Zygmunt Bauman: Perché i demagoghi hanno successo
Mettiamo in ordine tutto quello a cui stiamo assistendo. La Brexit. La crescita dei consensi di Donald Trump, un personaggio che fino a ieri sarebbe stato il protagonista di una commedia di non ottimo gusto e non il candidato serio alla presidenza degli Usa. Il centro Europa che dimentica di essere cuore del Continente e predilige il ripristino dei muri eretti per separare Paesi come Ungheria o Polonia dall’agognato Occidente. La rivolta contro l’”Europa di Bruxelles e dei banchieri”. L’accettazione della volgarità come linguaggio corrente.
Forse tutto questo è, semplicemente, la fine di un mondo. In altre parole: è probabile che lo sgomento, l’incapacità di capire le cose che accadono sotto i nostri occhi perché contrarie alla nostra razionalità occidentale (rapporto causa-effetto; il potere della parola e del sapere; il rispetto, se non per l’altro, almeno per il proprio benessere e per quello dei figli e nipoti) siano la prova del fatto che siamo davanti a un passaggio d’epoca, una rivoluzione nell’universo della modernità. Tanto che il rapporto tra le élite e ciò che viene chiamato “popolo” è come se si fosse interrotto, come se al posto della fede in un progresso che comporta e lega insieme elementi come democrazia, libertà, benessere, visione del futuro, fosse subentrata la nostalgia di un passato mitico e inventato; una specie di utopia retrograda. Insomma, Farage e Trump, il populismo demagogico di un Orbán (ungherese) o un Kaczynski (polacco), di una Le Pen o un Salvini, come versione laica della reinvenzione del passato, che finora abbiamo attribuito solo all’Islam politico. Ossia: davanti alla prospettiva di un domani che non è migliore prediligiamo uno “ieri” usato, un po’ ammaccato, ma rassicurante.
Lo spiega, in questa intervista con “l’Espresso”, Zygmunt Bauman, il più filosofo tra i sociologi e il più sociologo tra i filosofi, il quale proprio in questi giorni ha consegnato al suo editore inglese un testo dedicato alla nostalgia come forma di utopia. Significa grosso modo questo: quando il presente si manifesta come una vita priva di senso e senza qualità; quando le nostre città sono piene di gente considerata superflua, quando il futuro suscita angoscia anziché speranza, siamo propensi a inventarci una specie di “passato migliore”. Nella volontà di uscire dalla Ue, manifestata dal referendum britannico, c’è un elemento di nostalgia (quindi di invenzione del passato) verso un Regno Unito, simpatico, civile, ordinato, dove il bobby disarmato aiuta la vecchietta ad attraversare la strada e il lattaio lascia il latte in una bottiglia fuori porta, e nessuno lo ruba. Bauman assume questa impostazione e allarga l’analisi: «Stiamo assistendo a una moltiplicazione delle crisi. Ogni giorno le pagine dei quotidiani, così come i nostri apparecchi radio e schermi di tv e computer, traboccano di notizie sulle nuove crisi, su situazioni che fino a ieri ignoravamo, su Paesi di cui a malapena sapevamo il nome. Ho il sospetto che dietro a tutte queste crisi (o dietro la maggior parte di esse) ci sia una specie di meta-crisi».
Cosa è la meta-crisi, Zygmunt Bauman?
«È la crisi del nostro modo di essere nel mondo, un modo di vita dominante (nella nostra “moderna” parte del globo terrestre) negli ultimi secoli. Lo chiamerei “una vita per l’avvenire”, la speranza di un futuro migliore del presente. Il presente, così abbiamo pensato, non era altro che un momento del divenire di un futuro. Un futuro, che, a sua volta, sarebbe arrivato inevitabilmente, aiutato dallo sforzo e dalle azioni degli umani, ma rispondente alle ferree leggi del progresso. Pensavamo a un movimento dallo stato attuale, di disagio, verso una vita più agevole e più consona ai desideri degli umani. Ecco, penso che la fiducia nella bontà del futuro stia svanendo, gradualmente ma impietosamente».
E il progresso?
«È cambiato di segno. Oggi evoca più paura che speranza. Paura a causa della nostra ignoranza, indolenza, incapacità di far fronte alle nuove richieste ed esigenze, alle sfide della vita. In altre parole, il progresso si associa al timore di restare indietro, di perdere la posizione sociale e il benessere guadagnati con fatica. Vorrei richiamare l’Angelus Novus».
È il quadro di Klee, che servì a Walter Benjamin per definire il concetto del progresso. Vale la pena di citarlo per esteso: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
«Ecco, questo angelo oggi è rovesciato: è spinto all’indietro dalla forza degli incubi della decadenza di cui è foriero l’avvenire minaccioso. Le esperienze del passato, imperfette ma sperimentate e quindi ben conosciute, ci appaiono molto più sopportabili delle invenzioni imprevedibili del futuro».
Ancora ieri, e basti pensare a un Clinton, un Prodi, un Mazowiecki, un Havel, le élite politiche si caratterizzavano per una visione del mondo e dell’avvenire. E grazie alla rappresentanza di questa visione riuscivano a mobilitare l’elettorato. L’elettorato a sua volta non era una clientela da conquistare, ma consisteva in classi con interessi razionali da difendere e desideri conformi alla realtà da proiettare nel futuro. Oggi, abbiamo invece Trump, Le Pen. La paura dell’avvenire segna una sconfitta delle élite?
