La difficile alchimia cinese: trasformare la quantità in qualità

La difficile alchimia cinese: trasformare la quantità in qualità

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)

Simone Pieranni è il fondatore dell’agenzia China Files e giornalista del quotidiano “il manifesto” di cui è corrispondente da Pechino. Nel suo ultimo libro Il nuovo sogno cinese (Manifestolibri), Pieranni racconta come la Cina stia affrontando il difficile passaggio da “fabbrica del mondo” a potenza imperiale. Una trasformazione che sta producendo enormi conflitti sociali all’interno del Paese e sollecita l’immaginario da grande potenza nella dirigenza del Partito Comunista Cinese. Forse non esisteva e non esisterà in futuro un “modello cinese”, dice Pieranni, ma la strada intrapresa dal Dragone finirà per pesare, economicamente e culturalmente, anche sugli equilibri del mondo occidentale attanagliato dalla sua crisi.

 

Redazione Diritti Globali: Quali sono i principali indirizzi di politica economica adottati dal Partito Comunista Cinese nel 2014?

Simone Pieranni: Ridurre il debito, consolidare il ceto medio per redistribuire la ricchezza e fare sì che il mercato interno diventi traino economico, considerato il calo delle esportazioni dovuto alla crisi economica occidentale. Sono le tre traiettorie del Partito, insieme alla necessità di riformare, con l’ingresso di privati, le grandi aziende di Stato, ricettacolo di corruzione e non produttive come Pechino vorrebbe.

 

RDG: Rispetto alla crisi dei BRICS e a quella finanziaria che attanaglia i Paesi occidentali quali sono le prospettive cinesi?

SP: La crescita ha rallentato, è quantificata al 7,5 percento, ma Pechino la vede come un segnale positivo, per consentire un passaggio dalla quantità alla qualità di cui la Cina necessita. Per aumenti salariali e diminuzione delle esportazioni, la Cina punta tutto sul mercato interno e sul settore dei servizi e ha pronta la riforma dell’hukou, ovvero il certificato di residenza che inchioda i diritti sociali al luogo di provenienza. Cambiando la legge si permette ai lavoratori migranti di godere di parte del welfare nelle città in cui lavorano consentendogli, insieme ad alloggi popolari, di spendere di più sul mercato interno. La prospettiva principale è liberalizzare alcuni settori e tentare allo stesso tempo una redistribuzione della ricchezza ai ceti più deboli.

 

RDG: Come nasce il ceto medio in Cina e com’è cambiato negli ultimi anni?

SP: Il ceto medio in Cina nasce grazie alle riforme che alla fine degli anni Settanta hanno consentito alla Cina di diventare fabbrica del mondo e aumentare il reddito dei propri cittadini. La classe media, o almeno parte di essa, può considerarsi tale da un punto di vista economico, ma non ancora da un punto di vista culturale. Solo negli ultimi anni la classe media cinese – per lo più concentrata nei settori dei servizi e dell’information technology – ha cominciato a richiedere più spazio economico e più diritti civili. Molti analisti e intellettuali “liberal” hanno effettuato campagne stampa a favore della liberalizzazione di alcuni settore chiave dell’economia, mentre le proteste, ad esempio, contro l’inquinamento hanno avuto come protagonisti proprio elementi della classe media cinese. Le prospettive si basano sul tentativo di creare un rapporto di forze favorevole con il Partito chiedendo più spazio ai capitali privati.

 

RDG: Qual è la situazione del mercato del lavoro cinese?

SP: Dal primo luglio 2013 è entrata in vigore la nuova legge per i lavoratori esternalizzati e interinali. Nascono come funghi le agenzie interinali, mentre milioni di laureati sono disoccupati. In Cina, infatti, il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente: sono aumentati i salari in alcune zone del Paese, anche del 17 per cento negli ultimi anni, i milioni di nuovi laureati faticano a trovare impiego e ultimamente anche Pechino ha scoperto il lavoro precario, e con esso le agenzie interinali.

