Trattato commerciale USA-Europa. Le lobby dettano legge

by Monica Di Sisto e Alberto Zoratti, Rapporto sui Diritti Globali 2015 | 11 Luglio 2016 19:39

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A livello globale, grazie a movimenti e gruppi di pressione critici, è cresciuta l’attenzione e la preoccupazione per gli effetti che potrà produrre in campo ambientale e sociale il negoziato in corso tra Stati Uniti ed Unione Europea sul TTIP, il Transatlantic Trade and Investment Partnership, teso a liberalizzare ulteriormente i mercati dei due continenti, integrando normative e rimuovendo barriere. Per Cécile Toubeau, coordinatrice del settore Commercio internazionale per il Centro Studi Transport and Environment, i rischi sono molti per il possibile abbassamento degli standard, dell’inossservanza di clausole sociali e ambientali, così come per la lotta ai cambiamenti climatici. La Commissione Europea, denuncia Toubeau, è da tempo sotto attacco da parte di potentissime lobby.

 

Rapporto sui Diritti Globali: I due approcci diversi alla gestione del rischio ambientale tra USA ed Europa sono la principale preoccupazione per la società civile di entrambe le sponde dell’Atlantico. Vede come credibili le rassicurazioni della Commissione Europea sul mantenimento degli standard ambientali esistenti?

Cécile Toubeau: La mia preoccupazione non è il mantenimento degli standard esistenti, ma il progressivo restringimento dello spazio politico per avere standard ambientali più ambiziosi nel futuro. Dubito che il TTIP, almeno in una prima fase, cambi qualcosa nelle politiche attuali, ma di certo restringerà o limiterà lo spazio per possibili nuovi standard. Nel 1987 le Nazioni Unite coniarono il termine “sviluppo sostenibile”, così che «soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle future generazioni di far fronte ai propri». Negli ultimi 28 anni, almeno a livello teorico, lo sviluppo sostenibile ha costituito un principio di riferimento per le politiche globali in cui i tre pilastri – sviluppo economico, sviluppo sociale e protezione ambientale – sono stati considerati profondamente interdipendenti e reciproci. Molti accordi di libero scambio (Free Trade Agreements o FTAs) prevedono misure che influenzano o riguardano direttamente lo sviluppo sostenibile, ma al momento dobbiamo constatare che hanno fatto poco o niente per sostenere quell’approccio, anzi spesso lo hanno limitato.

 

RDG: I negoziati TTIP e CETA sembrano voler indebolire molte delle misure relative all’ambiente e alla lotta ai cambiamenti climatici, ad esempio alla Direttiva sulla qualità dei carburanti (Fuel Quality Directive). Che cosa è successo, e come la Commissione Europea sta gestendo questa vicenda?

CT: È difficile capirlo, in effetti. La Commissione Europea non ha mai risposto ai nostri report che denunciano questa deriva. Fin dalla sua approvazione, nel 2009, la Direttiva sulla qualità dei carburanti, nata per ridurre l’impatto sul clima dei carburanti per i trasporti, è stata sotto attacco da parte di potentissime lobby che non vogliono una riduzione nell’utilizzo dei carburanti fossili più inquinanti, come, ad esempio, il gas di scisto o le sabbie bituminose. Se hanno ragione alcune recenti inchieste, la Commissione ha deciso di indebolire la Direttiva e allineare i suoi standard regolatori ai desideri delle compagnie petrolifere, così come alle aspettative dei governi canadese e statunitense. La versione “aggiornata” che è circolata è meno efficace nel ripulire l’Europa dai carburanti fossili più inquinanti, soprattutto nel settore dei trasporti, e nell’impedire l’ingresso in Europa di quelli più inquinanti, in particolare le sabbie bituminose. Temo che con l’entrata in vigore del capitolo della Cooperazione regolatoria in accordi commerciali di vasta portata proprio come il CETA con il Canada, e il TTIP con gli Stati Uniti, si tenti di legittimare il coinvolgimento di altri Paesi e dei loro interessi nelle nostre politiche e viceversa.

 

RDG: Casi clamorosi come quello della Lone Pine Resources contro il Canada e della Vattenfall contro la Germania dimostrano quanto la previsione di una clausola ISDS negli accordi commerciali possa minare l’efficacia delle politiche ambientali. Crede che la proposta avanzata dalla Commissione Europea per un ISDS riformato possa essere efficace nell’affrontare questi problemi?

CT: No, sinceramente non lo penso. Credo che l’unico modo per evitare situazioni simili sia di rimuovere la clausola ISDS dagli accordi commerciali e di lasciare fare il proprio mestiere alle Corti nazionali e locali. È importante sottolineare che l’articolo 207-3, paragrafo 2, del Treaty on the Functioning of the European Union (TFEU)prevede che «il Consiglio e la Commissione sono responsabili di assicurare che gli accordi negoziati siano compatibili con le politiche e norme interne dell’Unione». Così le istituzioni dell’UE non dovrebbero in nessun caso negoziare e concludere accordi commerciali che possano limitare la competenza dell’UE di definire le sue politiche, o confliggere con le norme interne esistenti o future. È coerente con questa premessa il fatto che l’Unione Europea debba mantenere la sua capacità, dopo l’eventuale entrata in vigore del TTIP, di adottare misure discriminatorie «se necessario, per conseguire obiettivi di politica pubblica»: qualsiasi limitazione di questo potere sarebbe priva di giustificazione alla luce del TFEU e quindi il trattato ne rappresenterebbe una chiara violazione. L’approccio proposto dalla Commissione, pur dichiarando l’obiettivo di proteggere il processo decisionale e l’autorità di regolamentazione dell’Unione Europea, è destinato ad essere inefficace in questo senso e mette tale autorità a rischio. Se il TTIP, infatti, includesse un meccanismo di ISDS sarebbe esso e non, ad esempio, la Corte di giustizia europea a decidere se le leggi europee sono conformi agli standard di trattamento non discriminatorio previste nel trattato TTIP e se le deroghe dal principio di non discriminazione siano giustificate alla luce degli obiettivi di politica pubblica dell’UE. Una grave violazione.