«Negli ultimi anni si è verificato qualcosa che forse non è una separazione totale, ma sicuramente un disturbo serissimo nella comunicazione tra le élite politiche e gli “oi polloi”».
Cioè la moltitudine, la massa amorfa.
«L’élite politica, nel suo modo di pensare (e di agire) è sempre più globalizzata, perché costretta a confrontarsi con potenze e poteri indipendenti dalla politica e sempre più extraterritoriali. Si tratta di un’élite che ha altre preoccupazioni e diverso linguaggio rispetto alle angosce che attanagliano la gente che essa in teoria dovrebbe rappresentare. I vari Trump, Orbán, Boris Johnson, Kaczynski o Le Pen (è un elenco che cresce ogni giorno) hanno il vantaggio di dire pane al pane. E sanno quanto sia facile appellarsi alle emozioni degli “oi polloi”. Basta descrivere la realtà adattando il modo di raccontare agli orizzonti mentali dei propri ascoltatori; usare lo stesso idioma che utilizzano i commensali al pub quando dopo un paio di boccali di birra condividono i sentimenti di rabbia e di odio nei confronti dei presunti colpevoli delle proprie angosce».
Solo difficoltà di comunicazione, o invece furbizia e dei nuovi leader senza scrupoli?
«C’è una seconda parte della mia analisi, forse più significativa. Per quale motivo Trump e i suoi simili trovano così numerosi e grati ascoltatori? Qui dobbiamo tornare alla prima domanda di questa conversazione. Il voltare le spalle alle autorità politiche che definirei “ortodosse” o tradizionali, con tutti i loro innati difetti, è dovuto principalmente all’uso ormai abituale delle autorità statali a non mantenere le promesse. I demagoghi hanno quindi un’ottima base per attribuire l’incapacità delle autorità di mantenere la parola data alla corruzione, all’ignoranza, alla viltà o addirittura alle cattive e perfide intenzioni. È sempre più diffusa quindi la convinzione che la democrazia abbia fallito e tradito i suoi compiti. Che sia inefficiente e indolente. Che è debole e incapace di agire. In parole povere: è da buttar via. Meglio rivolgersi ai demagoghi».
E cosa chiediamo a loro?
«Il ritorno a un certo passato, per quanto i nostri ricordi siano avvolti nella nebbia, o artificialmente colorati. In concreto: vogliamo un capo potente in grado di imporre il governo della mano forte. Vogliamo un potere che si assuma la responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni, togliendola dalle nostre spalle. Bentornato quindi, grande capo, e tutto il passato sarà dimenticato o comunque, perdonato (direbbe Nietzsche: abbasso tu, Apollo con la tua disgraziata predilezione per l’armonia delle diversità; torna dal tuo esilio Dioniso a capo di una massa che avanza ballando a righe serrate)».
Quali sono le contromisure che possiamo prendere?
«Non commettere l’errore, mortale, di sottovalutare, o peggio disprezzare il fenomeno dei demagoghi e la nostalgia per il governo della mano forte. Non si tratta di un’idea stramba prodotta da pazzi marginali: siamo invece di fronte a una conseguenza prevedibile e quasi inevitabile del divorzio tra il potere e la politica (un divorzio da me tante volte descritto e segnalato). Abbiamo a che fare col confronto tra un potere globalizzato e svincolato dal controllo della politica da un lato e la politica locale e sofferente per la cronica deficienza del potere, dall’altro».
C’è anche l’elogio dell’ignoranza. Un tempo i politici cercavano di mostrarsi come persone colte. Non molti anni fa, invece, l’ex ministro Tremonti a un comizio disse: “Siamo gente che raramente prende in mano un libro”. Il premier Renzi si fa fotografare mentre gioca alla Playstation e mai assorto in lettura di un classico della letteratura. Perché l’ignoranza è diventata un valore?
«Una volta (fino a poco tempo fa) una grande e non scrivente maggioranza dell’umanità leggeva ciò che gli altri scrivevano. Questa divisione del lavoro è stata abolita, grazie a Facebook, Twitter e i loro simili. È bastata un’operazione facile: abbassare significativamente l’asticella del livello della scrittura e della pubblicazione. Non si tratta di una svolta del tutto negativa. Milioni di persone sono oggi in grado di porgere liberamente e direttamente, a milioni di altri esseri umani, materiali da leggere. Ma si è trattato di un “package deal”, un affare in cui c’è uno scambio. In cambio di questa libertà di comunicazione, l’esercizio della scrittura è slegato dal dovere della lettura. L’uomo che scrive, oggi, non ha tempo per leggere, e tantomeno avverte la necessità di leggere. Un drammaturgo russo del Settecento, Denis Fonvizin, fa dire a un suo protagonista, detto Il minorenne: “Io non leggo. Io stampo da me i miei testi”. Oggi tutti possiamo (anche se grazie a dio non tutti lo vogliamo) diventare come quel personaggio. Però non sono d’accordo con l’ipotesi che l’ignoranza sia diventata un valore. La verità è che l’ignoranza non è più un ostacolo alla carriera, all’ambizione di diventare famosi e all’appagamento della propria vanità (e nei sogni di molte persone al perseguire i profitti molto concreti). Anche per insultare anziché argomentare ci vuole una certa preparazione e qualità non indifferenti».
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