La guerra agli yazidi sul corpo delle donne

La guerra agli yazidi sul corpo delle donne

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Nadia Murad, candidata al Nobel per la pace di etnia yazida, è in apparenza una ragazza semplice, come tante. Ma basta che inizi a raccontare di sé e del suo popolo per scoprire che ha in sé una forza straordinaria, che si esprime già nel tono della sua voce, che ha qualcosa di ieratico. La incontro subito fuori Stoccarda, dove ora vive dopo essere fuggita dallo Stato Islamico.

L’intervista avviene in un condominio abitato per intero da famiglie di rifugiati, tutti yazidi come lei. Mentre parla si sentono attorno le risa di bambini che giocano in giardino e corrono allegri per le scale. Bimbi arrivati da un anno, a volte da pochi mesi, dopo essere sfuggiti dalla guerra. Una guerra lontana, di cui nelle loro voci sembra non esserci più traccia.

Come nasce la questione yazida? Quando questa minoranza finisce sotto attacco?

Continuo a ripeterlo da tempo, ovunque vada. Noi yazidi eravamo perseguitati anche prima dell’arrivo dell’Isis. Nessuno si è mai occupato di noi, ma eravamo discriminati da molti punti di vista. Siamo sempre stati poveri, dediti a una vita semplice, ma a noi andava bene anche così. Poi è arrivato lo Stato Islamico, in Iraq e in Siria, e tutte le minoranze sono finite sotto attacco. Ma il nostro caso è diverso. Ci hanno dato due opzioni: convertirci o morire.

Il 3 agosto 2014 hanno attaccato le comunità yazide e migliaia di noi sono fuggiti sui monti del Sinjar. Nessuno li ha difesi. Per due settimane hanno dovuto cercare di sopravvivere senza cibo, acqua, con un caldo insopportabile. Donne, ragazze e bambini, tutti quelli che non sono riusciti a fuggire, sono stati resi schiavi dagli uomini dell’Isis. Hanno distrutto i nostri luoghi sacri, molte delle nostre case e hanno preso tutti i nostri beni.

Nel mio villaggio, a Kocho, c’erano 2.000 abitanti. Per noi è andata diversamente. Eravamo circondati da villaggi di arabi e musulmani e non abbiamo potuto fuggire in montagna come gli altri. Ci hanno circondati e hanno chiuso tutte le vie d’accesso al nostro villaggio. Erano nostri vicini e amici, lavoravamo da sempre insieme con loro, ma si sono schierati subito con l’Isis. Hanno ucciso tutti i nostri uomini e reso schiave le donne e le bambine.

Dal 3 al 15 agosto siamo stati presi d’assedio. Abbiamo fatto appello a tutti, tutti nel mondo sapevano che quello che stava avvenendo era un genocidio, ma nessuno è venuto in nostro soccorso. E il 15 tutto è finito: uccisi gli uomini, rapiti e rese schiave bambini e donne. Non siamo state prese per essere messe in prigione, ma per essere usate come schiave sessuali.

Siamo state soggette a violenze e ad abusi psicologici e fisici. Questo è quanto è capitato a più di 6.000 donne e bambine yazide. Da allora ne sono rimaste ancora 3.000 prigioniere e soggette a questi crimini.

Proprio ieri era il secondo anniversario di questo genocidio e ci sono ancora più di 35 fosse comuni dove si trovano le ossa dei nostri parenti. Fratelli, mariti e padri. Nessuno se ne occupa al momento. Metà dei nostri villaggi sono ancora nelle mani dell’Isis, incluso il mio, e coloro che sono fuggiti si trovano in una situazione disperata. Dispersi nei campi profughi, senza futuro, e senza i servizi più essenziali come l’elettricità.

Fino ad oggi non c’è nessuna azione concreta per aiutare gli yazidi. Nessun paese li vuole o se ne occupa, nonostante le sofferenze fisiche e psicologiche subite. Solo la Germania fa eccezione, e ha accolto di recente 1.100 sopravvissute.

Perché gli yazidi sono divenuti vittime di genocidio? Quale sono le ragioni della loro persecuzione?

Tutto avviene a causa dell’identità religiosa degli yazidi. Ci chiamano adoratori del diavolo, infedeli, dicono che siamo un popolo senza libri sacri, e in quanto ciò non degni della protezione che secondo l’Islam spetta a cristiani e ebrei. Per questo siamo vittima di questi crimini.

Quanto abbiamo subito è un genocidio perché hanno ucciso tutti i nostri uomini in modo sistematico e rese schiave le donne. La nostra comunità è ora dispersa, distrutta, senza futuro. Ci siamo estinguendo. La comunità internazionale deve fare il suo dovere e chiamare le cose col suo nome: genocidio.

Le chiederei, se possibile, di parlarci della sua esperienza personale, di quando era nelle mani dall’Isis.

Dopo che hanno preso noi donne dal villaggio, ci hanno raccolte e messe insieme a centinaia di altre ragazze provenienti da altri paesi del Sinjar. Abbiamo chiesto loro cosa ci facessero lì e cosa fosse successo loro. Ci hanno risposto che venivano picchiate ogni giorno e che ogni giorno venivano a scegliere alcune di loro per abusarne in diversi modi, inclusi stupri di gruppo.

Poi ci prendevano per portarci in delle stanze dove i militanti dell’Isis venivano, ci guardavano e sceglievano le ragazze che volevano portare via. Questo capitava a bambine e donne dai 9 ai 60 anni. E così è capitato a me. Ci prendevano e ci obbligavano a convertirci, portandoci alla corte islamica di Mosul. Lì venivamo registrate come schiave, senza alcun diritto, a differenza delle loro madri, mogli e figlie. Ci spartivano fra loro e abusavano di noi. Inoltre, dovevamo servirli.

Le comunità locali erano in genere dalla parte dell’Isis, e per questa ragione solo poche di noi sono riuscite a fuggire. C’erano alcune famiglie che ci hanno aiutato, ma la maggioranza no, erano contro di noi, e condividevano le stesse idee dell’Isis. Ci guardavano come schiave, come esseri inferiori, e questo succedeva sia in Iraq che in Siria.

Come è riuscita a fuggire?
Un’eccezione a quanto dicevo prima è stata la famiglia che mi ha aiutato. Sono andata a casa loro e mi hanno protetta. Sono stata fortunata, perché in tantissime hanno cercato di fuggire chiedendo aiuto, solo per essere picchiate e ritornare al loro stato di schiave.

Avevano paura, ma mi hanno aiutata. Mi hanno procurato documenti falsi in cui risultava che ero parte della loro famiglia, in quanto moglie di loro figlio. Ho preso un velo e una veste integrale islamica e sono riuscita a fuggire in Kurdistan.

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