 

RDG: il capitolo sullo Sviluppo sostenibile del TTIP non contiene alcun meccanismo vincolante per imporre il rispetto delle clausole sociali e ambientali. Questa scelta è coerente con la strategia di comunicazione esterna della Commissione, che pone lo sviluppo sostenibile come un pilastro della politica estera europea?

CT: L’errore di fondo, a mio giudizio, sta proprio nel non voler intrecciare lo sviluppo sostenibile con tutti gli aspetti del trattato – ma nel volerlo trattare come un’appendice o un figliastro indesiderato nell’accordo globale. Se lo si volesse davvero contemplare, bisognerebbe integrarlo nelle altre aree tematiche, con una sezione specifica in cui si definiscono gli obblighi relativi rispetto allo specifico capitolo. Nel fare questo, le parti sarebbero in grado di invocare le disposizioni sulla risoluzione delle controversie tra Stato e Stato applicabili a quelle aree tematiche e, ove previsto, beneficiare di corrispondenti rimedi e sanzioni quando si verificano le violazioni, come ad esempio il ripristino di tariffe e quote. Il capitolo sui veicoli nel TTIP, a quanto sappiamo, mira a ridurre le tariffe (al 5,2% per gli Stati Uniti e al 3,5% per l’UE), ad armonizzare alcune norme di sicurezza, ad allineare il lavoro congiunto UE-USA nella Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Europa (UNECE) e a cooperare su questioni future e di ricerca e sviluppo, come nel caso della tecnologia dei veicoli elettrici. Una sezione aggiuntiva potrebbe essere inserita sull’istituzione di un impegno transatlantico a promuovere e sostenere le politiche nazionali e la legislazione – sia attuali sia future – che promuovono lo sviluppo sostenibile. Siamo molto lontani da ciò.

 

RDG: I grandi gruppi europei di produttori dell’energia stanno spingendo per l’inserimento di uno specifico capitolo del TTIP dedicato all’energia. Che cosa pensa di questa scelta?

CT: Stiamo cercando di saperne di più. Pensare che se si riesca, attraverso il trattato, a forzare il bando per il greggio statunitense, e ciò possa rappresentare la mossa decisiva per avere energia più a buon mercato in Europa, è di un’ingenuità sconcertante. Questo, semplicemente, non lo farà succedere. Eppure sembra essere l’obiettivo dichiarato di molte delle recenti azioni di lobby di quei gruppi, e il mantra che ripetono molti decisori politici che sembrano sostenerne le istanze. Mi piacerebbe ragionare di cifre e di concrete possibilità sia con gli uni sia con gli altri, ma le modalità in cui il trattato viene negoziato, come sappiamo, non lo consentono.

 

RDG: A dicembre 2015 Parigi diventa la capitale delle politiche sui cambiamenti climatici. Le attuali tendenze delle emissioni mostrano quanto i tentativi fatti a livello globale di affrontare i cambiamenti climatici risultino inefficaci. Che cosa possiamo aspettarci dai negoziati della COP21?

CT: C’è un elefante nella stanza dei negoziati sul clima, che tutte le parti fanno finta di non vedere da anni: i trasporti. La prossima Conferenza delle parti deve indicare chiaramente che l’aviazione e i trasporti marittimi internazionali devono essere soggetti a obiettivi di riduzione delle emissioni insieme a tutti gli altri Paesi e settori. Questi settori causano l’8% dei problemi al nostro clima e un accordo efficace non è possibile senza la loro inclusione. 18 anni dopo il Protocollo di Kyoto, l’International Civil Aviation Organisation (ICAO) e l’International Maritime Organization (IMO) continuano a non prendere le decisioni necessarie. È previsto che le emissioni di gas serra provenienti da entrambi i settori aumentino fino al 250% e al 270% in più, rispettivamente per le spedizioni e i trasporti aerei entro il 2050. Con una crescita così fuori controllo sarà chiaramente in pericolo l’obiettivo comune di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi. L’accordo di Parigi deve indicare chiaramente che debbono essere fissati degli obiettivi di riduzione e che ICAO (International Civil Aviation Organization) e IMO (International Maritime Organization) devono concordare le misure idonee per attuare tali riduzioni nel più breve tempo possibile. Le parti dovrebbero includere anche le emissioni di gas serra causate da trasporti e aviazione interni nei loro piani nazionali di riduzione delle emissioni (Intended National Determined Contributions – INDCs). È un vero elefante: come fanno a non vederlo?

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