l’espansione urbana della capitale con la creazione di una zona industriale nella regione di Oromia e l’esproprio dei terreni agricoli dell’area interessata, con postamento forzato di molti Oromo). Benché il piano sia stato successivamente abbandonato, le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche, uno stato di diritto e la liberazione dei detenuti politici.
Da anni i gruppi per la difesa dei diritti denunciano gli effetti delle politiche governative della cosiddetta villaggizzazione: vale a dire le violenze perpetrate dalle forze di sicurezza per costringere le comunità locali a trasferirsi da zone urbane sottopopolate, da destinare a investimenti privati, in villaggi governativi, rivelatisi privi dei servizi e infrastrutture di base promessi. D’altro canto il master plan per la crescita urbanistica di Addis Abeba prevede l’inglobamento amministrativo dei comuni circostanti attualmente sotto la giurisdizione dell’autorità regionale degli Oromo. Ciò significherebbe per le comunità indigene il passaggio sotto la giurisdizione del governo federale che comporterebbe l’adozione dell’aramaico come lingua ufficiale e l’abbandono della lingua oromo. Cambiamenti non da poco per il più grande gruppo etnico del paese – gli Oromo, appunto – da tempo in conflitto con il governo centrale per ragioni storiche, tra cui proprio la deportazione da quello che una volta era il territorio ancestrale del popolo e che ora è Addis Abeba.
La stragrande maggioranza della popolazione etiope vive ancora di un’agricoltura di sussistenza su piccoli appezzamenti di terreno che spesso è costretta ad abbandonare a causa di politiche di land-grabbing, accaparramenti da parte di privati che spesso significano l’acquisto di ettari ed ettari di terreni a prezzi stracciati da parte di multinazionali o governi stranieri, da destinare a monoculture intensive. Forme di investimento molto redditizio nell’ambito dell’agribusiness a danno delle popolazioni indigene vittime di devastanti disastri ambientali quali la distruzione di biodiversità, deforestazione, usurpazione di aree di pascolo e di terreni destinati all’agricoltura di sussistenza, con conseguente abbandono delle aree di origine.
Le comunità indigene della regione di Gambella sono entrate in conflitto con il governo proprio sui piani di esproprio e conversione di migliaia di ettari di terreno in piantagioni agricole su larga scala. E non è l’unico caso.
In questo scenario anche l’Italia può vantare responsabilità di sostanza. Lo scorso marzo l’ong Survival International ha presentato all’Ocse un’istanza contro l’italiana Salini-Impregilo per la costruzione della diga di Gibe III nella valle dell’Omo. Si tratta della più grande diga d’Africa e servirà per produrre energia elettrica e per irrigare le monocolture di canna da zucchero a scapito dell’autonomia alimentare di circa 500 mila persone, vittime di abusi e trasferimenti forzosi. La diga secondo Survival ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo da cui dipendono direttamente e indirettamente più di 200 mila indigeni per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi. Proprio ieri, secondo quanto riportato dall’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice), la centrale idroelettrica Gilgel Gibe III ha iniziato a produrre elettricità.
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