Theresa May, primo ministro post-Brexit
LONDRA Nell’ultimo coup de théâtre di una temperie politica post-referendaria a dir poco tumultuosa, Andrea Leadsom ha annunciato ieri a sorpresa il suo ritiro dalla corsa alla leadership conservatrice, aprendo di fatto la strada all’installazione della rivale Theresa May a 10 Downing Street.
I Tories non perdono mai tempo. Dopo essersi avventati gli uni sugli altri in una lotta per la leadership sulla scia delle dimissioni di David Cameron che fa sembrare Westminster l’Italia dei Borgia, il pragmatismo dirigista che da sempre li contraddistingue ha nuovamente preso il sopravvento. E poi ci sono i mercati che friggono da calmare. A pochi giorni dall’aver avanzato la propria sfida alla guida del partito e del paese approfittando della faida Gove-Johnson, le candidate sopravvissute erano la pro-leave ministra per l’energia Andrea Leadsom e la ben più papabile e “prime ministerial” decana del ministero dell’interno Theresa May, una remainer che però aveva subito placato gli ultrà e infranto le fantasie di chi vuole un referendum 2.0 dicendo chiaro e tondo che «Brexit is Brexit».
Il ritiro di Leadsom è meno choccante di quello di Boris Johnson e meno ignobile del tradimento di quest’ultimo da parte di Michael Gove, ma è pur sempre il terzo Tory pro-Brexit a cadere dopo aver vinto il referendum. Semisconosciuta, già inguaiata per aver abbellito il proprio curriculum nella finanza Leadesom partiva come candidata di netta minoranza rispetto alla veterana rivale. E dopo un weekend trascorso a ponderare gli esiti nefasti di una sua precedente dichiarazione alla stampa in cui sosteneva di essere più adatta a governare di una persona senza figli (cfr. «la snaturata» Theresa) ieri Leadsom ha precipitosamente ritirato la propria candidatura consentendo così di fatto l’incoronazione della 59enne May, che ora si ritroverà primo ministro senza uno straccio di primarie già domani sera anziché dover attenderne l’esito fissato per il 9 settembre. «Sono giunta alla conclusione che gli interessi del nostro paese sono meglio serviti da un leader che ha un forte appoggio» ha detto, alludendo alla stragrande maggioranza dei deputati schierati dietro a May. Che sarà la seconda tory a governare il paese, dopo la compianta Thatcher.
David Cameron – l’ultimo leader conservatore, dopo la stessa Thatcher e il di lei successore John Major, ad affogare nelle sabbie mobili dell’irrisolvibile appartenenza all’Europa – ha già chiamato i traslocatori a svuotare 10 Downing Street dai sei anni del suo domicilio. Il primo ministro uscente terrà oggi il suo ultimo meeting con il governo e domani l’ultima sessione di Prime Ministers’s Questions, il settimanale contraddittorio fra maggioranza e opposizione. Già mercoledì sera, dopo la prammatica rassegnazione delle dimissioni nelle mani della monarca, May sarà premier.
Cameron si è detto felice che non ci sia l’interregno di nove settimane (la durata della campagna per la leadership) e ha confermato che le darà tutto il suo sostegno. Dal canto suo, il neo primo ministro si è detta onorata e toccata dell’acclamazione; ha reso omaggio ai suoi colleghi e a David Cameron per la leadership svolta. Ha ribadito che il Brexit è ormai un fatto e che indietro non si torna. Si è detta pronta a gestire la delicata – e immensa – fase di rinegoziazione degli accordi commerciali con l’unione Europea, ha ricordato la necessità di unire il paese e ha anche fatto riferimento alla visione di una Gran Bretagna “che non lavora solo per i pochi privilegiati, ma per tutti”, nel solco del paternalista One Nation Conservatism che David Cameron ha immediatamente archiviato non appena preso il potere. Su questa lunghezza d’onda del capitalismo dal volto umano è anche il suo proposito di contenere gli eccessi della finanza dei bonus fuori controllo e delle acquisizioni selvagge.
Le opposizioni, gli euro-entusiasti Libdem – un minimo ringalluzziti dall’esito del referendum (che però rischia di trasformarli in una specie di Ukip con il segno meno davanti) e il travagliatissimo Labour party, hanno immediatamente chiesto elezioni anticipate, un anelito che prevedibilmente May condivide poco e che farà di tutto per soffocare. In fondo non è che l’ennesimo leader non eletto, una costante ormai dentro o fuori dall’Unione Europea.
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