Dal primo luglio è entrata in vigore la revisione della legge sul lavoro del 2008, che dovrebbe regolamentare milioni di lavoratori, quelli che vengono presi in outsourcing per sostituzioni o tempi brevi, con l’intento di limitare le irregolarità e lo sfruttamento dei “precari”. Almeno in teoria, la legge dovrebbe provvedere a modificare quella del 2008, aumentando le garanzie di chi viene assunto come “interinale”. Ma la realtà non appare così chiara e conseguente agli auspici: sempre in linea teorica, pare infatti che rimanga anche quella parte di legge che richiede lo stesso trattamento di salario ai precari rispetto ai garantiti che finiscono per sostituire o affiancare. Ancora teorica, anche perché da stabilire, la quota di lavoratori atipici che ogni azienda potrebbe assumere. A ora, dato che non è ancora stato stabilito il limite, un po’ tutti se ne stanno approfittando (specialmente le aziende di Stato, il che pone la questione anche da un punto di vista politico, visto che sono i colossi cinesi che molti dei liberals vorrebbero smembrare in nome della crescita del capitalismo privato).

Secondo un sondaggio del sito people.com.cn – il website del “Quotidiano del Popolo”, l’organo ufficiale del Partito Comunista cinese — i lavoratori occasionali della Guangdong Mobile a Canton guadagnerebbero solo un terzo della retribuzione dei dipendenti della società. La Federazione cinese dei sindacati, impegnata da tempo nel sensibilizzare sulla nuova legge, ha suggerito che la percentuale di lavoratori esternalizzati rispetto a quelli impiegati direttamente non superi il 5 per cento.

Il “South China Morning Post” di Hong Kong riportava l’opinione di «un manager di un’agenzia di lavoro interinale di Shanghai, per il quale la cifra reale sarebbe superiore», tanto che si dice felice di quanto il provvedimento del 2008 abbia migliorato il business della sua azienda. Racconta che «in media, più della metà dei lavoratori presso le aziende con cui lavoriamo sono mandati da noi, in alcuni casi la percentuale è del 90 per cento». E conclude: «Se avesse seguito la regola non scritta, secondo la quale le assunzioni precarie non dovrebbero superare il 10 per cento del numero dei lavoratori impiegati, la mia azienda avrebbe chiuso entro uno o due anni».

Cos’è successo dunque? Nel 2008 è stata approvata la nuova legge sul lavoro in Cina con un’attenzione particolare alle assunzione delle agenzie interinali. La discussione da cui nacque il provvedimento legislativo avvenne tra il clamore generale, perché secondo le aziende avrebbe portato a peggiorare la competitività cinese sui mercati mondiali, tutelando troppo i lavoratori. Da parte loro, i soggetti della legge non si dissero particolarmente entusiasti. Secondo il China Labour Bullettin (CLB), una ONG di Hong Kong che si occupa del mondo del lavoro in Cina, «forse la ragione per cui nessuno sembra fare grande affidamento sulla nuova legge è perché nessuno pensa davvero che farà quello che dovrebbe fare, ovvero arginare gli abusi del sistema delle agenzia di lavoro in Cina e garantire che tutti i dipendenti che lavorano nel stesso business ottengano parità di retribuzione a parità di lavoro». Quando la legge entrò in vigore, le aziende fecero di tutto per arginarla: furono soprattutto le grandi aziende di proprietà statale a utilizzare contratti atipici attraverso le agenzie di lavoro interinale. In alcuni casi, dicono al CLB, più di due terzi dei dipendenti a tempo pieno che lavorano presso le aziende di Stato sono in realtà lavoratori temporanei.

Per la Federazione dei sindacati cinesi (All-China Federation of Trade Unions, ACFTU) nel 2011 sarebbero stati circa 60 milioni i lavoratori assunti tramite agenzie in Cina, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Secondo la revisione della legge, in vigore dal primo luglio, le posizioni di lavoro “temporanee” non possono essere estese oltre i sei mesi, le posizioni “ausiliarie” devono essere estranee al core business della società e le posizioni “sostitutive” possono essere riempite solo quando un dipendente è lontano dal lavoro per un certo periodo di tempo a causa di formazione, ferie e altre eventualità. La nuova legge richiederebbe poi che le agenzie interinali fossero provviste di un capitale minimo – da 500 mila a 2 milioni di yuan (da 60 a 250 mila euro) – con un aumento delle multe nel caso di violazioni.

 

RDG: In che modo si sta strutturando l’economia dopo il congresso PCC?

