Per un New Deal in Italia e in Europa
(dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)
Con il segretario confederale CGIL Danilo Barbi affrontiamo il tema del Piano del Lavoro presentato dal sindacato di Corso Italia già nel settembre 2013. Al centro di questo progetto c’è l’idea di rovesciare il paradigma economico attuale e non attendere che sia la crescita a creare il lavoro, bensì il lavoro a rilanciare la crescita. Per Barbi, infatti, «non è concepibile un’idea di ripresa senza occupazione», tanto che ormai «anche Confindustria comincia a dire che, più che un problema di prodotti, c’è un problema di mercati». Il piano occupazionale si propone di creare «una nuova domanda che possa creare una nuova offerta» e si sviluppa su due temi fondamentali: una politica dell’innovazione, rivolta all’economia digitale; e un “new deal” dei beni comuni, intesi come beni sociali, culturali e ambientali.
Redazione Diritti Globali: A pochi mesi dall’inizio del mandato, come giudica i primi passi in politica economica del governo Renzi?
Danilo Barbi: Vi sono stati alcuni elementi che hanno marcato un elemento di diversità dalla gestione di Mario Monti ed Enrico Letta. Per la CGIL, il governo Renzi esprime alcune cose sulle quali siamo d’accordo e altre che ci vedono in disaccordo. C’è una parte della manovra fiscale che in qualche modo ci convince, la restituzione fiscale sotto i 26 mila euro, così come l’aumento di tassazione sulle rendite finanziarie. Letta discusse l’aumento dal 20% al 22%, ma poi scomparve dall’agenda. Renzi l’ha invece aumentata dal 20% al 26%. Nel 2015 è previsto che una parte delle entrate verranno calcolate sulla lotta all’evasione. È dal 2010 che CGIL lo chiede, dall’ultima manovra di Tremonti. Questa quota può essere contabilizzata come una forma straordinaria su cui poter contare fino alla riduzione della patologia generale. Una possibilità che è sempre stata negata e il ministero l’ha esclusa. In questo modo, credo, si è voluto nascondere una volontà politica e si è voluto giustificare il taglio della spesa sociale. Dunque, apprezziamo la manovra fiscale, poi sui dettagli non c’è dubbio che si potrebbe fare di meglio, ma onestamente si può dire è una misura di segno diverso rispetto al passato. Sul piano macroeconomico il governo cerca di fare una politica della domanda, spostando l’asse fiscale, riducendo l’esigenza dei tagli alla spesa sociale. È una politica anticiclica che da anni in Italia non veniva fatta.
RDG: E sulla politica del lavoro?
DB: Sul mercato del lavoro, i contratti a termine e sull’apprendistato ci sono politiche sbagliate, che aumentano la precarietà e dequalificano l’occupazione. Ormai tutti gli studi confermano che entrambi questi aspetti danneggiano la produttività dell’impresa. Il vero problema non è il costo del lavoro, ma è la scarsità generale degli investimenti. Abbiamo imprese eccellenti come in Francia e Germania, ma la media degli investimenti è inferiore. Queste imprese non hanno bisogno di deregolamentazione, hanno bisogno di persone adeguatamente formate. Le altre invece pensano di fare brutti prodotti con lavoratori scarsamente qualificati e pagati il meno possibile. Con questa filosofia non si farà mai concorrenza ai Paesi dell’Europa dell’Est o alla Cina.
RDG: Secondo l’ISTAT gli 80 euro della riduzione IRPEF introdotti dal governo Renzi produrranno un effetto contenuto sui consumi delle famiglie, a meno che il bonus non diventi strutturale.
DB: Infatti sarà una detrazione strutturale. Inciderà sui consumi dei lavoratori a basso reddito, cioè il gruppo sociale che spende di più di quanto guadagna. Ma questo contributo non può bastare e non è risolutivo. Perché interviene sulla domanda e sosterrà i consumi, difende l’occupazione che c’è ma è poco efficace per riguadagnare l’occupazione perduta. Noi pensiamo che occorra intervenire anche sul versante dell’offerta. L’intervento sulla restituzione fiscale non incide in questa direzione. In Italia non c’è solo un problema di PIL. Occorre una politica di creazione diretta di lavoro.
