by Chiara Cruciati, il manifesto | 29 Luglio 2016 9:30
La guerra di propaganda del presidente Erdogan si combatte anche sui corpi. Sui cadaveri dei golpisti uccisi il 15 luglio non passa la rimozione del tentato putsch ma la sua memoria, necessaria all’esaltazione dell’uomo forte che fa a brandelli anche l’ultima occasione di decenza.
Questo hanno fatto le autorità turche pochi giorni fa quando, tra l’annuncio di super carceri e super tribunali, hanno infilato anche la costruzione di un cimitero ad hoc per i golpisti. Sono serviti solo due giorni a metterlo in piedi, un lotto di terra spianata a poca distanza da un canile, nella parte orientale di Istanbul.
Per i morti nessuna pietà, né laica né religiosa: non saranno celebrati riti funebri, né saranno erette lapidi. Nessun nome, solo un cartello (“Cimitero dei traditori”) a eterna memoria del regime che non perdona: l’unica parola che resterà impressa sui cadaveri lì sepolti. «I passanti – ha detto tronfio il sindaco di Istanbul Topbas – li malediranno». Ad avvelenare un clima già polarizzato interviene anche l’ufficio turco per gli affari religiosi: con una direttiva nega preghiere e funerali.
Il resto lo fa la paura della punizione collettiva che si è abbattuta sulla Turchia e circuisce i vivi. Per ora nel cimitero è sepolto un solo defunto (pare si tratti del capitano Mehmet Karabekir, 34 anni e due figli): la madre non ha reclamato il corpo, per timore di rappresaglie e violenze, all’ordine nel giorno nella Turchia delle epurazioni di massa.
Il controllo è saldo nelle mani del sultano, almeno per ora, fino a quando la destabilizzazione dell’intera società non esploderà in tutta la sua gravità. Lo stato di emergenza continua a ingurgitare diritti e libertà e a costruire le basi nuove del regime: ieri il ministro degli Interni Efkan Ala ha annunciato, come misura precauzionale, la consegna ai poliziotti turchi di armi pesanti.
«La polizia otterrà presto armi pesanti nella quantità necessaria all’uso. Non è nostra intenzione agire come se nulla fosse accaduto». Così, aggiunge, «si impedirà a persone inaffidabili e a malati di mente di agire, non saranno in grado di concretizzare le loro cattive intenzioni».
Simili armi in mano alla polizia, per le strade delle città, nei luoghi di potenziali proteste, non rassicurano visti i precedenti: agli agenti, tre anni fa, bastarono cannoni ad acqua e gas lacrimogeni per uccidere a Gezi Park. La militarizzazione della società è una realtà non più relegata solo al massacrato sud-est kurdo, alle prese con esercito e polizia da un anno.
A ciò si accompagnerà, è il secondo annuncio di Ala, una ristrutturazione dei servizi segreti. Facile immaginare che la rete tentacolare delle spie di Stato si ampli ulteriormente alla caccia di presunti traditori (in un paese normale, oppositori).
Non solo: tutto finirà tra le mani sapienti del sultano. Il controllo del Mit, i servizi segreti turchi, potrebbe infatti passare dall’ufficio del primo ministro a quello della presidenza. Lo ha proposto lo stesso Erdogan in un incontro con una delegazione parlamentare: altro passo verso il presidenzialismo che in Turchia è realtà senza bisogno di scomodare riforme costituzionali.
La china presa da Ankara e che aggrava una situazione già molto poco democratica fa parlare anche l’Onu: ieri il segretario generale Ban Ki-moon, in una telefonata con il ministro degli Esteri Cavusoglu, ha espresso «profonda preoccupazione» per l’ondata di arresti e chiesto ad Ankara di rispettare i propri obblighi in termini di diritti umani.
Nelle stesse ore il governo, con un decreto legge pubblicato in gazzetta ufficiale e approvato sotto lo stato di emergenza, chiudeva definitivamente 131 media, accusati di legami con la rete dell’imam Gülen, considerato da Erdogan ideatore del tentato golpe. Così scompaiono tre agenzie stampa (tra cui Cihan, della rete Feza di cui fa parte anche il giornale commissariato Zaman), 16 canali tv, 23 stazioni radio, 45 quotidiani, 15 riviste e 29 case editrici. Tutti i documenti, i beni mobili e immobili diventeranno di proprietà dello Stato.
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