SP: Ancora non è chiaro, perché ci sono stati alcuni provvedimenti, ma l’azione più importante è la creazione dell’area di libero scambio di Shanghai, ancora però in fase di valutazione. Le direttrici sono di liberalizzazione per alcuni settori, ingresso di capitali privati nelle aziende di Stato, lotta alla corruzione e miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori migranti.

 

RDG: Queste politiche implicano l’adozione di un welfare o un suo potenziamento? E, in questo caso, puoi indicare alcuni casi significativi?

SP: Di sicuro c’è la volontà di rivedere il sistema dell’hukou e con esso il welfare statale. Dal 2014 al 2020 la Cina prevede di trasformare 100 milioni di persone in “cittadini”. Non si intende solo un loro trasferimento – e vedremo come – ma un reale cambiamento di status sociale: questi 100 milioni di persone infatti, potranno usufruire del sistema di welfare urbano, superando una delle mancanze più gravi di tutto il sistema sociale cinese, a oggi. Significa che attraverso l’hukou, il certificato di residenza che aggancia i diritti sociali al luogo di provenienza, il migrante cambierà il suo status, diventando cittadino a tutti gli effetti. Significa che i lavoratori migranti potranno usufruire di tutti i servizi sociali messi a disposizione dalle città. Ovvero, avranno più soldi da spendere sul mercato interno, risparmiando su quei servizi che fino a oggi hanno dovuto pagare (sanità, istruzione dei figli).

Non solo, perché in quest’ottica redistributiva, che va di pari passo con la necessità di sviluppare il mercato interno, si dovrebbero affiancare politiche abitative ed ecologiche, capaci di mutare la natura della trasformazione sociale. Come siamo abituati, infatti, fino a oggi, a vedere questo processo in Cina? Città con grattacieli disabitati per il loro prezzo esoso, nubi tossiche date dall’inquinamento e i lavoratori migranti a vivere nelle periferie, scontrandosi ogni giorno con la mancanza di coperture sociali.

 

RDG: Xi Jinping, segretario generale del Partito e presidente della Cina, vuole imprimere una svolta socialista, mentre il suo Paese continua a usare tutte le leve del capitalismo finanziario. Non è una contraddizione?

SP: Non c’è da storcere il naso: per i cinesi tutto questo non costituisce una contraddizione. Xi Jinping è salito al potere per controbilanciare il recente restyiling finanziario improntato a una liberalizzazione di ambiti economici ben precisi. In tale quadro bisogna valutare anche le politiche sociali. Ad esempio, fino a oggi i migranti non godevano di alcun diritto, e anzi, costituivano le fasce sociali più sfortunate: persone che si sono messe il progresso cinese sulle spalle, ma che da oggi godranno di uno status che, di fatto, li eleva a veri cittadini. Un primo segnale di quella difficile alchimia che la Cina si appresta a rendere “storica”: trasformare la quantità in qualità.

 

RDG: In che modo?

SP: Secondo i dati diffusi dalle autorità di Pechino, fino a oggi i cittadini sarebbero il 53 per cento della popolazione. Di questi solo il 35 per cento gode dei diritti sociali. L’obiettivo è rendere la popolazione urbana, entro il 2020, il 60 per cento di quella totale ed estendere il welfare urbano ad almeno il 45 per cento. Significa, come detto prima, una trasformazione sociale per almeno 100 milioni di persone. Si tratta di un traguardo rilevante anche per il nuovo governo cinese. Com’è scritto nei documenti rilasciati, in cinese: l’urbanizzazione sana è sostenuta da un potente motore economico.

La domanda interna è la forza trainante fondamentale dello sviluppo economico della Cina. Non solo perché Pechino pensa anche alla qualità: l’urbanizzazione, si dice, «è un requisito inevitabile per promuovere il progresso sociale, è un prodotto della civiltà e del progresso umano, capace sia di migliorare l’efficienza produttiva, sia quella degli agricoltori. È un fenomeno per il bene del popolo, per aumentare la qualità complessiva della vita. Con il rafforzamento della prosperità economica della città, miglioreranno le funzioni urbane i servizi pubblici e la qualità dell’ambiente: la vita materiale delle persone sarà più ricca e la loro vita spirituale migliore».



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