RDG: In quali settori?
DB: Pensiamo anche a un lavoro non necessariamente a tempo indeterminato, ma pagato bene. A un’esperienza professionale lunga, che acquisisca titoli per concorsi pubblici. A programmi triennali e quinquennali per tre gruppi sociali: disoccupati di lungo periodo, giovani e donne inoccupate, persone di età avanzata espulse dal mercato e che ormai rappresentano un’emergenza. Pensiamo a lavori di pubblica utilità e a un New deal costruito sui beni sociali, cioè su politiche sociali come sanità o istruzione, assistenza sociale alla primissima infanzia, cura della non autosufficienza, infanzia sanità e emarginazione. Un secondo campo di intervento è costituito dai beni ambientali: la messa in sicurezza del territorio, la riqualificazione delle città, comportano grandi investimenti, anche sulla manifattura, un’industria che deve lavorare di più per i beni collettivi e non solo per quelli individuali. C’è anche la tutela idrogeologica contro le calamità naturali. Poi ci sono i beni culturali. Ci vuole una politica di industrializzazione dei beni culturali e la creazione di grandi imprese che esportino il nostro know-how, costituendo così uno sbocco pubblico e privato per i beni culturali di cui siamo ricchissimi, ma che non riusciamo a valorizzare. Non solo in prospettiva turistica ma anche in una strategia industriale che riguardi la cultura, il cinema e la gestione dei beni artistici.
RDG: Non ci sarebbe un rischio di privatizzazione?
DB: Non direi. Noi parliamo di programmi pubblici che valorizzino le proprietà pubbliche. Tutti i restauratori nel mondo studiano sui testi scritti dagli italiani, ad esempio. Non bisogna produrre profitto ma ricchezza sociale. Perché non esiste una grande impresa pubblica sulla conservazione e restauro dei beni culturali? Sarebbe un’impresa che esporta in tutto il mondo e avrebbe margini di sviluppo enormi. Un’impresa nazionale pubblica di restauro chiamata a lavorare in tutto il mondo. Sinora non ci ha mai pensato concretamente nessuno.
RDG: Come può la cultura farsi industria?
DB: Quando parlo di industrializzazione uso il termine nel senso migliore. Grandi dimensioni, grandi capacità di fare economie di scala. Un’impresa da tremila persone con i migliori specialisti del restauro nel mondo. Potrebbe essere pubblica. È un esempio, ma tutto ciò riguarda il Piano del lavoro della CGIL. Noi pensiamo a un modello di realizzazione originale per l’Italia: ci vuole un’agenzia nazionale snella per i finanziamenti che lavori con enti locali e le forze sociali per definire le priorità, chiedendo magari a enti privati di convergere su di esse. Vogliamo sollecitare una progettazione sociale e decentrata. Ci interessa molto sottolineare questa metodologia, ma per realizzarla abbiamo bisogno di una regia nazionale, che usi le risorse per creare lavoro senza disperderle in inefficienze e clientelismi. C’è anche bisogno che quest’agenzia nazionale faccia convergere su programmi comuni le risorse della cooperazione.
RDG: Lo stesso programma potrebbe essere usato per la tutela del territorio?
DB: È così. Qualcuno deve dire quali sono le priorità. E lo può fare l’intelligenza che un territorio esprime, coinvolgendo tutte le forze sociali e non solo imprese e sindacati. Penso anche all’associazionismo ambientale, che è una grande risorsa in Italia. Bisogna creare mobilitazione sociale che è creatrice di ricchezza economica e di cultura. A quel punto si potrebbe determinare un altro effetto: per stimolare lavori straordinari c’è bisogno di produrre nuovi materiali. La messa in sicurezza di una scuola ha bisogno di prodotti, ad esempio. Se quel territorio sa che la priorità è quella, allora qualche azienda produrrà questi prodotti. Insomma, occorre pensare a un sistema di moltiplicazione, virtuoso. Lo slogan potrebbe essere: produrre lavoro a mezzo di lavoro.
RDG: Quale ruolo potrebbe ricoprire lo Stato in questa prospettiva?
DB: Queste politiche non possono essere basate sugli incentivi alle imprese che finanziano solo l’occupazione esistente. La nostra idea è invece quella di creare nuova industria. Bisogna disegnare una politica straordinaria dell’occupazione e creare un nuovo modello di sviluppo dove la manifattura non pensi solo ai beni di consumo individuali come le automobili. Questo discorso non può farlo solo il mercato, ci vuole una programmazione pubblica del mercato, cioè di socializzazione dell’economia molto più forte di quella esistente.
RDG: Crede che la sinistra oggi al governo riuscirà a fare questo discorso, in tempi in cui lo Stato è visto come un Leviatano burocratico da tagliare e smantellare?
DB: La cultura della sinistra è, in effetti, spesso inadeguata, perché pensa che la crisi sia dovuta allo statalismo, mentre è il risultato di un mercato che non funziona e però continua a imporre le regole. La finanza domina la produzione, non distribuisce ricchezza e non crea nuovo lavoro. Nessun Paese al mondo ha recuperato i livelli di occupazione del 2007, anzi tutti i Paesi di prima industrializzazione si stanno rassegnando a non avere più la piena occupazione. È un fatto grave, che avrà enormi conseguenze. Per tornare ad avere occupazione si punta alla guerra commerciale, perché tutti vogliono aumentare le esportazioni. Questo porterà a rinnovare le tensioni tra gli Stati. Queste tensioni le vedo crescere anche in Europa. Si sente discutere di uscire dall’euro, ma in realtà siamo di fronte al fatto che senza nuova politica economica la struttura europea non reggerà e si tornerà al conflitto tra Stati.
RDG: Il populismo fa leva sul disagio sociale e sulla disoccupazione di massa e di lunga durata creata dalle politiche di austerità. Quali sono per il sindacato le soluzioni per dare risposte alternative?
DB: Una delle possibilità, e al tempo stesso necessità, è senz’altro quella di generalizzare la cassa integrazione alle piccole e medie imprese e al commercio. La CIG è pagata da imprese e lavoratori e ha dimostrato di essere uno strumento intelligente e utile socialmente. Si pagano contributi piccoli quando non c’è crisi per poterli usare in caso di crisi per un certo periodo. La CIG ordinaria è uno strumento di difesa del reddito dei lavoratori e va generalizzata. I soldi pubblici spesi per la cassa integrazione in deroga, 1,5-2 miliardi di euro all’anno possono invece essere spostati, impiegandoli per dare l’indennità di disoccupazione ai lavoratori precari. Moltissime forme del lavoro precario, infatti, non hanno sostegno al reddito.
RDG: Per loro si può pensare a una forma di sostegno come il reddito di base?
DB: Noi non siamo favorevoli al reddito di cittadinanza. Penso che alle persone bisogni dare un lavoro, perché il lavoro crea autonomia e identità sociale. Erogare 1.200 euro per pulire un fiume, ad esempio, mi pare preferibile all’idea di dare 600 euro senza corrispettivi. Il dibattito, tuttavia, è ampio e complesso ed è da approfondire. Ritengo che sia altrettanto essenziale pensare a uno strumento di sostegno per la povertà delle famiglie. In passato è stato sperimentato come reddito di inserimento, tramite il rispetto di alcune clausole, come quella di mandare i bambini a scuola. In generale, credo che questa misura dovrebbe rientrare in programmi di sostegno contro l’emarginazione sociale.
RDG: Il ministro del lavoro del governo Letta, Enrico Giovannini, ha provato a lanciare il SIA (Sostegno all’Inclusione Attiva) finanziandolo con 40 milioni di euro all’anno per tre anni. Ritiene sufficienti queste risorse?
DB: Credo che occorra fare programmi ben più consistenti. Quello di Giovannini ha, difatti, avuto un impatto minimo.
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